Le Luci e Vedute: saggio dottrinario e giurisprudenziale

Le Luci e Vedute

Saggio dottrinario e giurisprudenziale costantemente aggiornato in forza dei collegamenti ipertestuali con sentenze della cassazione attuali

 

Articolo aggiornato al 30 agosto 2023

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Luci e vedute – II^ edizione 9.3.2016

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Luci e Vedute – pdf – I^ edizione 24.3.2011

 

 

A) Introduzione

Nell’ambito delle distanze tra le costruzioni ricopre un ruolo fondamentale l’istituto anche questo di matrice civilistica delle “luci e Vedute” riportato nel Libro III – Capo II – sezione VII – artt. 900 e ss.

In tale paragrafo si cercherà di affrontare, con un taglio sistematico giurisprudenziale, la tematica delle luci e delle vedute in alcuni dei loro aspetti, essendo argomenti di vasta portata.

Orbene, in linea di principio l’interesse di ciascun proprietario a ricevere aria e luce dalle finestre del proprio edificio, rispettando le dovute distanze come si avrà modo di specificare, è potenzialmente in conflitto con l’interesse del vicino a non trovarsi esposto a sguardi indiscreti o a minacce della sicurezza propria e dei propri beni.

Il codice civile regola in maniera dettagliata la possibilità di ottenere luce e aria dal fondo del vicino aprendo delle finestre o balconi sul muro che, oltre a far entrare luce e aria nella costruzione, permettono anche di guardare il fondo del vicino, fatto che non sempre potrebbe essere gradito per le resistenze del vicino.

Pertanto, pur non volendo essere ripetitivo, la funzione principale di queste norme sta nella necessità di contemperare due esigenze contrapposte entrambe meritevoli di tutela.

 

A)   Da un lato il diritto del proprietario del fondo a goderne nel modo migliore possibile. Nel caso delle luci e delle vedute ciò consiste nella possibilità di illuminare ed arieggiare meglio gli ambienti per una migliore fruibilità e salubrità.

B)    Dall’altro lato, in contrasto, vi è il diritto del vicino a non vedere lese la propria riservatezza e sicurezza che potrebbero essere effettivamente compromesse dall’apertura di finestre.

Le aperture praticabili nel muro rivolto verso il fondo altrui sono giuridicamente (Codice Civile) qualificate finestre e possono essere esclusivamente di due: le luci e le vedute.

art. 900 c.c.  Specie di finestre

Le finestre o altre aperture sul fondo del vicino sono di due specie: luci, quando danno passaggio alla luce e all’aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del vicino; vedute o prospetti, quando permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente.

 

Secondo oramai un principio espresso a più riprese dalla Giurisprudenza e della dottrina in tema di aperture sul fondo del vicino deve escludersi[1] l’esistenza di un tertium genus diverso dalle luci e delle vedute; ne consegue che l’apertura priva delle caratteristiche della (o del prospetto) non può che essere qualificata giuridicamente come luce.

Sul punto di recente la Cassazione

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|17 novembre 2021| n. 34824

ha affermato che in tema di aperture sul fondo del vicino, non ammettendo la legge l’esistenza di un “tertium genus” oltre alle luci ed alle vedute, va valutata quale luce e, pertanto, sottoposta alle relative prescrizioni legali, anche in difetto dei requisiti a tale scopo prescritti dalla legge, l’apertura che sia priva del carattere di veduta o prospetto. In tal caso, dunque, il proprietario del fondo vicino può sempre pretenderne la regolarizzazione, tenuto conto che il possesso di luci irregolari, sprovvisto di titolo e fondato sulla mera tolleranza del vicino, non può condurre all’acquisto, per usucapione della corrispondente servitù.

 

Differente dal concetto di luci e vedute è il diritto di panorama.

Il diritto di panorama è il diritto di ciascuno di godere dello spazio, della luce e, per quando possibile, del verde nella prossimità della propria abitazione.

Questo diritto, tuttavia, non corrisponde a una specifica fattispecie normativa.

La sua tutela è dunque regolata dalle medesime norme sulle distanze fra le costruzioni, sulle luci e sulle vedute (artt. 900-907 c.c.) e, più in generale, dal diritto di proprietà (art. 832 c.c.).

Secondo la Suprema Corte[2] la panoramicità del luogo consiste in una situazione di fatto derivante dalla bellezza dell’ambiente e dalla visuale che si gode da un certo posto che può trovare tutela nella servitù altius non tollendi[3], non anche nella servitù di veduta, che garantisce il diritto affatto diverso di guardare e di affacciarsi sul fondo vicino.

A parità di condizioni generali, il panorama costituisce un vantaggio, una qualità positiva per un appartamento, di cui accresce il pregio e, di conseguenza, il valore economico.

Allo stesso modo della posizione, dell’esposizione, dell’altezza del piano rispetto al suolo, il panorama raffigura una qualità, specifica e individuale, la cui esistenza accresce, in misura più o meno considerevole, il valore dell’unità abitativa anche rispetto alle altre unità immobiliari presenti nello stesso edificio.

Tale violazione, logicamente comporta un risarcimento specifico e sul punto, di recente, è intervenuto anche il Consiglio di Stato[4] secondo il quale, il  cd “diritto al panorama”, di matrice prevalentemente pretoria, viene ricondotto nell’ambito delle norme del Codice Civile inerenti alle distanze, alle luci ed alle vedute (artt. 900 – 907 c.c.).

In particolare, in tema di diritto al panorama, la Corte di Cassazione[5] ha avuto modo di chiarire che si è in presenza di una “servitù altius non tollendi[6] nella quale l’utilitas è rappresentata dalla particolare amenità di cui il fondo dominante viene ad essere dotato per il fatto che essa attribuisce ai suoi proprietari il godimento di una particolare visuale, esclusa essendo la facoltà del proprietario del fondo servente di alzare costruzioni o alberature – quand’anche per altri versi consentite – che pregiudichino o limitino tale visuale. La servitù in questione è una servitù negativa, perché conferisce al suo titolare non la facoltà di compiere attività o di porre in essere interferenze sul fondo servente, ma di vietare al proprietario di quest’ultimo un particolare e determinato uso del fondo stesso.

 

Poiché, dunque, il panorama costituisce un valore aggiunto ad un immobile, che ne incrementa la quotazione di mercato e che corrisponde ad un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, la sua lesione, derivante dalla sopraelevazione o costruzione illegittima di un fabbricato vicino, determina un danno ingiusto da risarcire: infatti, il pregiudizio consistente nella diminuzione o esclusione del panorama goduto da un appartamento e tutelato dalle norme urbanistiche, secondo determinati standard edilizi a norma dell’art. 872 c.c., costituisce un danno ingiusto, come tale risarcibile la cui prova va offerta in base al rapporto tra il pregio che al panorama goduto riconosce il mercato ed il deprezzamento commerciale dell’immobile susseguente al venir meno o al ridursi di tale requisito[7].

Occorre individuare i parametri utili per poter quantificare la somma dovuta.

A tal fine, la giurisprudenza[8] ha configurato, come termini di paragone, il pregio per il panorama di cui gode l’appartamento e che è riconosciuto dal mercato immobiliare ed il deprezzamento commerciale dell’immobile susseguente al venir meno della panoramicità.

 

Fatto questo necessario inciso sul diritto di panorama è opportuno già analizzare alcune problematiche sorte in merito alle scale, i ballatoi e le porte.

Secondo Giurisprudenza consolidata, avendo la funzione di consentire il passaggio delle persone non possono configurare vedute a meno che quando – indipendentemente dalla funzione primaria del manufatto – risulti obiettivamente possibile, in via normale, per le particolari situazioni o caratteristiche di fatto, anche l’esercizio della prospectio ed inspectio su o verso il fondo del vicino.

Infatti secondo alcune sentenze di merito[9] una porta non può essere considerata semplice luce irregolare, poiché la sua funzione non è quella di illuminare un locale e di consentire il passaggio dell’aria, ma quella di consentire il passaggio delle persone ovvero di impedirlo e quindi può essere aperta senza rispettare le distanze prescritte negli artt. 905 e 906 c.c. per le vedute, salvo che sia strutturata in modo da consentire di guardare nel fondo del vicino (porta – finestra).

In altre parole, si ha la dicotomia di porta-finestra quando tali aperture oltre al loro utilizzo principale (ossia il diritto di passaggio) permettono l’affaccio.

Tale principio è stato, come detto, espresso più volte dalla Corte di Cassazione[10], secondo la quale in tema di limitazioni legali della proprietà, le scale, i ballatoi e le porte, pur essendo fondamentalmente destinati all’accesso dell’edificio, e soltanto occasionalmente od eccezionalmente utilizzabili per l’affaccio, possono configurare vedute quando – indipendentemente dalla funzione primaria del manufatto – risulti obiettivamente possibile, in via normale, per le particolari situazioni o caratteristiche di fatto, anche l’esercizio della prospectio ed inspectio su o verso il fondo del vicino.

In tema, è rilevante anche altro intervento della Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 26 luglio 2016, n. 15458

a mente del quale l’art. 900 cod. civ. stabilisce che le finestre e le altre aperture sul fondo del vicino sono di due specie: “luci”, quando danno passaggio alla luce e all’aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del vicino; “vedute o prospetti”, quando permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente.
Essenziale rilievo, ai fini dello scrutinio della censura in esame, assume la definizione del concetto di “finestra” e di “altra apertura”.
Questa Corte – si continua a leggere nella sentenza in commento –  ha affermato che, ai fini dell’applicabilità delle norme di cui agli artt. 900 e segg. cod. civ., per “porta” deve intendersi un’apertura praticata in una parete o in una recinzione al fine di crearvi un passaggio, mentre per “finestra” (che può costituire veduta o luce a seconda che consenta o meno l’affaccio) deve intendersi quella apertura praticata nelle pareti esterne di un edificio al fine di consentire l’areazione e l’illuminazione degli ambienti interni (Sez. 2, Sentenza n. 1954 del 27/04/1989, Rv. 462590).
Anche il concetto di “apertura” presuppone un’apertura praticata in una parete o in una recinzione; anche se tale concetto è stato esteso dalla giurisprudenza fino a ricomprendervi la terrazza di copertura dell’edificio e il lastrico solare (Sez. 2, Sentenza n. 7267 del 12/05/2003, Rv. 562925; Sez. 2, Sentenza n. 5718 del 10/06/1998, Rv. 516271; Sez. 2, Sentenza n. 2084 del 05/04/1982, Rv. 419948; Sez. 2, Sentenza n. 2698 del 11/05/1979, Rv. 399018).
Va tuttavia considerato che l’”apertura” presuppone, in ogni caso, la realizzazione di una fabbrica, di un’opera creata dall’uomo; mentre non è configurabile un’”apertura” in mancanza di opera dell’uomo e con riferimento all’assetto naturale dei terreni. In altri termini, il concetto di apertura implica – anzitutto sul piano logico – il riferimento a costruzioni o installazioni umane; non vi può essere, invece, apertura se si è già all’aperto, nel naturale piano di campagna dei fondi.

A conclusione delle esegetiche argomentazione la Cassazione ha affermato il seguente principio:

A tenore dell’art. 900 cod. civ., le luci sono costituite dalle finestre e dalle altre aperture sul fondo del vicino che danno passaggio alla luce e all’aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo predetto; ne consegue che non costituisce “luce” una rete metallica apposta all’aperto sul confine col fondo del vicino, la quale non svolga la funzione di dare luce ed aria ad una fabbrica, ma serva solo alla protezione delle proprietà o – trattandosi di fondi in dislivello – anche di tutela della incolumità delle persone.

Sempre secondo la Cassazione[11] al fine di configurare la veduta da terrazze, lastrici solari e simili, è necessario che queste opere, oggettivamente considerate, abbiano quale destinazione normale e permanente, anche se non esclusiva, quella di rendere possibile l’affacciarsi sull’altrui fondo vicino, così da determinare il permanente assoggettamento al peso della veduta: e non occorre che tali opere siano sorte per l’esclusivo scopo dell’esercizio della veduta, essendo sufficiente che esse per l’ubicazione, la consistenza e la struttura, abbiano oggettivamente la detta idoneità.

L’esistenza di un’opera muraria munita di parapetti e di muretti, dai quali sia obiettivamente possibile guardare e affacciarsi sul fondo del vicino, è sufficiente a integrare una veduta e il possesso della relativa servitù, senza che occorra anche la continuità dell’utilizzazione dell’opera e l’esercizio effettivo dell’affaccio, essendo la continuità dell’esercizio della veduta normalmente assorbita nella situazione obiettiva dei luoghi e non occorre che tali opere siano sorte per l’esercizio esclusivo della veduta, essendo sufficiente che rendano possibile tale esercizio.

Da ultimo, nuovamente, la Cassazione 

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 10 ottobre 2018, n. 24956.

è tornata sul punto affermando che in tema di limitazioni legali della proprieta’, le scale, i ballatoi e le porte, pur essendo fondamentalmente destinati all’accesso dell’edificio, e soltanto occasionalmente od eccezionalmente utilizzabili per l’affaccio, possono configurare vedute quando – indipendentemente dalla funzione primaria del manufatto – risulti obiettivamente possibile, in via normale, per le particolari situazioni o caratteristiche di fatto, anche l’esercizio della prospectio ed inspectio su o verso il fondo del vicino.
Peraltro, a norma dell’articolo 900 c.c., per veduta – prospetto deve intendersi l’apertura destinata per sua normale e prevalente funzione a guardare e ad affacciarsi verso il fondo del vicino, cioe’ le finestre, i balconi, le terrazze e simili, mentre tale qualifica non spetta, di regola, ad altri manufatti, portoni, ballatoi etc., destinati principalmente all’ingresso e al passaggio delle persone e non a consentire la sosta e l’affaccio verso il fondo altrui.
Soprattutto le porte sono destinate, in generale, all’accesso a locali ed alla uscita da essi e, pertanto, e’ necessario che una loro eventuale congiunta destinazione funzionale alla veduta risulti da elementi non equivoci, che denuncino stabilmente tale ulteriore funzione, la quale non puo’ desumersi dal fatto che, al momento della loro apertura e fino alla loro chiusura, esse possano occasionalmente permettere di guardare sui fondi circostanti

Infine, in materia di apertura di luci o vedute, le norme sulle distanze legali attribuiscono al privato una posizione di diritto soggettivo, sul quale, in mancanza di una espressa previsione di legge, non possono incidere atti della p.a. come le concessioni edilizie; ne deriva che la controversia nascente dal mancato rispetto di tali norme rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, senza che in contrario assuma rilievo l’idoneità delle stesse norme a costituire per la p.a. direttive nella formazione dei piani di zona, cui devono conformarsi le suddette concessioni edilizie[12].

Conforme è anche una sentenza del Tribunale di Bologna[13] secondo la quale nelle controversie in tema di rispetto di luci e distanze legali la concessione edilizia attiene esclusivamente ai rapporti tra privato costruttore e pubblica amministrazione, ed è pertanto ininfluente con riguardo ai rapporti esclusivamente privatistici tra privati confinanti; ne discende che il confinante non può dolersi dell’inosservanza delle prescrizioni contenute nella concessione edilizia, se tale violazione non integri, al tempo stesso, un’inosservanza delle norme di cui agli artt. 901 c.c. e segg., poste a tutela di diritti soggettivi.

 

B) Le luci

 

Per luci si intende il diritto, iure proprietatis e jure servitutis (le differenza saranno affrontate dopo), di effettuare sul proprio fabbricato aperture verso il fondo del vicino allo scopo di attingere luce ed aria (funzione positiva), senza affacciarsi (funzione negativa) su quello, stabilendo i requisiti di altezza e di sicurezza (collocazione di inferriate e grate fisse) alla cui sussistenza è condizionata la limitazione del diritto del vicino.

In particolare secondo la previsione del codice civile rientrano nel concetto di luce: le aperture munite di inferriate con maglie di cmq. 3 massimo, con il davanzale a non meno di m. 2,5 dal pavimento del piano terreno o a non meno di m. 2 dei piani superiori e a non meno di m. 2,5 dal fondo del vicino sono chiamate luci [14].

Esse consentono solamente il passaggio della luce e dell’aria, ma non un comodo e facile affaccio.

Inoltre, tali requisiti non sono assoluti, poiché ai sensi dell’art. 902 c.c. anche se manca uno di quest’ultimi, ma comunque sia inibita la veduta del fondo del vicino, siamo in presenza di luci, anche se il vicino avrà comunque il diritto di chiederne la conformità.

Esse possono essere aperte nel muro proprio o nel muro comune, ma in questo caso occorre il consenso del confinante, a meno che non si tratti di una sopraelevazione a cui egli non ha voluto contribuire.

In altre parole, le luci possono infatti avere le più svariate dimensioni, da semplici fori o feritoie a grandi aperture.

La luce non presenta all’esterno alcun aggetto o sporgenza, ma deve essere a filo della parete.

Infine, possono essere chiuse quando si costruisce in aderenza.

 

art. 901 c.c.[15]    Luci

Le luci che si aprono sul fondo del vicino devono:

1) essere munite di un’inferriata idonea a garantire la sicurezza del vicino e di una grata fissa in metallo le cui maglie non siano maggiori di tre centimetri quadrati;

2) avere il lato inferiore a un’altezza non minore di due metri e mezzo dal pavimento o dal suolo del luogo al quale si vuole dare luce e aria, se esse sono al piano terreno, e non minore di due metri se sono ai piani superiori;

3) avere il lato inferiore a un’altezza non minore di due metri e mezzo dal suolo del fondo vicino, a meno che si tratti di locale che sia in tutto o in parte a livello inferiore al suolo del vicino e la condizione dei luoghi non consenta di osservare l’altezza stessa.

 

B) – 1)     Le luci irregolari

 

art. 902 c.c.  apertura priva dei requisiti prescritti per le luci  L’apertura che non ha i caratteri di veduta o di prospetto è considerata come luce, anche se non sono state osservate le prescrizioni indicate dall’articolo 901.

Il vicino ha sempre il diritto di esigere che essa sia resa conforme alle prescrizioni dell’articolo predetto.

 

In materia di luci e vedute, un’apertura priva dei caratteri della veduta o del prospetto è considerata luce, anche se carente dei requisiti di cui all’art. 901 c.c.; in tale ipotesi, il vicino ha sempre facoltà[16] di chiederne la “regolarizzazione“, di domandare cioè che la luce “irregolare” sia resa conforme alle prescrizioni del predetto articolo.

Inoltre, è bene già anticipare che non è acquisibile per usucapione[17] o per destinazione del padre di famiglia una servitù di luce irregolare sia perché difetta il requisito dell’apparenza, sia perché, ai sensi dell’art. 902 c.c. il vicino ha sempre il diritto di esigerne la regolarizzazione[18].

In merito alla regolarizzazione, la S.C.[19]  ha stabilito che l’art. 901, c.c. ha una previsione – ai numeri 2 e 3 – secondo la quale le luci che si aprono sul fondo del vicino devono avere, quanto all’altezza, un doppio requisito: a) un’altezza minima interna (con riferimento al posizionamento del lato inferiore della luce) non minore di m. 2,50 dal pavimento o dal suolo del luogo al quale si vuole dare aria e luce, se esse sono al piano terra, e non minore di 2 metri, se sono ai piani superiori; b) un’altezza esterna non minore di 2,50 metri dal suolo del fondo vicino, a meno che si tratti di un locale che sia in tutto o in parte a livello inferiore al suolo del vicino e la condizione dei luoghi non consenta di osservare l’altezza stessa.

Anche perchè con altra pronuncia la stessa Corte[20] ha avuto modo di stabilire categoricamente: le aperture che il proprietario apre sul muro, quando sono tamponate con vetrocemento, sono da considerarsi luci irregolari e come tali non conformi a quanto previsto dall’art. 901 del codice civile. Sono da considerarsi luci irregolari, infatti, tutte quelle parti del muro che per la natura del materiale impiegato, per la struttura o la conformazione o per il modo nel quale siano state inserite nel muro e rese con questo solidale, non possono dirsi parte integrante della preesistente costruzione, in difetto dei requisiti di stabilità, consistenza, sicurezza e coibenza, sì da costituire un semplice mezzo per impedire l’affaccio o il solo passaggio dell’aria.

Principio in piena contraddizione con altro della medesima Corte secondo cui, invece, non costituiscono luci in senso tecnico giuridico, soggette alla disciplina dell’art. 901 c.c., quelle parti del muro perimetrale nelle quali sia stato inserito materiale di altra natura, quale in particolare il vetrocemento, il quale, pur consentendo il passaggio della luce, presenta caratteristiche analoghe a quelle del materiale impiegato per la costruzione del muro ed adempie alla medesima funzione di delimitazione e di riparo assegnata a quest’ultimo.

Viceversa, vanno considerate luci irregolari quelle altre parti del muro le quali, o per la natura del materiale impiegato, o per la struttura o conformazione di questo, o per il modo nel quale esso sia stato inserito nel muro e reso con questo solidale, non possono dirsi parte integrante della preesistente costruzione, in difetto dei necessari requisiti di stabilità, consistenza, sicurezza, coibenza, si’ da costituire un semplice mezzo per impedire l’affaccio od il solo passaggio dell’aria.

Ritornando sul tema della regolarizzazione dell’apertura irregolare, secondo recente Cassazione[21], è stata, nuovamente segnalata la necessità di dotarla dei tre requisiti strutturali previsti dall’art. 901 c.c. e cioè: l’inferriata, la grata in metallo e l’altezza;

  1. L’inferriata serve a garantire la sicurezza del vicino (si ritiene infatti sicura un’inferriata di dimensioni tali da impedire il passaggio di una persona);
  2. la grata serve ad impedire l’immissione nel fondo del vicino di cose gettate dalla finestra;
  3. l’altezza minima, sia interna che esterna, serve ad impedire l’esercizio della veduta sul fondo vicino. Con l’ulteriore precisazione che tutti gli elementi sono essenziali e che nessun elemento componente dell’apertura, come davanzale o grata metallica, deve fuoriuscire dal profilo esterno del muro, nel quale la luce è realizzata.

B) – 2)     Le luci sul muro di confine

 

art. 903 c.c.  luci nel muro proprio o nel muro comune

Le luci possono essere aperte dal proprietario del muro contiguo al fondo altrui.

Se il muro è comune, nessuno dei proprietari può aprire luci senza il consenso dell’altro; ma chi ha sopraelevato il muro comune può aprirle nella maggiore altezza a cui il vicino non abbia voluto contribuire.

 

Per l’apertura di luci, inoltre, non è prevista alcuna distanza dal fondo vicino; esse, pertanto, possono essere realizzate anche sul muro di confine, tenendo presente che:

1)     se il muro è comune, nessuno dei proprietari può aprire luci senza il consenso dell’altro; il consenso deve essere manifestato per iscritto[22], deve conseguentemente reputarsi irrilevante l’eventuale consenso manifestato oralmente.

2)     se tuttavia uno dei proprietari ha sopraelevato il muro comune, egli acquista il diritto di aprire luci nella maggiore altezza cui il vicino non abbia voluto contribuire (art. 903 c.c.).

Esula dall’applicazione della normativa prevista dagli artt. 901 e 904 c.c. quell’apertura che si apre in un muro comune tra un vano e l’altro del medesimo edificio con lo scopo di dare ad uno di essi aria e luce attraverso l’altro.

Tale apertura non costituisce estrinsecazione del diritto di proprietà, ossia manifestazione di una facultas del diritto di dominio, ma ponendo in essere in via effettuale l’invasione della sfera di godimento della proprietà altrui, ha sostanza, struttura e funzione di uno ius in re aliena acquistabile, quindi, ex lege mediante usucapione o destinazione del padre di famiglia, sempreché l’apertura si concreti in opere visibili e permanenti destinate ad un inequivoco e stabile assoggettamento del vano, sì da rilevare all’esterno l’imposizione di un peso a suo carico per l’utilità dell’altro[23].

Su tale punto da ultimo è intervenuta la Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 22 marzo 2016, n. 5594

affermando il seguente principio: la facoltà di trasformare una veduta illegittima in luce, quale si desume dall’art. 903 c.c., presuppone che anche questa debba essere aperta lungo il medesimo muro preesistente, in mancanza del quale non può darsi trasformazione dell’una apertura nell’altra. È pertanto da escludere che la veduta esercitata da un balcone posto a distanza inferiore a quella di cui all’art. 905, cpv. c.c., possa essere eliminata e trasformata in luce previo tamponamento su tre lati del balcone stesso, cioè creando ex novo dei muri che, a loro volta, integrerebbero gli estremi di una costruzione da tenere a distanza ancora maggiore, in quanto la reintegrazione di un diritto leso non può essere attuata provocando una lesione di tipo diverso.

 

B) – 3)     Il diritto di chiudere le luci

 

art. 904 c.c.  Diritto di chiudere le luci

La presenza di luci in un muro non impedisce al vicino di acquistare la comunione del muro medesimo né di costruire in aderenza.

Chi acquista la comunione del muro non può chiudere le luci se ad esso non appoggia il suo edificio.

 

L’art. 904 c.c. attribuisce al vicino (rectius, al proprietario del fondo finitimo) il potere di chiudere le luci mediante costruzione in appoggio – previo acquisto della comunione – o in aderenza al muro nel quale esse sono aperte, vietando pertanto ogni altra differente modalità di chiusura o oscuramento delle luci.

La natura di tale diritto

Orbene, viene in aiuto una delle prime, se non la prima dal dopo guerra ad oggi, tra le pronunce della Cassazione[24] in merito agli istituti trattati: il diritto che ha il proprietario di aprire luci nel muro di un suo fabbricato, costruito sul confine, con il fondo del vicino, non pone in essere, per dette luci, un jus in re aliena, e, cioè una servitù, ma costituisce un’estrinsecazione del diritto di proprietà, in re propria, riconosciuto al proprietario dalla legge, e non derivante da una concessione contrattuale da parte del vicino, o da una concessione precaria, per amicizia o cortesia, da parte del vicino medesimo.

Tali luci, una volta aperte, secondo l’osservanza delle norme stabilite dall’art.901 c.c. danno vita ad un diritto condizionato; e, cioè, esse possono essere chiuse solo quando si verifichino le ipotesi tassativamente previste dall’art. 904 c.c. (anche se in realtà come da sentenza del Tribunale di Bologna successivamente riportata, tale principiò non è più assoluto)

Il codice vigente ha conservato, per il vicino, la facoltà di sopprimere le luci di tolleranza nell’ipotesi, già prevista dal codice civile del 1865, dell’appoggio della sua costruzione a quella del proprietario del fondo contiguo; ma ha concesso altresì la facoltà di oscurare dette luci, anche in una seconda ipotesi; se, cioè il vicino costruisce in aderenza del fondo contiguo, un suo edificio o un suo manufatto murario. Un questo secondo caso, però, deve trattarsi di una costruzione autonoma, che non si concreti in un atto di semplice vessazione o emulazione; e, cioè, di una costruzione la cui finalità non si esaurisca nell’aggravio e nel danno del fondo del vicino, con l’oscuramento delle luci aperte nel suo muro; ma che abbia una qualsiasi utilità, anche per chi abbia posto in essere detta costruzione.

Le luci di tolleranza debbono tenersi distinte dalle servitù attive di luce ad aria che il proprietario abbia acquistato sul fondo del vicino; l’esistenza di siffatte servitù impedisce, in ogni caso, al vicino la richiesta della medianza del muro o l’oscuramento, con costruzione in aderenza.

Per contro, l’esistenza delle cosiddette luci di tolleranza impedisce al vicino di oscurarle o sopprimerle, solo nelle ipotesi tassativamente specificate nell’art. 904 del vigente codice civile.

Ai fini della tutela possessoria[25], basta ricorra l’ipotesi del possesso di un diritto qualunque esso sia, che si esplichi su di una cosa corporale; e che si estrinsechi in atti di materiale godimento, qualunque sia la qualifica giuridica di tale godimento (nella specie, è stato ritenuto tutelabile, con l’azione di spoglio, il possesso di semplici luci di tolleranza).

Sono ammessi, in sede possessoria accertamenti anche di carattere petitorio, quando questi siano indispensabili ai fini possessori e senza che si alteri, per ciò, la natura del giudizio possessorio. Ciò si verifica in tutti i casi in cui il convenuto eccepisca; feci, sed iure feci; e, cioè nei casi in cui il convenuto, specie in materia di compossesso, abbia per legge o per contratto, anche un diritto proprio nei confronti del diritto dell’attore; e sorge, perciò la necessità di vedere se egli abbia mantenuto la sua azione nei limiti precisi del suo diritto.

In un’altra nota sentenza la S.C.[26] ha osservato, senza volere però essere ripetitivo ma solo al fine di rendere più chiaro possibile il concetto, che in merito all’art. 904 c.c. si prevedono due distinte ipotesi diversamente regolate, nelle quali la facoltà del proprietario del muro al mantenimento delle luci aperte su di esso è considerata recessiva rispetto al diritto potestativo del vicino di chiuderle:

1)     la prima, che ha come presupposto l’esercizio da parte del vicino del diritto di acquistare la comunione del muro altrui, nella quale la chiusura delle luci su tale muro esistenti è subordinata alla condizione che questi, acquistata la comunione, realizzi in appoggio al muro stesso un’opera qualificabile come “edificio”;

2)     la seconda, che attiene alla realizzazione da parte del vicino di un manufatto posto solo in aderenza al muro altrui dotato di luci, senza l’acquisto della comunione di esso, né di appoggio ad esso, nella quale, riconoscendo il diritto potestativo di chiudere dette luci, nessuna specifica caratteristica o modalità di realizzazione del manufatto è prevista, salvo che integri i requisiti di una “costruzione” stabile e permanente tale da recare da sola un’utilità al proprietario o a chi ne usi.

In altre parole il diritto di chiudere le luci presenti nel muro del vicino, costruendo in aderenza a questo, non può esercitarsi, per il principio generale del divieto degli atti emulativi[27] di cui all’art. 833 stesso codice, al solo scopo di arrecare nocumento e molestia al vicino, senza alcun vantaggio proprio[28].

Pertanto, tale disciplina è ispirata all’esigenza dell’equo contemperamento dei contrapposti interessi.

Ebbene superando il principio su esposto della Sentenza del ’48, il diritto di chiudere le luci nell’immobile confinante, da parte del proprietario del fondo posto a sua volta a confine con il predetto bene, non si esaurisce nelle ipotesi della costruzione “in appoggio” o “in aderenza”, le quali, per quanto oggetto di unica e peculiare previsione normativa, non sono tassative ed esaustive, né costituenti il numerus clausus dei casi legittimanti l’esercizio del diritto stesso[29].

Infine, ulteriore deroga viene data dalla normativa antisismica[30], poiché l’art. 9, 3° comma, l. 25 novembre 1962 n. 1684 prescrive, con riguardo alle costruzioni nelle zone sismiche, l’adozione nei fabbricati contigui di appositi giunti di oscillazione, il concetto generale di costruzioni in aderenza deve essere adeguato nelle località anzidette al disposto della legislazione speciale e va, pertanto, riferito a quello che fra i due edifici contigui preveda la sola distanza configurata dal giunto idoneo a consentire la libera ed indipendente oscillazione; ne discende che la facoltà del vicino di chiudere le altrui finestre lucifere è consentita, ai sensi dell’art. 904 c.c., quando costruisca in aderenza con la osservanza delle disposizioni antisismiche, lasciando fra i due fabbricati il giunto di oscillazione[31].

C) Le Vedute

Per le vedute è pregnante il concetto di esclusione ovvero: quando non ci sono le caratteristiche per le luci regolari ed irregolari si tratta di vedute.

Esse devono essere tenute a distanza di un metro e mezzo dal vicino, anche quando le costruzioni sono a diversa altezza.

La stessa distanza vale per i balconi, le terrazze ed altri sporti che consentono l’affaccio.

La distanza non va rispettata se tra i due fondi passa una via pubblica di qualunque larghezza essa sia [32].

Deve considerarsi ormai jus receptum che la prospectio sia elemento necessario, insieme con l’inspectio, per la qualificazione delle aperture come vedute.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione[33] sono intervenute, al fine di meglio specificare quando possa parlarsi correttamente di veduta, affermando che affinché sussista una veduta a norma dell’art. 900 c.c., è necessario, oltre al requisito della inspectio anche quello della prospectio nel fondo del vicino, dovendo detta apertura non solo consentire di vedere e guardare frontalmente, ma anche di affacciarsi, vale a dire di guardare non solo di fronte, ma anche obliquamente e lateralmente, così assoggettando il fondo alieno ad una visione mobile e globale.

In altre parole, [34] può configurarsi una veduta, quando l’apertura, il terrazzo o il balcone da cui essa sia praticata risultino “muniti di parapetto” atto a consentire, almeno, di guardare e di mostrarsi senza esporsi al pericolo di cadute. Ne consegue che va esclusa l’esistenza di una veduta allorquando il parapetto di un terrazzo non consente, in concreto, neanche una inspectio comoda e non pericolosa – in quanto manifestamente inidoneo a preservare l’eventuale osservatore dal pericolo di cadute – ed ha solo la funzione di delimitazione della platea.

Sul punto è tornata nuovamente la Cassazione

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 10 febbraio 2020, n. 3043.

riaffermando che la servitù di veduta viene definita come il diritto del titolare di un fondo di affacciarsi sul fondo del vicino e di godere della vista senza incontrare, prima di una certa distanza, ostacoli di alcun genere: un’apertura che non possa essere considerata come veduta è una luce irregolare (articolo 902 Codice civile). In base a questo principio è stato escluso che la semplice copertura di un edificio priva di parapetto possa assumere i caratteri di terrazza da qualificare come veduta o, più semplicemente, come luce, anche se su di essa si possa normalmente accedere. La praticabilità può semmai rilevare per qualificare il bene come luce irregolare, ben potendo il vicino anche in questo caso pretendere l’adeguamento ai requisiti previsti dalla legge per le luci.
La assenza di parapetto su una terrazza di copertura di un edificio costituisce elemento decisivo per escludere che l’opera abbia i caratteri della veduta o del prospetto, anche se essa sia di normale accessibilità e praticabilità da parte del proprietario. La praticabilità può valere ai fini della qualificazione della situazione come luce irregolare, in ordine alla quale il vicino ha sempre il diritto di esigere l’adeguamento ai requisiti stabiliti per le luci. Per escludere anche questa seconda configurazione giuridica è necessario accertare, avuto riguardo all’attuale consistenza e destinazione dell’opera, oggettivamente considerata, e alle sue possibili e prevedibili utilizzazioni da parte del proprietario, se e quali limitazioni, ancorché diverse e minori di quelle derivanti da un’apertura avente i caratteri della veduta o del prospetto, possano discenderne a carico della libertà del fondo vicino altrui.

Le vedute oblique o laterali verso il fondo del vicino devono essere a distanza di almeno 75 centimetri.

Qui il legislatore ha previsto una distanza minore, in ragione della limitata possibilità di inspicere da parte di chi esercita la veduta.

In conclusione, a differenza delle luci, le vedute o prospetti hanno invece la caratteristica di consentire di guardare fuori (finestre vere e proprie, dette finestre prospettiche, loggiati) oppure di sporgersi oltre la parete su cui insistono (balconi).

C) – 1) I presupposti

Dunque è opportuno a tal’uopo affrontare, anche se in piccola parte già è stato fatto, i presupposti nonché le caratteristiche che devono avere determinate aperture per essere classificate come vedute.

In particolare, l’art. 900 individua le vedute in relazione alla loro funzione di consentire la inspectio e la prospectio in alienum, a prescindere dalle caratteristiche costruttive dell’apertura.

Non solo, ma la inspectio e la prospectio devono avere carattere oggettivo e non soggettivo[35], a prescindere dal comportamento e dagli intendimenti di chi esercita la veduta e fermo restando che le vedute devono consentire congiuntamente l’agevole inspectio e prospectio senza pericoli e senza che si debba ricorrere a mezzi anormali[36]: in questo senso concordano sia la giurisprudenza e sia la dottrina.

Per rendere applicabile l’obbligo delle distanze è sufficiente che sussista un’apertura ricavata in un manufatto in sopraelevazione artificiale rispetto al fondo del vicino, così come si verifica nel caso della finestra, del balcone e del parapetto di una terrazza, da cui si possa guardare sul fondo del vicino sottostante ad essi, anche se di poco.

Se si tratta invece di un luogo naturalmente elevato – come può accadere nei fondi a dislivello – la norma sulle distanze non è applicabile, salvo che sul ciglio della scarpata naturale sia costruito un parapetto, dal quale la veduta sul fondo del vicino possa esercitarsi con comodità e senza pericolo.

Infatti, secondo la Cassazione[37] il muro, che abbia funzione di contenere un terrapieno creato ex novo dall’opera dell’uomo, va equiparato a un muro di fabbrica e come tale assoggettato al rispetto delle distanze legali tra costruzioni, mentre non può considerarsi costruzione il muro di contenimento realizzato per contenere smottamenti o frane in una situazione di fondi a dislivello naturale.

Mentre quando tale muro ha una funzione di divisione tra le proprietà, anche secondo ultimo adagio della Cassazione [38] non può dar luogo all’esercizio di una servitù di veduta, sia perché ha solo la funzione di demarcazione del confine e/o di tutela del fondo, sia perché, anche quando consente di “inspicere” e “prospicere” sul fondo altrui, è inidoneo a costituire una situazione di soggezione di un fondo all’altro, a causa della reciproca possibilità di affaccio da entrambi i fondi confinati

Ulteriormente, l’obbligo del rispetto delle distanze legali trova applicazione anche quando la veduta viene esercitata dal piano terreno[39] di una costruzione (nella fattispecie, dal portico inserito nel fabbricato), non occorrendo che l’apertura sia in tal caso munita di parapetto, come richiesto dall’art. 905 c.c. soltanto con riferimento a “balconi o altri sporti, terrazze, lastrici solari e simili”, essendo disagevole e pericoloso, avvenendo dall’alto, l’affaccio dai medesimi in assenza di protezione.

Non possono, invece, essere considerati sporti assimilabili alle vedute o ai balconi quelli con funzione meramente decorativa[40] (come la mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili), che comunque non possano servire come luogo per esercitare la veduta, sicché per essi non sono previsti obblighi di distanze legali.

La S.C.[41], poi, confermando un principio oramai consolidato nella stessa giurisprudenza di legittimità ha affermato che le porte, ballatoi, e la scale di ingresso alle abitazioni (nel caso di specie una scala a chicciola), che in genere non costituiscono vedute, in quanto destinate fondamentalmente all’accesso, e solo occasionalmente od eccezionalmente utilizzabili per l’affaccio, possono configurare vedute quando, per le particolari situazioni e caratteristiche di fatto, risultino obiettivamente destinate, in via normale, anche all’esercizio della prospectio ed inspectio su o verso il fondo del vicino.

La S.C.[42], invece, ha escluso che avesse carattere di veduta un’apertura munita di una struttura metallica, incorporata nel muro di confine.

Ai fini sempre delle distanze costituisce poi veduta l’apertura che consente un affaccio anche se non completata e rifinita.

Nel caso di specie la S.C.[43] ha affermato che le aperture – costituenti veduta – erano praticate, rifinite, essendo dotate di soglie sporgenti, sia pure di poco, dal filo del muro, così implicitamente ritenendo che per loro collocazione consentivano l’inspectio e la prospectio sul fondo del vicino: la mancanza dei serramenti era circostanza del tutto irrilevante.

Inoltre costituisce costruzione[44], ai fini del rispetto della distanza delle costruzioni dalle vedute, qualsiasi opera, di qualsiasi natura, che si elevi stabilmente dal suolo e che ostacoli l’esercizio della veduta, intesa come possibilità sia di inspectio  che di prospectio (nella specie, è stato ritenuto conforme ai suddetti principi l’accertamento del giudice di merito che aveva qualificato costruzione una scala metallica ancorata al suolo da una piattaforma di cemento ed alta circa quindici metri).

Quanto alla nozione di fondo su cui può esercitarsi la veduta; per fondo deve intendersi, in senso estensivo, ogni immobile, recintato o meno, coperto o scoperto.

Ed infatti, la dizione fondo –  usata dal vecchio e dal nuovo codice – è dizione generica che deve essere intesa in senso lato, come comprendente ogni immobile scoperto o coperto, praticabile o non.

La comodità (o quanto meno la non disagevolezza) della inspectio e della prospectio, alla stregua dell’art. 900 c.c. va accertata con riferimento al fondo dal quale la veduta è esercitata[45] e non già al fondo oggetto della veduta stessa.

Infine, appare non poco importante questa pronuncia di legittimità[46] secondo cui tenuto conto che requisiti per l’esistenza di una veduta sono non soltanto la inspectio ma la prospectio, la possibilità di affacciarsi sul fondo del vicino deve essere determinata con riferimento a una persona di altezza normale e non di statura media, posto che il concetto di statura media, essendo indicativo di un unico valore numerico, intermedio fra un minimo e un massimo, non si identifica con quello di altezza normale che comprende una serie di valori di diversa entità matematica entro suddetti limiti.

Anche se la stessa Corte[47] si era espressa contrariamente affermando che – ai sensi dell’art. 900 c.c. che non determina un comportamento tipico per l’atto di affacciarsi – consiste nella possibilità di vedere e di guardare non solo di fronte ma obliquamente e lateralmente sul fondo del vicino, in modo da consentire una visione mobile globale, rimesso all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se non per vizi di motivazione, verificare in concreto se l’opera in considerazione delle caratteristiche strutturali e delle posizioni degli immobili rispettivamente interessati  permetta ad una persona di media altezza l’affaccio sul fondo del vicino o il semplice prospetto.

In merito è ritornata sul punto la S.C.[48] affermando il principio che se il parapetto non ha una altezza che consente un comodo affaccio in tutta sicurezza, lateralmente ed obliquamente, non possono essere invocate le distanze minime per il diritto di veduta previste degli artt. 905 e 907 c.c.

In particolare, si legge nella sentenza, che i giudici di merito, in primo ed in secondo grado, hanno adeguatamente motivato le rispettive pronunce, partendo dalla corretta premessa, secondo cui per configurarsi gli estremi di una veduta ai sensi dell’art. 900 u.p. c.c, conseguentemente, soggetta alla regole di cui ai successivi artt. 905 e 907, è necessario che le c.d. inspectio et prospectio in alienum, vale a dire le possibilità di “affacciarsi e guardare di fronte, obliquamente o lateralmente”, siano esercitabili in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza, ed escludendo in concreto, sulla scorta di ragionevoli considerazioni basate, ex art. 115 co. 2 c.p.c., su nozioni di comune esperienza, che tali condizioni ricorressero nel caso di specie, in cui il muretto perimetrale del terrazzo è risultato essere alto soltanto cm. 90.

La sola considerazione, basata su un dato di oggettiva inconfutabilità, che tale altezza corrisponda, più o meno, a quella del “basso ventre” di una persona di ordinaria statura (da intendersi, come già è stato precisato dalla Corte di legittimità[49], compresa tra i limiti minimi e massimi che normalmente si registrano nell’ambito della popolazione, e non necessariamente coincidente con la media di tali valori) così da non consentire l’adeguata protezione del “petto” della stessa nell’eventuale affaccio (che comporterebbe intuibili e pericolosi sbilanciamenti in avanti dell’osservatore), risulta di per sé sola sufficiente ad escludere il requisito della sicurezza, a prescindere dalla rilevanza o meno dell’esiguità dello spessore del muretto in questione, manufatto che per la sua ridotta elevazione rispetto al pavimento neppure può definirsi un “parapetto”.

Ancora sul punto la Cassazione[50] con ultimo adagio ha nuovamente affermato: ai fini della sussistenza di una veduta, è necessario, oltre al requisito della “inspectio”, anche quello della “prospectio”, dovendo l’apertura consentire non solo di guardare frontalmente, ma anche di affacciarsi, e quindi di guardare anche obliquamente e lateralmente, in modo da assoggettare il fondo alieno ad una visione mobile e globale. Nella valutazione del requisito della “prospectio”, va seguito il criterio secondo cui la possibilità di affacciarsi sul fondo del vicino deve essere determinata con riferimento ad una persona di altezza normale e non già di statura media.

Si legge nella sentenza in commento che la Corte di Cassazione, con la pronuncia resa in data 4-8-2004, cassava con rinvio la sentenza del 27-4-2000 della Corte di Appello di Firenze, osservando che ai fini della sussistenza di una veduta é necessario, oltre al requisito della inspectio, anche quello della prospectio, dovendo l’apertura consentire non solo di guardare frontalmente, ma anche di affacciarsi, e quindi di guardare anche obliquamente e lateralmente, in modo da assoggettare il fondo alieno ad una visione mobile e globale; laddove nella sentenza impugnata, mentre si sosteneva che qualunque persona di statura media é in grado di inspicere sul fondo altrui da un parapetto alto 155 cm., nulla si diceva riguardo alla prospectio, e cioé all’affaccio.

Il giudice di legittimità, di conseguenza, nel rilevare che tale omissione integrava la violazione, ai fini della distinzione tra luci e vedute, dell’articolo 901 c.c., disponeva che la situazione venisse nuovamente presa in esame alla luce dell’esposto principio di diritto, affinché fosse valutata anche la possibilità di affaccio; con la precisazione che il giudice di rinvio avrebbe dovuto “pure……esaminare” la “questione afferente al parametro utilizzato”, e cioé “la statura media, su cui la critica pure si appuntava”.

Cosi’ statuendo, il giudice di legittimità  chiaramente invitava il giudice di rinvio ad attenersi, nella valutazione del requisito della prospectio, al criterio seguito dalla giurisprudenza prevalente, secondo cui la possibilità di affacciarsi sul fondo del vicino deve essere determinata con riferimento a una persona di altezza normale e non di statura media, posto che il concetto di statura media, essendo indicativo di un unico valore numerico, intermedio fra un minimo e un massimo, non si identifica con quello di altezza normale, che comprende una serie di valori di diversa entità matematica entro i suddetti limiti[51].

Il giudice di rinvio, senza recepire l’effettiva portata del decisum e discostandosi dal richiamato indirizzo giurisprudenziale, nel valutare se la finestra realizzata dal (OMISSIS) consentisse la possibilità non soltanto di inspicere, ma anche di prospicere sul fondo dell’attore, ancora una volta utilizzava il parametro della persona di altezza “media”, omettendo ogni indagine circa la possibilità di affaccio da parte di una persona di altezza “normale”.

Di conseguenza, in accoglimento dei motivi, s’imponeva la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Firenze.

C) – 2) Vedute dirette, oblique, laterali, ad appiombo e le relative distanze

art. 905. c.c. distanza per l’apertura di vedute dirette e balconi

Non si possono aprire vedute dirette verso il fondo chiuso o non chiuso e neppure sopra il tetto del vicino, se tra il fondo di questo e la faccia esteriore del muro in cui si aprono le vedute dirette non vi è la distanza di un metro e mezzo.

Non si possono parimenti costruire balconi o altri sporti, terrazze, lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta di affacciarsi sul fondo del vicino, se non vi è la distanza di un metro e mezzo tra questo fondo e la linea esteriore di dette opere.

Il divieto cessa allorquando tra i due fondi vicini vi è una via pubblica[52].

art. 906 c.c.  distanza per l’apertura di vedute laterali od oblique

Non si possono aprire vedute laterali od oblique sul fondo del vicino se non si osserva la distanza di settantacinque centimetri, la quale deve misurarsi dal più vicino lato della finestra o dal più vicino sporto.

 

art. 907 c.c.   distanza delle costruzioni dalle vedute

Quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, misurata a norma dell’articolo 905.

Se la veduta diretta forma anche veduta obliqua, la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui la veduta obliqua si esercita.

Se si vuole appoggiare la nuova costruzione al muro in cui sono le dette vedute dirette od oblique, essa deve arrestarsi almeno a tre metri sotto la loro soglia.

 

Alla stregua del dettato normativo, per definire se una veduta sia diretta, obliqua o laterale, occorre tener conto della collocazione (posizione) del confine del fondo rispetto al muro in cui si trova la finestra o lo sporto o l’apertura o il manufatto da cui la veduta è esercitata, a prescindere dalla posizione di chi guarda.

L’affacciarsi di fronte costituisce veduta diretta sul fondo del vicino, situato in tutto o in parte di fronte alla veduta.

Considerando, peraltro, lo sguardo o la visuale come una unica linea retta, che parte dall’insieme dei due occhi della persona che guarda, possono individuarsi diversi modi con cui tale visuale si rapporta con la linea di confine.

Possono così configurarsi vedute dirette anche da finestre o aperture che si trovino su muri non paralleli al confine con il fondo del vicino, purché formino un angolo acuto con il confine stesso. In particolare, la veduta non cessa di essere diretta se permette di affacciarsi e di indirizzare lo sguardo solo in alcune delle direzioni proprie della comune veduta diretta.

Per altra sentenza della S.C.[53] l’art. 905, primo comma, c.c., nel disciplinare la distanza dalle vedute chiarisce espressamente che tale distanza va rispettata con riferimento al “fondo” e non alla parte del fondo prospiciente la veduta. Da un punto di vista logico la stessa conclusione si impone con riferimento all’art. 907, ultimo comma, c.c., nel quale si parla di distanza della “costruzione” in genere dalla veduta e non della parte della costruzione perpendicolare alla veduta.

Una conferma indiretta della esattezza di tale interpretazione viene dalla sentenza 7 luglio 2011 n. 14953 delle Sezioni unite della medesima Corte, la quale, con riferimento all’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968 n. 1444, che prevede una distanza di 10 metri delle costruzioni dalle “pareti finestrate”, ha affermato che tale disposizione esige in maniera assoluta il rispetto della distanza in questione, essendo destinata a disciplinare le distanze tra le costruzioni e non tra queste e le vedute, in modo che sia assicurato un sufficiente spazio libero che risulterebbe inadeguato se comprendesse soltanto quello direttamente antistante alle finestre in direzione ortogonale, con esclusione di quello laterale.

Inoltre, per altra recente Cassazione[54] in tema di acquisto per usucapione[55], ai sensi dell’art. 1061, comma 1, c.c., di una servitù di veduta, le opere permanenti destinate al relativo esercizio devono essere visibili in maniera tale da escludere la clandestinità del possesso e da far presumere che il proprietario del fondo servente abbia contezza della situazione di obiettivo asservimento della sua proprietà, per il vantaggio del fondo dominante. Il requisito di visibilità, pertanto, può far capo ad un punto d’osservazione non necessariamente coincidente col fondo servente, purché il proprietario di questo possa accedervi liberamente, come nel caso in cui le opere siano visibili da una vicina via pubblica.

Si continua a legger nella sentenza menzionata che l’art. 905, I comma c.c., stabilendo che non si possono aprire vedute dirette verso il fondo chiuso o non chiuso “e neppure sopra il tetto del vicino”, ammette implicitamente che anche la semplice veduta su di un tetto costituisce un peso, legittimo soltanto se assistito dal corrispondente diritto di servitù.

Quest’ultimo attribuisce al fondo dominante l’utilitas dell’inspectio e della prospectio in alienum, cui corrisponde per il fondo servente il peso costituito dalla limitazione della riservatezza che da ciò deriva.

Tale peso grava sul fondo servente che sia edificato o non, indipendentemente dalla destinazione ad attività civili o produttive. E grava su di esso nella sua interezza economico-giuridica, e non già sulle sole porzioni sensibili alla perdita di riservatezza.

Non rileva, dunque, che il peso sia o non avvertibile nelle parti del fondo servente che maggiormente vi sono esposte, e ciò è ancor più vero nel caso di veduta sul tetto, dal quale normalmente la veduta stessa non è percepibile (in tale direzione, il precedente specifico di Cass. n. 319/82 afferma che l’apertura di vedute in violazione del disposto dell’art. 905 c.c. sul tetto di proprietà esclusiva di un condomino, non esclude il pregiudizio degli altri condomini i quali, pertanto, possono agire in negatoria servitutis, in quanto i vincoli che derivano da una veduta non incidono soltanto sul proprietario del tetto, dal momento che come fondo servente deve essere considerato l’intero immobile condominiale, nel suo complesso e nella sua unità strutturale e funzionale).

Ma allora vuoi dire che è sufficiente che le opere destinate all’esercizio della servitù siano visibili da qualsivoglia altro punto d’osservazione, anche esterno al fondo servente, purché il proprietario di questo possa accedervi liberamente, come nel caso in cui le opere siano visibili da una vicina via pubblica. L’esigenza di conoscibilità oggettiva del peso è ugualmente soddisfatta anche in tale ipotesi.

Nello specifico caso della servitù di veduta è stato, altresì, affermato dalla Corte[56] che le finestre che si aprono nel muro perimetrale di confine debbono considerarsi obiettivamente visibili dal fondo vicino, oggetto della veduta. Ove in questo esista una costruzione coperta da tegolato, per giungere a ritenere la non visibilità di tali finestre e la non usucapibilità della relativa servitù di veduta, deve essere dimostrata l’esistenza di una situazione di fatto tale che il proprietario del fondo oggetto della veduta non abbia avuto possibilità alcuna di vederle o notarle da alcun luogo viciniore e, altresì, si sia trovato in condizione di non dover accedere sul tegolato nel periodo di maturazione dell’usucapione avversa. Questo accertamento, da farsi caso per caso, deve tener conto non solo dei luoghi viciniori che normalmente o comunque concretamente sono frequentati o erano frequentabili dal proprietario del fondo suddetto, ma, in particolare e per il solo caso in cui ogni altra possibilità sia da escludere, deve aver riguardo al comportamento di diligenza che il proprietario stesso deve tenere circa l’ispezione, il controllo e la riparazione del tegolato, secondo le condizioni di vetustà e le modalità di costruzione del medesimo.

Si hanno, invece, vedute laterali od oblique quando la veduta formi un angolo acuto con il confine del vicino ovvero quando il tratto di muro, da cui si esercita la veduta, formi un angolo retto rispetto al confine.

Il diritto di veduta, in forza del disposto dell’art. 907, ultimo comma, c.c., comprende peraltro anche la facoltà di guardare dall’alto in basso verso il fondo del vicino, per una profondità verticale di almeno 3 metri dalla soglia della veduta stessa.

Difatti, secondo la S.C.[57] la veduta laterale, che ricorre quando il confine del fondo del vicino ed il muro dal quale si esercita la veduta formano un angolo di 180 gradi, può essere esercitata, oltre che di lato, anche in basso, verticalmente, assumendo, così, le caratteristiche della veduta in appiombo, che deve, perciò, considerarsi espressamente ammessa dal codice civile che, proprio per specificare i limiti normali di tale veduta (e della veduta obliqua in basso), impone a colui che vuole appoggiare la nuova costruzione al muro da cui si esercita la veduta di arrestarsi almeno a tre metri sotto la soglia della medesima (art. 907 c.c.).

Ricorre, conseguentemente, la servitù di veduta in appiombo tutte le volte in cui, per i maggiori contenuti della zona di rispetto prevista nel caso concreto, essa determini, per il fondo sul quale si esercita verticalmente, una restrizione dei poteri normalmente inerenti al diritto di proprietà delineati dalle norme sulle distanze, risolvendosi così in un peso imposto a tale fondo per il vantaggio (utilità) del fondo dal quale la veduta si esercita, come nel caso delle vedute esercitate anche verticalmente dai proprietari dei singoli piani di un edificio condominiale dalle rispettive aperture fino alla base dell’edificio.

Ai fini della veduta in appiombo o in verticale, la configurazione della veduta come diretta, obliqua o laterale è irrilevante, nel senso che l’inclinazione assunta dalla visuale non è importante quando questa si esercita in verticale.

Ove si verta in materia di vedute jure servitutis, se il fondo servente appartenga a più persone, potranno aversi più visuali distinte, con conseguente diversa configurazione del tipo di veduta (diretta, laterale od obliqua).

Secondo la giurisprudenza della Cassazione[58] si ha, peraltro, veduta diretta solo quando sia consentito guardare di fronte al fondo del vicino, senza che occorra volgere lo sguardo lateralmente; mentre le vedute laterali od oblique non consentono di volgere il capo da un lato, per guardare nel fondo del vicino.

Pertanto, si ha veduta diretta sul fondo del vicino quando la parete in cui sono aperti la finestra o il balcone è parallela al confine del fondo vicino o forma con questo un angolo acuto.

Non sono tuttavia aperture rilevanti ai fini delle distanze, quelle da cui il proprietario eserciti la veduta su un proprio fondo che si frapponga, come superficie libera, rispetto alle contigue proprietà altrui.

In particolare, non può esservi veduta legalmente intesa quando le visuali si dirigano sul fondo proprio e non raggiungano il confine del fondo vicino, perché ostacolate da un muro proprio, di cinta o di fabbrica.

In ogni caso, quando la legge presuppone una veduta solo diretta – come nel caso di cui all’art. 905 – o soltanto una veduta laterale od obliqua – come nel caso di cui all’art. 906 – o infine una veduta diretta formante anche veduta obliqua – come nel caso di cui all’art. 907, secondo comma – si devono prendere a riferimento i fondi su cui si esercitano le singole vedute da un’unica apertura, anche se tali fondi non siano contigui all’apertura stessa.

La distanza delle costruzioni dalle vedute va misurata riferendosi al punto più vicino dell’opera da cui si esercita la veduta del fondo del vicino.

E’ bene precisare, come ha avuto modo da ultimo la Cassazione

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 18 ottobre 2018, n. 26263

che il precetto relativo al divieto di edificare ad una distanza inferiore a tre metri da una veduta già esistente disposto dall’art. 907 Cc, non riguarda solo le costruzioni intese nell’accezione comune di edifici, ma attiene anche ai muri di cinta. Questo perché la norma tende a tutelare il diritto di veduta e, quindi, la possibilità di guardare nel fondo del vicino senza l’utilizzo di mezzi artificiali ovvero di sporgere il capo e vedere nelle diverse direzioni in modo agevole e non pericoloso, in termini giuridici il diritto alla inspectio e della prospectio. Conseguentemente, tale diritto risulta violato con l’edificazione di un corpo di fabbrica a distanza inferiore rispetto a quella prevista dalla norma citata, fermo restando che, pur in presenza della violazione delle distanze il Giudice è, in ogni caso, tenuto a determinare specificamente se l’edificazione ostacoli effettivamente l’esercizio del diritto di veduta con le modalità sopra dette.

Il calcolo delle distanze delle nuove costruzioni dalle altrui vedute ai sensi dell’art. 907 c.c. che richiama l’art. 905 c.c. va operata dalla faccia esteriore del muro nel quale si aprono le vedute dirette e non già dal punto di massima sporgenza delle stesse che si aprono “a compasso” verso l’esterno, come si avra modo di specificare in tema di infissi.

Inoltre secondo la S.C.[59] nel caso in cui la linea di confine tra due proprietà sia costituita da un muro comune, nella misurazione della distanza di cui all’art. 906 c.c.per l’apertura di vedute verso tale muro, il punto di arrivo va posto nella faccia del muro stesso prospiciente la proprietà in cui la veduta è esercitata e non già nella linea mediana di esso.

Sul punto è tornata da ultimo la Cassazione

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 9 agosto 2018, n. 20690

affermando nuovamente una serie di principi:

in ordine alla misurazione delle distanze, criterio fondamentale e’ quello per cui la distanza legale della costruzione dal confine o da altro fabbricato deve sussistere da ogni punto della costruzione medesima (Cass. 9 novembre 1970 n. 1367). Al sistema di misurazione lineare, proprio delle distanze tra edifici, si contrappone quello radicale, proprio delle distanze rispetto alle vedute (Cass. 25 luglio 1972 n. 2548). Rispetto a queste ultime appare netta la esclusione dal computo di cornicioni, fregi e comunque di tutti quei manufatti la cui qualificazione ornamentale e accessoria trova evidente supporto nel fatto di non essere destinati all’esercizio della veduta (Cass. 21 luglio 1980 n. 4773). Infatti per la misurazione delle distanze dalle vedute, l’articolo 905 c.c., comma 1 pone, come dati di riferimento, da un lato la faccia esteriore del muro in cui si aprono le vedute dirette, dall’altro la linea di confine, dovendo correre dall’uno all’altro lo spazio di almeno un metro e mezzo; pertanto, la distanza minima da osservare va calcolata con esclusivo riguardo all’immediato piano di superficie dell’apertura verso l’esterno e non al piano sul quale la veduta e’ stata praticata, senza che, di conseguenza, rilevi l’eventuale maggiore distanza delle altre parti dello stesso muro, fermo restando che tali previsioni non valgono ad attestare la legittimita’ dell’apertura di una veduta a distanza di un metro e mezzo dal fondo del vicino nel caso in cui essa viene attuata nel muro di confine, mediante arretramento ad incasso nel solo piano elevato (v. Cass. 27 luglio 1988 n. 4790).
Per la giurisprudenza di questa Corte di Cassazione, nel caso in cui il confine tra due fondi sia rappresentato da un muro comune, il punto di arrivo nella misurazione della distanza di cui all’articolo 905 c.c. per l’apertura di vedute verso lo stesso, e’ costituito dalla faccia del muro prospiciente l’immobile da cui la veduta e’ esercitata e non da quella opposta sita dalla parte del fondo di proprieta’ esclusiva dell’altro comproprietario del muro, ne’ dalla sua linea mediana (Cass. n. 2499 del 1986; Cass. n. 1061 del 1979; Cass. n. 5894 del 1978; Cass. n. 4051 del 1977). Dunque i tratti salienti, che caratterizzano le pronunce sul punto, riguardano l’individuazione della faccia esterna del muro, nel quale si apre la veduta, quale punto dal quale effettuare la misurazione, “la distanza delle vedute dal confine, quando queste si aprono in un incasso del muro, deve essere di un metro e mezzo calcolato dalla faccia esterna del muro medesimo….” (Cass. 8 marzo 1980 n. 1576) ovvero della linea estrema del balcone, “….la misurazione della distanza di una veduta dal fondo del vicino si effettua dalla faccia esteriore del muro in cui si aprono le finestre ovvero dalla linea estrema del balcone, o, in genere, del manufatto dal quale di esercita la veduta stessa…”, (Cass. 25 maggio 1981 n. 3428, con indifferenza per le strutture portanti del fabbricato).

 

Bisogna, pertanto, tracciare un piano ideale sul confine e misurare perpendicolarmente ad esso la distanza dal punto più sporgente della costruzione.

Le prescrizioni relative alle distanze per l’apertura di vedute dirette e balconi, contenute nell’art. 905 c.c, devono essere poste in relazione all’altra norma, di cui all’art. 873 del medesimo codice.

Da ciò consegue che ove nel compiere la costruzione non sia stata rispettata la distanza, dal fondo del vicino fissata, dal codice o dai regolamenti locali non si possano aprire vedute iure proprietatis, tuttavia il pacifico principio appena espresso trova contemperamento nella possibilità di accordi inter partes che deroghino alle distanze legali nelle costruzioni e, con esse, alle conseguenti distanze per l’apertura di vedute dirette od indirette[60].

É bene, a tal punto, anche precisare, attività già esposta nel paragrafo “le distanze tra le costruzioni ex artt. 873 e ss c.c.[61]“, che secondo la S.C.[62] il termine «costruire» (o «fabbricare») adoperato dall’articolo 907 del c.c. – in tema di distanza delle costruzioni dalle vedute – non riguarda esclusivamente i manufatti in calce e mattoni (o cemento), cioè le opere che hanno le caratteristiche di un edificio o. comunque, di una fabbrica in muratura, ma comprende ogni opera avente il carattere della stabilità e una certa consistenza, indipendentemente dalla natura del materiale con cui è stata realizzata, dalla forma e dalla destinazione di essa.

Il regime legale delle distanze delle costruzioni dalle vedute, prescritto dall’art. 907 c.c., non è applicabile, stante il disposto dell’art. 879, secondo comma, c.c.– per il quale alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze o le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze  –  non solo quando la strada o la piazza pubblica si frappongano tra gli edifici interessati, ma anche nel caso in cui le stesse delimitino ad angolo retto, da un lato, il fondo dal quale si gode la veduta, e, dall’altro, il fondo sul quale si esegue la costruzione[63]

In merito all’art. 907 c.c. secondo ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 23 maggio 2016, n. 10618

la canna fumaria non è una costruzione, ma un semplice accessorio di un impianto e quindi non trova applicazione la disciplina di cui all’art. 907. Nel caso di specie le caratteristiche dei manufatti di cui si discute si tratta in sostanza di semplici tubi in materiale metallico.

La Cassazione con altra pronuncia[64] ha affermato che la deroga di cui all’ultimo comma dell’art. 905 c.c., secondo la quale le norme che prescrivono determinate distanze per l’apertura di vedute dirette e balconi non possono trovare applicazione, per la espressa previsione del terzo comma, quando tra i due fondi vicini vi sia, una via pubblica; gli stessi principi valgono anche quando la strada non separa i due fondi, non essendo necessario che i due fondi si fronteggino essendo sufficiente che essi siano confinanti con la via pubblica, indipendentemente dalla loro reciproca collocazione.

È pacifico che l’esenzione dall’obbligo delle distanze legali non può interferire, nei rapporti fra proprietari di fondi contigui o frontistanti rispetto alla pubblica strada, sulle pretese che all’uno derivino, ai sensi degli artt. 871 ed 872 c.c., dall’inosservanza da parte dell’altro delle disposizioni dei regolamenti edilizi.

In aggiunta, altra deroga si ha qualora le previsioni contenute in un piano di lottizzazione e nei progetti esecutivi ad esso allegati, con le quali si consente l’apertura di luci o vedute a distanza inferiore a quella minima legale, danno luogo alla costituzione di altrettante servitù prediali rispettivamente a favore e contro ciascuno dei lotti del comprensorio e vincolano gli acquirenti di questi ultimi, se richiamate ed espressamente accettate nei singoli atti di acquisto, sempre che l’immobile da cui si esercita la servitù di veduta sia stato realizzato in conformità alle prescrizioni del piano di lottizzazione[65].

Infine, l’esenzione dall’obbligo del rispetto della distanza stabilita dall’ultimo comma dell’art. 905 c.c., per l’apertura di vedute dirette verso il fondo del vicino, non è limitata al solo caso dell’inserimento tra i due fondi di una via pubblica, ma va estesa anche al caso in cui tra le due proprietà fronteggiantisi   esista una strada privata soggetta a servitù pubblica di passaggio [66], al caso cioè in cui il pubblico transito si eserciti su una porzione di terreno appartenente ad uno dei frontisti.

Ai fini dell’esistenza di una servitù di pubblico transito, sono necessari la generalità dell’uso del bene da parte di una collettività indeterminata di individui considerati uti cives, cioè titolari di interessi di carattere generale, e non uti singuli, ed inoltre l’oggettiva idoneità del bene all’attuazione di un fine di pubblico interesse, configurabile nel senso più ampio, anche come mera comodità. Tali presupposti devono sussistere da tempo immemorabile, od essersi manifestati per un tempo, comunque, sufficiente al maturare dell’usucapione. L’inclusione della strada negli strumenti urbanistici non ha, per contro, efficacia decisiva, ben potendo, tuttavia, assumere rilievo unitamente agli altri elementi di prova.

D) La disciplina per il Condominio e/o Comunione

[67]

In senso generale bisogna precisare[68] che le norme sulle distanze, rivolte fondamentalmente a regolare con carattere di reciprocità i rapporti fra proprietà individuali, contigue e separate, sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l’applicazione di queste ultime non sia in contrasto con le prime; nell’ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l’inapplicabilità della disciplina generale sulla proprietà, quando i diritti o le facoltà da questa previsti siano compressi o limitati per effetto dei poteri legittimamente esercitati dal condomino secondo i parametri previsti dall’art. 1102 c.c. (applicabile al condominio per il richiamo di cui all’art. 1139 c.c.), atteso che, in considerazione del rapporto strumentale fra l’uso del bene comune e la proprietà esclusiva, non sembra ragionevole individuare, nell’utilizzazione delle parti comuni, limiti o condizioni estranei alla regolamentazione e al contemperamento degli interessi in tema di comunione.

Principio generale riposto anche in ultima pronuncia della S.C.[69] secondo la quale, appunto, in tema di condominio, ove il giudice constati, con riguardo alla cosa comune[70], il rispetto dei limiti di cui all’articolo 1102 c.c.e della struttura dell’edificio condominiale, deve ritenersi legittima l’opera realizzata anche senza l’esatta osservanza delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue. Infatti, le norme sulle distanze, rivolte fondamentalmente a regolare con carattere di reciprocità i rapporti fra proprietà individuali, contigue e separate, sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioé quando l’applicazione di quest’ultime non sia in contrasto con le prime; nell’ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l’inapplicabilità della disciplina generale sulla proprietà, quando i diritti o le facoltà da questa previsti siano compressi o limitati per effetto dei poteri legittimamente esercitati dal condomino secondo i parametri previsti dall’articolo 1102 c.c.

In tema, nuovamente è ritornata la Cassazione[71] affermando che in tema di condominio le norme sulle distanze, rivolte fondamentalmente a regolare con carattere di reciprocità i rapporti fra proprietà individuali, contigue e separate, sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, a condizione, però, che siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni; propriamente, in ipotesi di contrasto, la norma speciale in materia di condominio prevale e determina l’inapplicabilità della disciplina generale sulla proprietà, allorché i diritti o le facoltà da tal ultima disciplina previsti siano compressi o limitati per effetto dei poteri legittimamente esercitati dal condomino secondo i parametri previsti dall’art. 1102 c.c. (applicabile al condominio per il richiamo di cui all’art. 1139 c.c.); in tal guisa non sembra ragionevole individuare, nell’utilizzazione delle parti comuni, limiti o condizioni estranei alla regolamentazione e al contemperamento degli interessi in tema di comunione.

Inoltre, in tema di condominio negli edifici, qualora il proprietario di un’unità immobiliare del piano attico agisca in giudizio per ottenere l’ordine di rimozione di una canna fumaria posta in aderenza al muro condominiale e a ridosso del suo terrazzo, la liceità dell’opera, realizzata da altro condomino, deve essere valutata dal giudice alla stregua di quanto prevede l’art. 1102 c.c., secondo cui ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, non rilevando, viceversa, la disciplina dettata dall’art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, atteso che la canna fumaria (nella specie, trattavasi di un tubo in metallo) non è una costruzione, ma un semplice accessorio di un impianto (nella specie, trattavasi del forno di una pizzeria).

In definitiva, per la Cassazione riportata, le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, a condizione, tuttavia, che siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni; propriamente, in ipotesi di contrasto, la norma speciale in materia di condominio prevale e determina l’inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze; in tal guisa, ove il giudice constati il rispetto dei limiti tutti di cui all’art. 1102 c.c., deve ritenersi legittima l’opera – eventualmente una canna fumaria posta in aderenza al muro perimetrale e a ridosso del terrazzo a livello di proprietà di un determinato condomino – quantunque realizzata in violazione delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà esclusive, distinte e contigue.

E’ opportuno, poi, specificare, come da ultima pronuncia della cassazione[72], che la legittimazione ad agire per la specifica tutela dei diritti di veduta non può che appartenere ai singoli condomini. In assenza di ogni altra allegazione quanto alla possibilità di coesistenza di vedute di singoli condomini e di vedute quali, ad esempio, quelle delle finestre delle scale del condominio, il diritto di veduta a favore delle singole unità abitative è proprio del titolare della proprietà di ciascun singola appartamento e, pertanto, non del Condominio, ma del singolo condomino-proprietario.

Con una non lontana sentenza la stessa Corte di Cassazione[73] ha affermato che l’apertura di finestre ovvero la trasformazione di luce in veduta su un cortile comune rientra nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 c.c., posto che i cortili comuni, assolvendo alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, sono utilmente fruibili a tale scopo dai condomini stessi, senza incontrare le limitazioni prescritte, in materia di luci e vedute, a tutela dei proprietari degli immobili di proprietà esclusiva.

Deroga espressa già da altre sentenze[74] secondo cui quando un cortile è comune a due corpi di fabbrica e manca una disciplina contrattuale vincolante per i comproprietari al riguardo, il relativo uso è assoggettato alle norme sulla comunione in generale, e in particolare alla disciplina di cui all’art. 1102, primo comma, cod. civ, in base al quale ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune, sempre che non ne alteri la destinazione e non ne impedisca il pari uso agli altri comunisti. L’apertura di finestre su area di proprietà comune ed indivisa tra le parti costituisce, pertanto, opera inidonea all’esercizio di un diritto di servitù di veduta, sia per il principio nemini res sua servit, sia per la considerazione che i cortili comuni, assolvendo alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, ben sono fruibili a tale scopo dai condomini, cui spetta anche la facoltà di praticare aperture che consentano di ricevere aria e luce dal cortile comune o di affacciarsi sullo stesso, senza incontrare le limitazioni prescritte, in tema di luci e vedute, a tutela dei proprietari dei fondi confinanti di proprietà esclusiva.

Per una maggiore disamina è utile, comunque, segnalare che a tali pronunce si e arrivati superando una contraria precedente Giurisprudenza [75] secondo la quale, invece, il partecipante alla comunione non poteva, senza il consenso degli altri, servirsi della cosa comune ai fini dell’utilizzazione di altro immobile di sua esclusiva proprietà distinto dai fondi al servizio dei quali questa sia stato originariamente destinata, perché il relativo uso si sarebbe in tal guisa rivolto nell’imposizione di fatto di una vera e propria servitù a carico della cosa comune e a favore dell’anzidetto immobile. Ne derivava che l’obbligo stabilito dall’art. 905 c.c. di rispettare le distanze per l’apertura di vedute dirette sussisteva anche nel caso in cui lo spazio tra edifici vicini era costituito da un cortile comune la cui la presenza imponeva a carico dei proprietari dei fabbricati frontistanti dei limiti ancora più severi di quelli fissati dalle norme sulle distanze, in quanto l’esecuzione di nuove costruzioni (porte a piano terreno, finestre e balconi) non poteva alterare la destinazione del cortile consistente nel dare luce ed aria agli edifici su di esso prospettanti.

Tale deroga trova una limitazione anche in un’altra pronuncia della Cassazione [76] la quale stabilisce che, salva l’opposizione, per motivi di sicurezza o di estetica, degli altri partecipanti alla comunione, al condominio è consentito aprire nel muro comune, sia esso maestro oppure no, luci sulla strada o sul cortile; tuttavia, qualora il muro comune assolva anche la funzione di isolare e dividere la proprietà individuale di un condominio dalla proprietà individuale di altro condominio, ricorrono anche gli estremi per l’applicabilità dell’art. 903, II comma, c.c., con la conseguenza che, in tal caso, l’apertura della luce resta subordinata sia alle condizioni ed alle limitazioni previste dalle norme in materia di condominio (con riguardo agli interessi riconosciuti a tutti i partecipanti alla comunione e alle regole stabilite circa l’uso delle cose comuni da parte dei singoli condomini) sia, alla stregua del II comma del cit. art. 903 c.c., al consenso del condominio vicino, in considerazione dell’interesse del medesimo alla riservatezza della sua proprietà individuale.

Infine, è bene segnalare anche quest’ultima sentenza secondo cui il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune può aprire su esso abbaini e finestre – non incompatibili con la sua destinazione naturale – per dare aria e luce alla sua proprietà, purché le opere siano a regola d’arte e non ne pregiudichino la funzione di copertura, né ledano i diritti degli altri condomini sul medesimo [77].

Inoltre, in virtù di un’ulteriore pronuncia della S.C.[78], a conferma di altre sentenze espresse dalla medesima Cassazione, il condomino che abbia trasformato il proprio balcone in veranda, elevandola sino alla soglia del balcone sovrastante, non è soggetto, rispetto a questa, all’osservanza delle distanze prescritte dall’art. 907 c.c.nel caso in cui la veranda insista esattamente nell’area del balcone, senza debordare dal suo perimetro, in modo da non limitare la veduta in avanti e a piombo del proprietario del balcone sovrastante, giacché l’art. 907 citato non attribuisce a quest’ultimo la possibilità di esercitare dalla soletta o dal parapetto del suo balcone una inspectio o prospectio obliqua verso il basso e contemporaneamente verso l’interno della sottostante proprietà.

Altra ultima Cassazione[79] richiama l’orientamento già espresso dalla Corte[80] secondo il quale il condomino che abbia trasformato il proprio balcone in veranda, elevandola sino alla soglia del balcone sovrastante, non é soggetto, rispetto a questa, all’osservanza delle distanze prescritte dall’articolo 907 c.c., nel caso in cui la veranda insista esattamente nell’area del balcone, senza debordare dal suo perimetro, in modo da non limitare la veduta in avanti e appiombo del proprietario del balcone sovrastante; é invece soggetto alla normativa sulle distanze quando la costruzione insista su altra area del terrazzo non ricadente in quella del sovrastante balcone.

La ratio di tale orientamento – si continua a leggere nella sentenza in commento – come già scritto in precedenza, deve ravvisarsi nel fatto che tra le normali facoltà attribuite al titolare della veduta diretta od obliqua esercitata da un balcone è compresa senz’altro quella di inspicere e prospicere in avanti ed appiombo, ma non quella di sogguardate verso l’interno della sottostante proprietà coperta dalla soglia del balcone, non potendo trovare tutela, salvo che non esista al riguardo una specifica disciplina negoziale, la sua pretesa di esercitare la veduta con modalità abnormi e puramente intrusive, ossia sporgendosi oltre misura dalla ringhiera o dal parapetto[81].

Tuttavia il principio, secondo tale ultima sentenza, come sopra enunciato non è applicabile alla fattispecie trattata in esame perchè il ricorrente ha costruito, sul proprio terrazzo, una tettoia pur in assenza, al piano soprastante, di un balcone aggettante. Nella sentenza impugnata, infatti, si da atto che era stata ostruita la visuale da una finestra e non da un balcone e ne discende che la veduta dalla finestra è stata sicuramente limitata rispetto alla situazione precedente alla costruzione; in tal senso si è espressa anche la stessa Corte con la sentenza 15186/2011, richiamata in ricorso dal ricorrente e che, contrariamente a quanto dallo stesso sostenuto, aveva appunto confermato la sentenza della Corte di Appello nella parte in cui aveva ritenuta illegittima la costruzione in caso identico. In fatto, pertanto, la costruzione, come rilevato dalla Corte di Appello, ha impedito effettivamente il diritto di veduta appiombo.

La sentenza della Corte di Appello è inoltre immune da critiche, con riferimento ai principi di diritto applicati, che sono conformi alla giurisprudenza di questa Corte[82] che ha affermato:

  • che l’articolo 907 c.c., che vieta di costruire a distanza inferiore di tre metri dalle vedute dirette aperte sulla costruzione del fondo finitimo, pone un divieto assoluto, la cui violazione si realizza in forza del mero fatto che la costruzione é a distanza inferiore a quella stabilita, a prescindere da ogni valutazione in concreto se essa sia o meno idonea ad impedire o ad ostacolare l’esercizio della veduta[83]; la norma infatti enuclea in favore del titolare della veduta un diritto perfetto al rispetto della distanza legale da parte della costruzione del vicino, senza introdurre ulteriori condizioni;
  • che non possono rilevare le esigenze di contemperamento con i diritti di proprietà ed alla riservatezza del vicino, avendo operato già l’articolo 907 c.c.il bilanciamento tra l’interesse alla medesima riservatezza ed il valore sociale espresso dal diritto di veduta, in quanto luce ed aria assicurano l’igiene degli edifici e soddisfano bisogni elementari di chi li abita;
  • che non divergono da tale principio le pronunce della medesima Corte di Cassazione[84] che, in determinati casi, ai fini della tutela del diritto di veduta, richiedono una valutazione circa l’idoneità dell’opera del vicino ad ostacolarne l’esercizio, valorizzando, in tale prospettiva, la finalità della norma, che è indubbiamente quella di assicurare al titolare del diritto una quantità sufficiente di aria e di luce e di consentirgli la inspectio e la prospectio nel fondo altrui; tale valutazione è ritenuta necessaria non in tutti i casi, ma soltanto laddove l’opera eseguita non integri un fabbricato in senso tecnico e proprio, ma un manufatto diverso (quale ad esempio una rete plastificata o una recinzione in telo), non costituente costruzione in senso tecnico, pur nell’accezione molto ampia accolta dalla giurisprudenza; con riferimento a tali manufatti si sostiene che essi, ai fini della tutela del diritto di veduta, appaiono assimilabili al fabbricato soltanto a condizione che effettivamente ne ostacolino l’esercizio;
  • che questo stesso orientamento conferma che nel caso in cui l’opera abbia le caratteristiche di costruzione in senso proprio tale accertamento non è necessario;
  • che la valutazione che l’opera ostacoli in concreto il diritto del vicino è richiesta non già in funzione limitativa del relativo diritto di veduta, ma al fine di estenderne la tutela anche a quei manufatti non aventi la caratteristica di fabbricato in senso proprio.

Per quanto riguarda le luci, vi è una importante deroga rispetto alla regola generale, come anche statuito da ultima Cassazione

Corte di Cassazione|Sezione 2|Civile|Ordinanza|| n. 12175

secondo la quale, appunto, le aperture di luci che si aprono tra un vano e l’altro dello stesso edificio condominiale, a differenza di quelle che si aprono su un fondo aperto altrui e alle quali fa riferimento l’articolo 900 c.c., sono prive della connotazione di precarietà e mera tolleranza che caratterizza le luci contemplate negli articoli da 901 a 904 c.c.. Ne consegue che, in ordine ad esse, è ipotizzabile, in favore di chi ne beneficia, nonostante il mancato consenso del vicino, l’acquisto della relativa servitù per usucapione in virtù del protratto possesso correlato all’effettiva esistenza dello stato di fatto. (In applicazione di detto principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva riconosciuto, nell’ambito di uno stesso edificio condominiale, l’avvenuta usucapione della servitù consistente nel diritto a mantenere una finestra collocata tra una cucina di proprietà esclusiva di un condomino e il vano scala di proprietà esclusiva di altro condomino).

E) Lo Jure servitutis

L’apertura di una veduta fa sorgere in chi ne è il titolare, una serie di poteri-doveri, la cui regolamentazione può formare il contenuto della servitù di veduta.

Certo è che il diritto di veduta può nascere o in forza

1)     del diritto di proprietà

o in forza

2)     di convenzione costitutiva di servitù[85].

In particolare, quando la veduta sia aperta nel rispetto dei limiti fissati dalla legge, si è in presenza di un diritto di veduta, in ragione del diritto di proprietà (jure proprietatis).

Quando la veduta sia, invece, aperta in base ad una convenzione scritta tra vicini, che consenta la deroga alle distanze fissate dalla legge, si è in presenza di una veduta, in forza di servitù prediale (jure servitutis).

In tal caso, la servitù di veduta si traduce in un peso gravante sul fondo del vicino, a vantaggio del fondo da cui la veduta è esercitata.

L’autorizzazione all’apertura di una veduta a distanza inferiore, da quella legale e la rinuncia a pretenderne l’eliminazione avendo ad oggetto la costituzione di un vincolo di natura reale sul bene, comportando un peso a carico di uno degli immobili e una corrispondente utilitas immediatamente fruibile a vantaggio dell’altro, richiedono, ai sensi dell’art. 1350 c.c., la forma scritta “ad substantiam[86].

In sostanza, la veduta jure proprietatis non è null’altro che l’esercizio di una facoltà normalmente inerente al diritto di proprietà di un fondo costruito, con la conseguenza che, se un proprietario apre una veduta, nel rispetto delle distanze legali, il vicino non può opporvisi; mentre la veduta jure servitutis è quella aperta a distanza minore da quella legale, fissata dagli artt. 905 e 906 c.c.

Fermo restando che – in base ai principi generali sulle servitù prediali – ai fini del sorgere di una servitù, deve essere configurabile una utilità per il fondo dominante e un peso per il fondo servente.

Difatti, secondo la Corte [87] del “palazzaccio” rientra nel potere dispositivo delle parti costituire delle servitù di contenuto atipico ed è, quindi, consentito convenire a favore di un fondo e a carico di un altro fondo la servitù di aria e luce, giacché il contenuto di una limitazione legale della proprietà immobiliare può essere incluso in una servitù vera e propria di maggiore portata, attraverso la quale il fondo venga agevolato, in misura maggiore di quella che stabilisce la legge, mediante l’onere imposto al vicino; in tal caso, l’esercizio della servitù rimarrà disciplinato dal titolo costitutivo di essa ed il vicino, proprietario del fondo servente, perderà le facoltà, attribuitegli dall’art. 904 c. c., di chiedere la medianza del muro per costruirvi in appoggio o di chiudere la luce con una costruzione in aderenza, poiché proprio a quel fine tende la costituzione della servitù, creando a carico del proprietario di quel fondo l’obbligo di sopportare la luce e di non operarne mai la soppressione.

In base ai principi generali sulle servi la servitù di veduta può essere costituita[88] per

  • contratto,
  • testamento,
  • pronuncia dell’autorità giudiziaria,
  • usucapione o per destinazione del padre di famiglia.

In particolare, quando nasca per convenzione, la servitù necessita dello scambio dei consensi da parte dei vicini interessati, intesi a definirla in tutti gli elementi necessari per individuarla e disciplinarla.

In ogni caso, la servitù di origine convenzionale può essere costituita dal proprietario del fondo servente, dal superficiario[89], dall’enfiteuta, dal nudo proprietario e, se il fondo servente appartenga a più proprietari, da tutti i comproprietari. (ad es. occorre l’unanimità dei consensi di tutti i condomini).

Quanto alla servitù di veduta costituita per testamento, essa è l’unica ad essere costituita unilateralmente, nell’ambito delle servitù volontarie: si pensi al caso in cui il testatore imponga all’erede di costituire una servitù di veduta in favore di un fondo, ovvero attribuisca al legatario il diritto di ottenere la costituzione di una servitù di veduta, a carico del fondo dell’erede o di altro legatario.

La servitù di veduta può in ogni caso – come ogni altra servitù prediale – essere costituita anche con pronuncia dell’autorità giudiziaria.

In tal caso, la pronuncia giudiziale costitutiva della servitù è configurata non alla stregua delle pronunce di accertamento dichiarativo, quali possono essere quelle che decidono controversie, in ordine all’esistenza o non di una servitù; ma alla stregua delle sentenze costitutive, di cui all’art. 2932 c.c.

Da ultimo, la servitù di veduta può nascere anche per destinazione del padre di famiglia (art. 1062 c.c.), quando il fondo servente ed il fondo dominante siano appartenuti ad un unico proprietario e questi abbia lasciato una situazione di fatto dei luoghi, tale da permettere l’insorgere di una servitù.

Ma tale argomento sarà affrontato al prossimo paragrafo.

E) – 1) Modifiche comportanti aggravio di servitù

 

[90]

Sono state ritenute modifiche gravatorie della servitù di veduta:

  • la trasformazione di una finestra munita di inferriata in porta priva di inferriata;
  • l’abbassamento del parapetto da cui si esercita la veduta da una finestra o da una terrazza;
  • l’ingrandimento in altezza di una finestra;
  • lo spostamento, rispetto al suo asse, dell’apertura o il suo allargamento;
  • la trasformazione di una terrazza in un vano abitabile, con trasformazione del parapetto esistente in finestra;
  • la trasformazione di una finestra in un ballatoio pensile (in conseguenza del maggior numero di persone che, sostando sul terrazzo, possono esercitare la veduta);
  • la trasformazione di una finestra in una terrazza, che renda più gravosa la condizione del fondo servente;
  • la sostituzione di una terrazza con una finestra, posto che la finestra praticata in un vano chiuso consente una permanenza più comoda, agevole e protetta dagli agenti atmosferici esterni, con possibilità per il proprietario di guardare senza essere visto;
  • come già analizzato, anche l’installazione di una scala a chicciola può configurare un aggravio di servitù quando, per le particolari situazioni e caratteristiche di fatto, risulta obiettivamente destinata, in via normale, anche all’esercizio della prospectio ed inspectio su o verso il fondo del vicino.

 

E) – 2) Modifiche non comportanti aggravio di servitù

 

[91]

Sono invece ritenute modifiche che non comportano aggravamento della servitù:

  • In generale, secondo ultima Cassazione(Corte di Cassazione, sezione seconda civile, ordinanza 23 novembre 2017, n. 27909), la possibilita’ di restare in maniera piu’ comoda ad esercitare una veduta non costituisce aggravamento della servitu’ di veduta. Non costituisce aggravamento della servitu’ di veduta, ai sensi dell’articolo 1067 c.c., la trasformazione di un precedente affaccio occasionale.
  • l’inserimento, in una veduta, di sportelli o persiane, prima non esistenti;
  • la sostituzione del davanzale di un parapetto di mattoni con un parapetto in lastre di pietra o di marmo;
  • l’aumento del parapetto fino ad un’altezza tale da non consentire comunque un comodo affaccio;
  • lo spostamento in altezza di una finestra o di una terrazza, lungo lo stesso asse;
  • la sostituzione di una finestra con una terrazza;
  • il cambiamento del luogo di esercizio della servitù di veduta (art. 1068, secondo comma, c.c.);
  • lo spostamento verso l’alto, di una finestra, a seguito della sopraelevazione del pavimento;
  • lo spostamento in altezza di una terrazza, posto che tale spostamento comporta un semplice cambiamento del luogo di esercizio della servitù preesistente, per il quale non è richiesto un nuovo titolo;
  • la chiusura di un lato del terrazzo con un muro e una finestra. Si è peraltro in presenza di una nuova servitù nel caso di edificazione
  • in un nuovo piano sopraelevato – di una veranda coperta, con davanzale di affaccio in luogo del parapetto affacciatoio del preesistente terrazzo: in tal caso si è al di fuori della ipotesi prevista dall’art. 1067, trattandosi di nuova servitù e non già di innovazione o aggravamento della preesistente servitù.
  • la fissazione di una rete plastificata con collegamento precario alla parete[92];
  • Secondo Cassazione[93] in alcuni casi in tema di servitù, la trasformazione in porta di una finestra, la quale è destinata alla veduta verso l’immobile altrui, dà luogo al mutamento da servitù di veduta a servitù di passaggio, posto che la funzione precipua della porta è, appunto, il transito da un luogo all’altro. (Fattispecie relativa alla trasformazione di una finestra prospiciente un lastrico solare in porta-finestra).
  • La collocazione di sporti sulla colonna d’aria altrui non integra una servitù considerato che il calcolo delle distanze delle nuove costruzioni dalle altrui vedute ai sensi dell’art. 907 c.c. che richiama l’art. 905 c.c.va operata dalla faccia esteriore del muro nel quale si aprono le vedute dirette e non già dal punto di massima sporgenza delle stesse che si aprono “a compasso” verso l’esterno. Piuttosto, la collocazione degli sporti di cui si dice integra gli estremi di un’attività regolamentata dall’art. 840 c.c. e con valutazione di merito la sentenza, in presenza di un’oggettiva utilità, ha escluso l’esistenza di un atto emulativo, nonostante, non sembra che sia stato dedotto che gli infissi non avevano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia altrui. Così deciso dalla Cassazione[94], con altra pronuncia

E) – 3) Cause di estinzione della servitù di veduta

 

[95]

Quanto alle cause di estinzione delle servitù di veduta: esse sono le stesse cause tipiche previste, per tutte le servitù, dagli artt. 1072-1078 c.c.: confusione, prescrizione, impossibilità dell’esercizio e del godimento, perdita del diritto dell’enfiteuta, rinuncia, perimento totale (a parte le cause tipiche previste dalle leggi speciali).

Vale peraltro la pena di soffermarsi, sia pure schematicamente, sulle cause di estinzione delle servitù di veduta.

  • Estinzione per confusione. Si verifica quando il fondo dominante ed il fondo servente, già appartenenti a soggetti diversi, passano in proprietà ad un unico soggetto. In tal caso, l’estinzione si verifica immediatamente; ma la originaria servitù non rinasce se il nuovo unico proprietario rivenda, subito dopo, uno dei due fondi acquistati. Fermo ovviamente restando che l’estinzione si verifica solo se l’acquisto del dominio sui due fondi sia pieno e non limitato, ipotesi questa che può verificarsi nei casi di nuda proprietà, usufrutto, eredità accettata con beneficio di inventario ecc.
  • Estinzione per prescrizione. Si verifica, per esempio, quando il vano di apertura della finestra, costruito in muratura, venga chiuso e la finestra perda la sua caratteristica essenziale, diventando solo una parte del muro in cui era stata aperta. In particolare, il non uso, protratto per un ventennio – decorrente dal momento in cui ebbe inizio l’esercizio della veduta – comporta l’estinzione della servitù per prescrizione.
  • Estinzione per impossibilità dell’esercizio della servitù di veduta. Tale causa di estinzione opera quando il mancato esercizio si sia protratto per il tempo indicato dalla legge, quali che siano le ragioni che l’abbiano determinato. In tal caso, la servitù diventa inutile, sicché l’estinzione, per impossibilità dell’esercizio, ben può essere equiparata al caso della estinzione per prescrizione.
  • Estinzione per perdita del diritto dell’enfiteuta. Poiché la servitù dura fin che duri l’enfiteusi, la servitù di veduta si estingue anche nei casi di cessazione dell’enfiteusi, previsti dalla normativa del codice, se l’enfiteusi è perpetua, o al termine del tempo prefissato per la scadenza, se temporanea.
  • Estinzione per rinuncia totale o parziale. Tale causa di estinzione si concretizza in una manifestazione di volontà del titolare della servitù, a mezzo di atto scritto e trascritto, a norma degli artt. 1350 e 2643 c.c. Peraltro, poiché la servitù – come diritto reale parziale – è esercitabile erga omnes, la rinuncia non può avere alcun destinatario determinato. Conseguentemente, la rinuncia non ha natura ricettizia, anche se deve essere manifestata in forma scritta, a norma dell’art. 1350, salva la trascrizione per l’opponibilità ai terzi.
  • Estinzione per perimento totale del fondo servente o dominante. Tale causa di estinzione si verifica in presenza della distruzione materiale e permanente di uno dei fondi, con esclusione di una qualsiasi utilizzabilità dei fondi. Peraltro, la ricostruzione dell’immobile crollato o demolito può dar luogo a una nuova servitù ove intervenga entro il ventennio successivo al crollo (art. 1074 c.c.). Si tenga in proposito presente che la distruzione dell’immobile oggetto di servitù non è causa di estinzione della servitù quando quest’ultima possa essere esercitata, sia pure con diverse modalità, ma nei limiti e per gli scopi per i quali era stata originariamente costituita. La minore ipotesi del perimento parziale del fondo potrà comportare, invece, una diminuzione di godimento della servitù, non anche la sua estinzione.
  • Estinzione per altre cause tipiche previste dalle leggi speciali ed in particolare dalla legge sulle espropriazioni (art. 52 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 – abrogata dal decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327). In tal caso, al titolare del fondo dominante spetterà una quota parte dell’indennità di esproprio corrisposta al titolare del fondo espropriato.

F) Usucapione della minor distanza

[96] 

Anche il diritto ad avere una luce o una veduta a distanza non regolamentare può essere usucapito, l’importante è che vi siano tutti i requisiti perché ciò avvenga: soprattutto la durata della presenza di tale luce o veduta, come per gli altri casi di vent’anni.

In particolare, il possesso della servitù di veduta, ai fini dell’usucapione, decorre dal momento in cui l’opera è stata ultimata e destinata al suo scopo e cioè dal momento in cui è sorta la possibilità di effettuare l’affaccio.

Sotto questo profilo, ai fini dell’usucapione, non è necessario l’esercizio continuato nel tempo della veduta e dell’affaccio, potendo bastare anche l’esercizio ad intervalli, a condizione che sussista il requisito della visibilità e cioè che l’opera relativa alla servitù sia visibile dal titolare del fondo servente. Sicché, se l’apertura è costruita in una posizione tale per cui il vicino non possa scorgerla con la diligenza ordinaria – sia che si guardi dall’edificio, che dal fondo asservito, che dalle adiacenze di esso – dovrà ritenersi insussistente il requisito della visibilità.

Presupposto logico-giuridico dell’attuazione della disciplina della distanza delle costruzioni dalle vedute di cui all’art. 907 c.c. e l’anteriorità dell’acquisto del diritto alla veduta sul fondo vicino rispetto all’esercizio, da parte del proprietario di quest’ultimo, della facoltà di costruire.

Pertanto, nel caso in cui l’usucapione del diritto di esercitare la servitù di veduta si sia maturata, per compimento del termine utile, dopo l’ultimazione dell’edificio costruito sul fondo vicino, il titolare della servitù non può richiedere l’arretramento di tale edificio alla distanza prevista dalla citata norma. Né vale invocare in contrario il principio della retroattività degli effetti dell’usucapione, in quanto, se è vero che l’usucapiente diventa titolare del diritto usucapito sin dalla data d’inizio del suo possesso, tuttavia i suddetti effetti sono commisurati alla situazione di fatto e diritto esistente al compimento del termine richiesto: ne consegue che se, durante il maturarsi del termine, il soggetto, che avrebbe potuto contestare l’esercizio della veduta, ha modificato tale situazione, avvalendosi della facoltà di costruire sul proprio fondo, e a tale situazione che occorre far riferimento per stabilire il contenuto ed i limiti del diritto di veduta usucapito[97].

La continuità si distingue, pertanto, dall’interruzione del possesso, giacché la prima si riferisce al comportamento del possessore, mentre la seconda deriva dal fatto del terzo che privi il possessore del possesso (interruzione naturale) o dall’attività del titolare del diritto reale che compia un atto di esercizio del diritto medesimo (nella specie [98], il possessore di una servitù di veduta ne aveva dismesso per un certo periodo l’esercizio, eliminando con la schermatura di una terrazza ogni possibilità di inspectio e di prospectio sul fondo limitrofo).

Poiché non è necessaria l’esistenza di un titolo per costituire una servitù per destinazione del padre di famiglia – la trascrizione, sarà irrilevante ai fini dell’opponibilità ai terzi.

In ogni caso, non può essere equiparato ad un titolo costitutivo della servitù per destinazione del padre di famiglia l’atto ricognitivo della servitù, che costituisce solo negozio di accertamento, posto che in tanto può farsi luogo alla ricognizione di una servitù, in quanto sussista – perché sorta in precedenza – la servitù stessa.

Secondo la Suprema Corte[99] qualora si aprano fra un vano e l’altro dell’edificio condominiale, le luci, essendo prive della connotazione della precarietà e della mera tolleranza, sono sottratte alla disciplina prevista dagli artt. 900-904 c.c.con riferimento all’ipotesi in cui le stesse si aprano sul fondo altrui; pertanto, è possibile – a favore di chi ne beneficia – acquisire la relativa servitù, per destinazione del padre di famiglia, o per usucapione, in virtù del possesso correlato all’oggettiva esistenza dello stato di fatto nel quale si manifesta l’assoggettamento parziale di in immobile a servizio od utilità dell’altro.

Invece, come già è stato analizzato in precedenza, il possesso di luci irregolari, sprovvisto di titolo e fondato sulla mera tolleranza del vicino, non può condurre all’acquisto per usucapione o per destinazione del padre di famiglia della relativa servitù, in quanto la servitù di aria e luce – che è negativa, risolvendosi nell’obbligo del proprietario del fondo vicino di non operarne la soppressione – non è una servitù apparente, atteso che l’apparenza non consiste soltanto nell’esistenza di segni visibili ed opere permanenti, ma esige che queste ultime, come mezzo necessario all’acquisto della servitù, siano indice non equivoco del peso imposto al fondo vicino in modo da fare presumere che il proprietario di questo ne sia a conoscenza. Né la circostanza che la luce sia irregolare è idonea a conferire alla indicata servitù il carattere di apparenza, non essendo possibile stabilire dalla irregolarità se il vicino la tolleri soltanto, riservandosi la facoltà di chiuderla nel modo stabilito, ovvero la subisca come peso del fondo, quale attuazione del corrispondente diritto di servitù o manifestazione del possesso della medesima[100].

Sempre in tema di usucapione, infine, quando l’interruzione del termine[101]necessario ad usucapire derivi, ai sensi dell’articolo 1165 c.c., dal riconoscimento del diritto del proprietario della cosa su cui il possesso è esercitato, siffatto riconoscimento, per essere operante a tali fini, deve provenire direttamente dal soggetto che lo manifesta o da soggetto abilitato ad agire in nome e per conto di quest’ultimo.

G) La tutela

Come già si è avuto modo di parlarne in merito all’istituto delle distanze tra le costruzioni, il proprietario ha diritto – qualora venga realizzata una luce o una veduta ex art. 900 c.c.  senza rispettarne i limiti stabiliti – alla riduzione in ripristino ex art. 2933 c.c.[102] (di natura reale, qualificabile come negatoria servitutis[103]) ed al risarcimento del danno[104] (di natura obbligatoria).

Occorre subito precisare, come di recente la Cassazione

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|27 marzo 2024| n. 8283

ha affermato che la distinzione tra norme integrative del codice civile, la cui violazione attribuisce al danneggiato il diritto alla demolizione, e norme non integrative la cui violazione non attribuisce un tale diritto, riguarda soltanto la disciplina dettata per regolare la distanza fra le costruzioni e non anche l’esercizio del diritto di veduta che ha natura giuridica e contenuto precettivo diverso. Pertanto ove quest’ultimo diritto venga violato, trattandosi di diritto reale assoluto, l’unico modo possibile di ripristinare la situazione legale è quello della rimessione nel pristino stato.

Mentre, in merito al risarcimento del danno la Corte di Piazza Cavour[105] ha confermato un orientamento consolidato della medesima Corte secondo il quale l’esercizio di un diritto reale in forma abusiva, perché insussistente, determina una limitazione automatica del diritto di godimento dell’altrui proprietà, tale da poter configurare l’esistenza di un danno in re ipsa, che, come tale, non necessita di una specifica attività probatoria.

Ma, tale azione di cui all’art. 907 c.p.c., relativa alla distanza delle costruzioni dalle vedute, ha natura giuridica, presupposti di fatto e contenuto precettivo diversi da quelli relativi alla disciplina di cui all’art. 873 c.p.c. che regolamenta la distanza tra le costruzioni al diverso fine di evitare la formazione di intercapedini dannose; ne consegue che al proprietario che richieda in giudizio la tutela del suo dominio da abusi del vicino concretantisi in violazione delle norme sulle distanze tra le costruzioni, non può essere accordata, perché estranea all’oggetto della sua domanda, la tutela di diritti di veduta e non può, pertanto, disporsi l’arretramento di una sopraelevazione per il mancato rispetto della distanza da tale veduta, invece che per il mancato rispetto della distanza tra costruzioni[106].

Per ultimo adagio della Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 16 febbraio 2017, n. 4192

la titolarità del diritto reale di veduta costituisce una condizione dell’azione al fine di esigere l’osservanza da parte del vicino delle distanze di cui all’art. 907 cod. civ. e, come tale va accertata anche di ufficio dal giudice, salvo che da parte del convenuto non vi sia stata ammissione, esplicita o implicita, purché inequivoca, della relativa sussistenza.
In materia di vedute infatti l’obbligo di osservare la distanza dalle vedute prescritta dall’art. 907 cod. civ. presuppone che colui che ha costruito per primo abbia acquistato, ad es. per usucapione o per convenzione, il diritto ad avere vedute verso il fondo vicino

Sempre secondo la Corte di Piazza Cavour[107] in tema di risarcimento del danno per lesione dei diritti reali – nella specie, del diritto di veduta – rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito (il cui mancato esercizio non è censurabile in sede di legittimità) attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente anziché quello in forma specifica, salvo il dovere, imposto dall’art. 2933, secondo comma, c.c., di provvedere nel primo senso se la distruzione della cosa è di pregiudizio per l’economia nazionale.

A parere di altra pronuncia della stessa Corte[108]il giudice adito con domanda di condanna alla demolizione di una veduta abusiva può imporre, in luogo della demolizione, gli specifici accorgimenti che eliminano la veduta solo in presenza di una richiesta in tal senso di colui che ha aperto la veduta.

Principio ripreso da un sentenza della Corte d’Appello di Ancona[109] ovvero: il Giudice può disporre, in via alternativa, alla demolizione delle porzioni immobiliari per mezzo delle quali sono esercitate o esercitabili le vedute abusive, l’esecuzione e, dunque, la predisposizione di specifici ed opportuni accorgimenti, idonei ad inibire tali vedute, purché la parte processuale che ne abbia interesse chieda espressamente al Giudice l’esercizio di siffatto potere. In tal senso, nel caso concreto è stato dichiarata infondata la censura sollevata verso la sentenza del giudice di prime cure per non aver previsto nessuna soluzione alternativa alla demolizione delle opere oggetto di esame, atteso che l’appellante, pur avendo nel motivo di gravame prospettato la possibilità di ottenere il rispetto delle distanze di cui all’art. 905 c.c. con mezzi diversi dalla demolizione, non aveva poi nelle conclusioni dell’atto di appello, richiesto che la Corte di Appello adita disponesse concretamente soluzioni alternative alla demolizione, essendosi limitato genericamente a richiedere il rigetto delle domande attrici.

Contraria risulta, però essere, una pronuncia della Suprema Corte[110], a mente della quale in presenza di una domanda diretta all’eliminazione di vedute, perché esercitate da distanza inferiore a quella di legge, la statuizione del giudice che consente (in alternativa all’obbligo di eliminazione) l’arretramento delle vedute stesse, senza la necessità di eliminarle, è perfettamente in linea con la domanda, senza che sia necessaria, al riguardo, una specifica richiesta della parte convenuta.

Logicamente, anche in merito all’art. 906. c.c., il quale assoggetta l’apertura di vedute laterali od oblique sul fondo contiguo alla distanza di cm. 75 da misurarsi dal più vicino lato della finestra o dal più vicino sporto, è attribuito[111] al vicino in caso di violazione il diritto di agire per ottenere la condanna al ripristino della distanza legale inosservata, mediante arretramento della finestra o dello sporto da cui le vedute siano esercitate o esercitabili, ovvero in alternativa, e sempreché il convenuto ne abbia fatta espressa richiesta, attraverso l’adozione di specifici ed opportuni accorgimenti (quali la collocazione di pannelli stabiliti in vetro retinato opaco) idonei ad evitare che tali vedute siano esercitabili a distanza inferiore a quella legale.

L’apprezzamento circa l’adeguatezza dei correttivi concretamente adottati è riservato al giudice del merito e si sottrae al sindacato di legittimità se congruamente motivato.

Per quanto riguarda, invece, l’onere probatorio chi agisce giudizialmente per fare dichiarare la inesistenza a carico del proprio fondo di una servitù di veduta diretta deve limitarsi a provare che sul fondo del vicino si apre una veduta a distanza inferiore a un metro e mezzo dal confine, in quanto l’art. 905 c.c.gli dà diritto di pretenderne l’eliminazione, mentre incombe al convenuto, ai sensi dell’art. 2697 c.c. per evitare il riconoscimento di tale diritto, fornire la prova di un titolo che gli attribuisca la servitù di veduta. Soltanto se affermi che la veduta sia stata aperta in sostituzione di un’altra veduta di cui ammetta o non contesti la conformità al diritto, l’attore deve, altresì, dimostrare il presupposto su cui si basa la sua pretesa, cioè la difformità della nuova veduta rispetto a quella preesistente[112].

Ancora sul punto di recente la Cassazione

Corte di Cassazione, civile, Sentenza|19 gennaio 2022| n. 1614.

ha riaffermato che chi agisce giudizialmente per fare dichiarare la inesistenza a carico del proprio fondo di una servitu’ di veduta diretta deve limitarsi a provare che sul fondo del vicino si apre una veduta a distanza inferiore a un metro e mezzo dal confine, in quanto l’articolo 905 c.c. gli da’ diritto di pretenderne l’eliminazione, mentre incombe al convenuto, ai sensi dell’articolo 2697 c.c., per evitare il riconoscimento di tale diritto, fornire la prova di un titolo che gli attribuisca la servitu’ di veduta. Soltanto se affermi che la veduta sia stata aperta in sostituzione di un’altra veduta di cui ammetta o non contesti la conformita’ al diritto, l’attore deve, altresi’, dimostrare il presupposto su cui si basa la sua pretesa, cioe’ la difformita’ della nuova veduta rispetto a quella preesistente (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 20871 del 29/09/2009 Rv. 609961; Sez. 2, Sentenza n. 5734 del 13/06/1994 Rv. 487045; Sez. 2, Sentenza n. 1605 del 24/04/1975 Rv. 375196).

Si legge, poi, nel caso ci specie che avendo poi il (OMISSIS) suffragato la domanda con una perizia di parte corredata di rilievi fotografici e chiesto – gia’ con l’atto introduttivo – la nomina di un consulente tecnico di ufficio (consulente “percipiente”, trattandosi di accertamento di fatti: cfr. tra le varie Sez. 3, Ordinanza n. 3717 del 08/02/2019 Rv. 652736; Sez. 3, Sentenza n. 6155 del 13/03/2009 Rv. 607649 e con cio’ si risponde all’ulteriore eccezione contenuta a pagg. 10 e ss. del controricorso e 2 e ss. della memoria), non si comprende di quale altro onere avrebbe dovuto farsi carico l’odierno ricorrente al fine di veder tutelare davanti ai giudici di merito il suo diritto alla eliminazione di vedute che si assumevano aperte nel muro posto a confine col suo fondo (il “cortile scoperto”, si ripete).

In particolare, poi, il vicino che eccepisca la natura pubblica della porzione di terreno che separa il suo fabbricato, su cui ha aperto vedute a distanza inferiore a quella legale, da quello antistante, acquistato da altri con il medesimo titolo unitamente a tale porzione, ha l’onere di provare tale natura demaniale, e a tal fine le risultanze catastali concernenti la particella in contestazione hanno valore meramente indiziario, ancorché risalenti al tempo dell’istituzione del catasto, perché prive di efficacia negoziale, mentre le note di conferma del Comune al riguardo hanno carattere unilaterale[113].

 

G) – 1)     L’azione volta a regolarizzare le servitù ex art. 902 c.c.

In virtù dell’art. 902, oltre alle azioni su elencate, vi è un’ulteriore e diversa azione ovvero: in materia di diritti reali, la domanda volta ad obbligare il vicino alla regolarizzazione di una luce, pur costituendo quantitativamente un minus rispetto alla actio negatoria servitutis[114], rappresenta un qualcosa di diverso rispetto a quest’ultima; ne consegue che – proposta domanda originaria di riduzione a distanza legale di una servitù di veduta diretta ed indiretta sul proprio fondo – costituisce domanda nuova, come tale inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la regolarizzazione di una luce irregolare, atteso che l’accoglimento di detta domanda imporrebbe l’esecuzione di opere non ricomprese nel petitum originario[115].

Principio, ripreso da altra recente Cassazione

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|28 luglio 2021| n. 21615.

secondo la quale: i presupposti, la “ratio” e la disciplina sulle distanze per l’apertura di vedute, da un lato e di luci, dall’altro, sono differenti: mentre nel primo caso si intende essenzialmente tutelare il proprietario dall’indiscrezione del vicino, impedendo a quest’ultimo di creare aperture a distanza inferiore a quella di un metro e mezzo, la cui inosservanza può essere eliminata solo con l’arretramento o la chiusura della veduta, nel secondo, diversamente, si regolamenta il diritto a praticare sul proprio fabbricato delle aperture verso il fondo del vicino, finalizzate solo ad attingere luce ed aria, stabilendo i requisiti di altezza e di sicurezza cui è condizionata la limitazione del diritto del vicino medesimo, il cui rispetto può ottenersi in qualunque tempo dal proprietario del fondo confinante, attraverso la semplice regolarizzazione delle aperture create in loro violazione. Ne consegue che, ove venga proposta una domanda di riduzione alla distanza legale di una servitù di veduta, diretta ed indiretta, sul proprio fondo, costituisce domanda nuova, come tale inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la regolarizzazione di una luce irregolare, atteso che il suo accoglimento imporrebbe l’esecuzione di opere non ricomprese nel “petitum” originario.

Inoltre, viola il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato il giudice di merito che, adito allo scopo di sentir dichiarare l’illegittimità di alcune vedute aperte in una costruzione eretta in sopraelevazione, ne abbia imposto la regolarizzazione invece come “luci”. Diversi sono infatti, i presupposti per l’una e l’altra disciplina, riguardando l’art. 905 c.c.le aperture che consentono di inspicere e di prospicere, cioè di vedere ed affacciarsi verso il fondo del vicino, ed invece gli artt. 901 e 902 c.c. il diritto di praticare aperture in direzione di quello per attingere luce ed aria; così come diversi sono i rimedi, poiché l’inosservanza delle distanze dettate dall’art. 905 c.c. può essere eliminata soltanto dall’arretramento o chiusura delle vedute, mentre le prescrizioni sulle luci possono farsi rispettare attraverso la loro semplice regolarizzazione[116].

Sentenza che riprende a pieno il principio più volte enunciato dalla stessa suprema Corte[117] in senso più generale ovvero: i diritti assoluti – reali o di status – si identificano in sé e non in base alla loro fonte, come accade per i diritti di obbligazione, sicché, l’attore può mutare il titolo in base al quale chiede la tutela del diritto assoluto senza incorrere nelle preclusioni (artt. 183, 189 e 345 c.p.c.) e negli oneri (art. 292 c.p.c.) della modificazione della causa petendi, né viene a concretarsi una violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato se il giudice accoglie il petitum sulla scorta di un titolo diverso da quello invocato. Infatti, la proprietà e gli altri diritti reali di godimento appartengono alla categoria dei cosiddetti “diritti autodeterminati”, individuati, cioè, in base alla sola indicazione del loro contenuto, rappresentato dal bene che ne costituisce l’oggetto, onde, nelle azioni a difesa di tali diritti, la causa petendi si identifica con il diritto stesso (diversamente da quanto avviene in quelle a difesa dei diritti di credito, nelle quali la causa petendi si immedesima con il titolo), mentre il titolo, necessario ai fini della prova di esso, non ha alcuna funzione di specificazione della domanda.

Ne consegue che, nel corso del giudizio inteso alla tutela del diritto di proprietà dall’altrui esercizio di una veduta, dedotto come illegittimo perché derivante dall’intervenuta trasformazione di un’originaria luce, mediante la condanna del convenuto al ripristino degli accorgimenti impeditivi della veduta previsti dall’art. 901 c.c., l’allegazione di un titolo – quale l’insussistenza di una servitù di veduta – diverso rispetto a quello posto originariamente a fondamento della domanda – quale il diritto ad ottenere la conformazione dell’apertura alle caratteristiche della luce – altro non rappresenta se non un’integrazione delle difese, aggiungendosi un ulteriore elemento di valutazione a quello precedentemente dedotto, che non dà luogo alla proposizione di una domanda nuova, così come non implica alcuna rinunzia a che il primo titolo dedotto venga anch’esso se del caso preso in considerazione, e, tanto meno, influisce in alcun modo sulle conclusioni, che restano, comunque, cristallizzate nel medesimo petitum consistente nella richiesta di accertamento della lesione del diritto di proprietà e di pronunzia idonea all’eliminazione della situazione lesiva.

Conseguentemente, decisa la controversia in primo grado sulla base dell’un titolo, non è preclusa in secondo grado la decisione sulla scorta dell’altro o di entrambi, giacché trattasi di argomentazioni difensive intese a specificare le ragioni della tutela del diritto reale in discussione che non immutano l’originario thema decidendum e possono, pertanto, essere svolte dalla parte interessata non solo nell’atto di appello ma lungo tutto il corso del giudizio di secondo grado.

 

G) – 2)     Le azioni Possessorie

Premesso che tale aspetto è stato già affrontato in altro scritto a cui si rimanda la lettura[118], è bene, subito precisare che in generale la tutela del possesso è solo provvisoria se in seguito prevalgono le ragioni del proprietario in un successivo giudizio petitorio.

Le due azioni devono essere proposte entro l’anno dall’avvenuto spossessamento o dalla turbativa.

Questo termine è di decadenza con natura sostanziale, quindi non soggetto alla sospensione feriale dei termini processuali.

Inoltre la proposizione dell’azione al di fuori del termine prescrizionale può essere eccepita solo ad istanza di parte, in quanto, vertendo il termine suddetto su diritti disponibili, rimane escluso il potere officioso del giudice di rilevare l’inosservanza. Per il computo del termine si dovrà fare riferimento al primo atto effettivamente lesivo, quando i successivi siano posti in essere con le stesse modalità, altrimenti se i successivi episodi lesivi integrassero una lesione autonoma, diversa, a partire da questa dovrebbe cominciare a decorrere il termine

Orbene l’apertura di luci – eseguita e mantenuta jure proprietatis – costituisca estrinsecazione di una facoltà rientrante nel contenuto del diritto di proprietà fondiaria e del relativo possesso sull’immobile, consentita quale che sia la distanza dall’altrui fondo (art.903 c.c.) – quindi anche con aperture nel muro posto al confine con fondo alieno – e meritevole di tutela petitoria e possessoria[119].

In tema di possesso di servitù di veduta, agli effetti della tutela restitutoria di cui all’art.1168 c.c., non è necessario accertare che la veduta sia esercitata in forza di un regolare titolo di acquisto[120], essendo sufficiente, invece, la corrispondenza tra l’esercizio di fatto delle facoltà della parte istante ed il contenuto della servitù prediale, in forza di un accertamento, demandato al giudice di merito, incentrato sull’esistenza di opere che consentono il possesso delle predette facoltà e del pregiudizio che ad esse deriverebbero dalla costruzione della controparte.

Tuttavia [121], non basta l’elemento obiettivo di una qualsiasi modificazione dello stato di fatto a concretare lo spoglio e la turbativa in senso tecnico, ma occorre che lo stato di fatto integri gli estremi di un possesso o di una detenzione tutelabile con l’azione di spoglio o di manutenzione, costituendo ciò il presupposto dell’azione medesima.

Pertanto, poichè l’accertamento dell’esistenza di un possesso o di una detenzione tutelabile rappresenta un prius rispetto all’accertamento sulla pretesa immutazione dello stato di fatto,qualora si invochi la tutela possessoria in ordine ad una veduta il cui esercizio si assuma turbato dalla violazione da parte del vicino delle distanze legali prescritte per le costruzioni antistanti le vedute, non sconfina dai limiti del giudizio possessorio ma anzi procede ad un esame preliminarmente necessario il giudice che,innanzitutto, accerti se la finestra abbia i caratteri di una vera e propria veduta ovvero di una semplice luce.

Inoltre, sempre secondo la S.C.[122], per la configurabilità del possesso di servitù di veduta, tutelabile con l’azione di spoglio, non è necessario che l’opera da cui questa è esercitata sia destinata esclusivamente all’affaccio sul fondo del vicino se, per ubicazione, consistenza e caratteristiche, il giudice del merito ne accerti l’oggettiva idoneità all’inspicere ed al prospicere in alienum, come nel caso di vedute da terrazze, lastrici solari, ballatoi, pianerottoli, porte di accesso, scale, così da determinare il permanente assoggettamento al peso della veduta, non occorrendo che tali opere siano sorte per l’esclusivo scopo dell’esercizio della veduta, essendo sufficiente che esse, per l’ubicazione, la consistenza e la struttura, abbiano oggettivamente la detta idoneità.

In merito all’azione di manutenzione, secondo la Cassazione[123], la stessa non richiede che l’opera dalla quale nasce la turbativa del possesso sia completata, essendo al riguardo sufficiente l’obiettiva percezione della lesione del possesso da essa determinata.

Nel caso di specie, come già è stato analizzato in precedenza[124] i Giudici hanno addirittura accertato che le aperture – costituenti veduta – erano praticate, rifinite, essendo dotate di soglie sporgenti, sia pure di poco, dal filo del muro, così implicitamente ritenendo che per loro collocazione consentivano l’inspectio e la prospectio sul fondo del vicino: la mancanza dei serramenti era circostanza del tutto irrilevante. Ed invero, la sentenza impugnata ha ancora accertato che soltanto in sede esecutiva, evidentemente a seguito del provvedimento interdittale, furono apposte le chiusure in vetrocemento, non essendo a tal fine idonee quelle che aveva installato la resistente.

Nell’azione di manutenzione, l’elemento psicologico della molestia possessoria consiste nella volontarietà del fatto, tale da comportare una diminuzione del godimento del bene da parte del possessore e nella consapevolezza della sua idoneità a determinare una modificazione o limitazione dell’esercizio di tale possesso, senza che sia, per converso, richiesta una specifica finalità di molestare il soggetto passivo, essendo sufficiente la coscienza e volontarietà del fatto compiuto a detrimento dell’altrui possesso, che pertanto si presume ove la turbativa sia oggettivamente dimostrata: nella specie, come e visto, e stata accertata l’avvenuta lesione del possesso che ha reso necessario l’intervento del giudice e la sua attuazione in sede esecutiva.

In particolare[125], nel caso di trasformazione del tetto in terrazzo, munito di riparo o ringhiera, che venga a trovarsi a distanza inferiore a quella legale rispetto all’altrui fondo, il comodo affaccio esercitabile su di questo costituisce turbativa del possesso del vicino. Tale possesso è reclamabile con l’azione di manutenzione ed alla predetta turbativa è possibile porre rimedio con l’esecuzione di opere idonee, secondo l’insindacabile apprezzamento del giudice di merito in quanto sorretto da coerente motivazione, ad evitare l’affaccio a distanza inferiore a quella legale.

In conclusione, qualora sia invocata la tutela possessoria delle distanze legali, ha natura petitoria[126]–  e, come tale, non può trovare ingresso nel relativo giudizio, ai sensi dell’art. 705 c.p.c. –  l’eccezione sollevata dal convenuto in ordine alla legittimità della costruzione, perché realizzata nel rispetto delle norme urbanistiche vigenti. Al riguardo, infatti, non può invocarsi il principio formulato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 25 del 1992 che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 705, comma primo, c.p.c. (nella parte in cui detta norma subordinava la proposizione del giudizio petitorio alla definizione della controversia possessoria e all’esecuzione della decisione nel caso derivasse o potesse derivare un pregiudizio irreparabile al convenuto), infrange soltanto il divieto, per il convenuto in possessorio, di agire in petitorio “finché il primo giudizio non è finito o la decisione non sia stata eseguita” , senza per contro estendere i suoi effetti nell’ambito del giudizio possessorio, ponendo nel nulla il divieto per il convenuto di sollevare difese di natura petitoria.

 

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NOTE

[1] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 28 settembre 2007, n. 20577. Nella specie, la S.C. ha ritenuto che l’apertura-lucernario con portello apribile verso l’alto, realizzata sul tetto di un immobile a pochi centimetri di distanza dalla terrazza del vicino, fosse qualificabile come luce e non come veduta

[2] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 12 aprile 2006, n. 8572

[3] Per una maggior approfondimento sulla servitù aprire il seguente link

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[4] Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 27 gennaio 2015, n. 362, per la lettura integrale aprire il seguente link Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 27 gennaio 2015, n. 362

[5] Corte Corte di Cassazione, sezione II, sentenza20 ottobre 1997, n. 10250

[6] Per un maggiore approfondimento sull’istituto delle aprire il seguente link

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[7] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 18 aprile 1996, n. 3679

[8] cfr. Corte Corte di Cassazione, sentenza n. 3679

[9] Trib. Benevento, 14 ottobre 2008 e Trib. Desio, 03 gennaio 2006. Nel caso particolare affrontato trattandosi di una saracinesca, l’apertura non può essere considerata veduta né luce irregolare, essendo pacifica la sua funzione, non essendo destinata al prospicere e all’inspicere, né a far passare luce e aria; la saracinesca ha l’unico, scopo, di consentire (o impedire) il passaggio di persone e autovetture. Essa pertanto non risulta compresa tra le ipotesi di cui agli artt. 903 e ss. c.c.

[10] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 13 gennaio 2006, n. 499 e  Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 22 gennaio 2004, n. 1005

[11] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 13 ottobre 2004, n. 20205

[12] Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza 22 settembre 1997, n. 9342

[13] Trib. Bologna, Sez. II, 03 marzo 2008

[14] Non può essere considerata luce una apertura larga 30 cm, situata ad un’altezza di 117 cm dal pavimento del luogo in cui si trova e a 178 cm dal suolo del fondo vicino, ma deve la stessa essere qualificata veduta, avendo le caratteristiche per la inspectio e la prospectio, ossia i requisiti tipici richiesti – appunto – per la veduta.  Trib. Trani, 01 ottobre 2004

[15] Dal codice Napoleonico 1809 (Stamperia Simoniana, Napoli 1809)

Art. 676 “Il proprietario di un muro non comune contiguo al fondo altrui, può formare in questo muro delle luci o finestre con inferriate e invetriate fisse. Queste finestre devono essere munite di cancelli di ferro, le cui maglie avranno un decimetro (circa tre pollici ed otto linee) di apertura al più, ed un telajo ad invetriata fissa”.

Art. 677 “Queste finestre o luci non si possono collocare a minore altezza di 26 decimetri (otto piedi) al di sopra del pavimento o suolo della camera, che si vuole illuminare, se questa è a pian terreno, e di diciannove decimetri sei piedi) al di sopra del pavimento, se questa è  nei piani superiori.”

Art. 678 “Non possono aprirsi vedute dirette o finestre a prospetto, né balconi o altri simili sporti sul fondo chiuso o non chiuso del vicino, se tra il detto fondo ed il muro in cui si formano le dette opere non vi è la distanza di diciannove decimetri (sei piedi.”

Art. 679 “La distanza, di cui si parla nei due precedenti articoli, si computa dalla faccia esteriore del muro in cui si fa l’apertura; e se vi sono balconi o altri simili sporti, dalla linea esteriore sino alla linea di separazione dé due fondi.”

[16] Il vicino ha sempre il diritto di chiedere la regolarizzazione delle luci che non siano conformi alle prescrizioni legislative. Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 09/06/1999, n. 5672

[17] Per un maggior approfondimento sulle azioni possesorie aprire il seguente link http://3.70.129.172/2013/02/18/il-possesso-lusucapione-e-le-azioni-a-tutela-del-possesso/

[18] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 05 luglio 1999, n. 6949

[19] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 21 luglio 2005, n. 15292. Si legge in sentenza che la Corte d’Appello di Napoli, con sentenza 11 aprile 2001, accoglieva in minima parte l’appello principale, riconoscendo il diritto ad attuare mediante l’impiego di vetrocemento la regolarizzazione delle luci imposta dal tribunale, però, bisogna aggiungere, qualora ciò non permetta una possibile veduta nel fondo vicino.

[20] Corte di Cassazione, sezione II, 25 giugno 2001, n. 8675.

[21] Corte di Cassazione, sentenza del 10 gennaio 2013, n. 512, per la lettura integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 10 gennaio 2013, n. 512. Nel caso in esame, si continua a leggere nella sentenza, la Corte napoletana, pur avendo riconosciuto che il muro posto a confine tra le proprietà X e Y costituiva il parapetto del terrazzo della fabbrica D realizzata dalla X , ed essendo sovrastato da una cancellata in ferro alta m. 1,50, realizzava una luce irregolare, e però, nel disporre la regolarizzazione di tale apertura non teneva conto della normativa di cui al n. 2 dell’art. 901 c.c., e cioè ometteva di disporre la sopraelevazione del muro ad un’altezza non inferiore a metri 2,50 da suolo calpestabile del terrazzo della Y considerato che il terrazzo di cui si dice è collocato ad un piano superiore rispetto al piano terreno. Il calcolo aritmetico tra la misura del basso parapetto in muratura e la misura della cancellata che lo sovrastava, prospettato dalla Corte di Appello di Napoli, non è in grado di modificare lo stato di irregolarità della luce di cui si dice perché la cancellata in ferro sovrastante il parapetto alto un metro identifica in tutta la sua grandezza lo spazio dell’apertura che andava regolarizzata. Insomma, lo spazio identificato dalla cancellata esistente andava considerato quale apertura sul fondo del vicino il cui lato inferiore esterno ed interno non doveva essere posto ad una altezza inferiore di m. 2,50 dal suolo di calpestio ovvero dal suolo del terrazzo della X

[22] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 29 agosto 1998, n. 8611

[23] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 08 marzo 2001, n. 3441 e Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 10 settembre 1999, n. 9637

[24] Corte di Cassazione, sentenza n. 59 del 1 7 gennaio 1948

[25] Cfr. par.G) La tutela, da pag, 75

[26] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 25 giugno 2001, n. 8671

[27] Cfr. IL DIVIETO DEGLI ATTI DI EMULAZIONE, per la consultazione aprire il seguente link http://3.70.129.172/2012/11/06/il-divieto-degli-atti-di-emulazione-ex-art-833-c-c/

[28] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 28 novembre 1992, n. 12759

[29] Trib. Bologna, Sez. II, 10/07/2006

[30] Cfr.  LE DISTANZE TRA LE COSTRUZIONI, lettera A) Introduzione e la disciplina generale, per la consultazione aprire il seguente collegamento on-line http://3.70.129.172/2011/03/03/le-distanze-tra-le-costruzioni-ex-artt-873-e-ss-c-c/

[31] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 16 agosto 1993, n. 8744

[32] In tema di distanze tra vedute, l’ultimo comma dell’art. 905 c.c. esclude l’obbligo della distanza prevista per l’apertura di vedute dirette verso il fondo del vicino, quando tra le due proprietà contigue vi sia una pubblica via, e tale prescrizione non presuppone necessariamente che questa separi i fondi medesimi, ma richiede soltanto che essi siano confinanti con la strada pubblica, indipendentemente dalla loro reciproca collocazione (Nella specie, la S.C., alla stregua del principio enunciato, ha ritenuto che i giudici del merito avevano erroneamente ritenuto che il proprietario di un edificio confinante con una strada pubblica e contiguo ad altro fabbricato, posto in linea con il primo, fosse obbligato ad osservare la distanza stabilita per l’apertura delle vedute dirette).

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 14 febbraio 2002, n. 2159

[33] Corte di Cassazione, sentenza Civile, SS.UU., 28 novembre 1996 n. 10615, da ultimo Trib. Roma, Sez. V, 29 aprile 2010

[34] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 11 novembre 1994, n. 9446

[35] Per determinare una veduta, a sensi dell’art. 900 c.c., occorre aver riguardo alla destinazione permanente e normale dell’opera, da ricercarsi non già nelle intenzioni del proprietario, ma nella natura dell’opera oggettivamente considerata, in quanto nel suo uso normale determini il normale e permanente assoggettamento del fondo vicino all’onere della veduta o del prospetto. Trib. Genova, Sez. stralcio, 30 gennaio 2007

[36] Un’apertura munita di inferriata, che consenta di guardare sul fondo sottostante mediante una manovra di per sè eccezionale e poco agevole per una persona di normale conformazione fisica, costituisce una luce e non una veduta, con la conseguenza che, nel caso in cui essa non sia conforme alle prescrizioni indicate nell’art.901 cod. civ., il proprietario del fondo vicino può sempre esigerne la regolarizzazione, non potendo la mera tolleranza della sua difformità dalle prescrizioni di legge, ancorchè protratta nel tempo, far sorgere, per usucapione, un diritto a mantenerla nello stato in cui si trova. Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 19 ottobre 2005, n. 20200

[37] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 04 novembre 2004, n. 21107

[38] Corte di Cassazione, sentenza del 7 aprile 2014, n. 6927, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 7 aprile 2014, n. 6927

[39] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 29 marzo 2005, n. 6576

[40] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 26 gennaio 2005, n. 1556

[41] Corte di Cassazione, sentenza del 5 novembre 2012 n. 18904, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 5 novembre 2012 n. 18904

[42] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 25 ottobre 2006, n. 22844

[43] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del n. 104 del 7 gennaio 2013, per la consultazione del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del n. 104 del 7 gennaio 2013

[44] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 06 settembre 2005, n. 17802 e  Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 13 ottobre 2004, n. 20205

[45] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 17 gennaio 2002, n. 480 e Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 05 gennaio 2000, n. 27

[46] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 05 dicembre 2003, n. 18637 e Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 19 ottobre 2005, n. 20200

[47] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 17 novembre 2003, n. 17343

[48] Corte di Cassazione, sentenza del 5 novembre 2012, n. 18910, per la consultazione del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 5 novembre 2012, n. 18910

[49] Corte di Cassazione, sentenze nn. 76267/93, 3285/87

[50] Corte di Cassazione, sentenza del 30 giugno 2015, n. 13412, per la consultazione del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 30 giugno 2015, n. 13412

[51] Corte di Cassazione, sentenza 5 novembre 2012 n. 18910; Corte di Cassazione, sentenza 17 novembre 2003 n. 17343; Corte di Cassazione, sentenza 23 febbraio 1983 n. 1382

[52] L’ultimo comma dell’art 905 cod. civ., il quale esclude l’obbligo di osservare una distanza minima per l’apertura di vedute dirette verso il fondo del vicino quando tra i due fondi contigui vi sia una via pubblica, non presuppone necessariamente che questa separi i fondi medesimi e che questi si fronteggino, ma richiede soltanto che essi siano confinanti con la strada pubblica, indipendentemente dalla loro reciproca collocazione, sicché i fondi possono anche essere contigui o trovarsi ad angolo retto; ciò in quanto l’esonero dal divieto è giustificato dall’identificazione della strada pubblica come uno spazio dal quale chiunque può spingere liberamente lo sguardo sui fondi adiacenti. Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 20 febbraio 2009, n. 4222

[53] Corte di Cassazione sezione II sentenza del 5 luglio 2012, n. 11302, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione sezione II sentenza del 5 luglio 2012, n. 11302

[54] Corte di Cassazione, sentenza del 17 novembre 2014, n. 24401, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 17 novembre 2014, n. 24401

[55] http://3.70.129.172/2013/02/18/il-possesso-lusucapione-e-le-azioni-a-tutela-del-possesso/

[56] Corte di Cassazione, sentenza n. 5671/77

[57] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 11 febbraio 1997, n. 1261

[58] Corte di Cassazione, sentenza del 17 febbraio 1958, n. 513 e Corte di Cassazione, sentenza del 3 novembre 1956, n. 4109

[59] Corte di Cassazione, sentenza del 10 aprile 1986, n. 2499

[60] Trib. Genova, Sez. III, 19 maggio 2008, Trib. Cassino, 09 ottobre 2007

[61] Cfr.  LE DISTANZE TRA LE COSTRUZIONI, lettera F) Nozione di costruzione, per la consultazione aprire il seguente collegamento on-line http://3.70.129.172/2011/03/03/le-distanze-tra-le-costruzioni-ex-artt-873-e-ss-c-c/

[62] Corte di Cassazione, sezione II, 23 marzo 2004, n. 5764. Nella specie, in cui il giudice del merito aveva ritenuto che il manufatto di cui si doleva l’attore «non ostacola in alcun modo gli esercizi di luce, vedute e prospetti sia diretti che obliqui dell’appartamento sovrastante dell’attore», la Suprema Corte, in applicazione del principio esposto sopra, ha ritenuto carente e insufficiente la motivazione della sentenza gravata perché non spiegava per quali ragioni la tettoia non fosse di ostacolo alla veduta, specie considerato che con il gravame si era sostenuto che la tettoia stessa, realizzata con materiale plastico, compatto, consistente, ancorché di spessore sottilissimo e di colore bianco trasparente, ma destinato per la sua funzione a permanere in loco e a diventare opaco, costituiva un manufatto idoneo a incidere negativamente sull’esercizio della veduta

[63] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 24 giugno 2009, n. 14784

[64] Corte di Cassazione, sentenza del 11 settembre 2013 n. 20848, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 11 settembre 2013 n. 20848

[65] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 03 marzo 2009, n. 5104

[66] Trib. Monza, 19 novembre 2007, Corte di Cassazione, sentenza n.13485/2000; Corte di Cassazione, sentenza n.4895/1989

[67] Cfr.  LE DISTANZE TRA LE COSTRUZIONI, lettera G) Le distanze legali ed il condominio, per la consultazione aprire il seguente collegamento on-line http://3.70.129.172/2011/03/03/le-distanze-tra-le-costruzioni-ex-artt-873-e-ss-c-c/

[68] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 14 aprile 2004, n. 7044 e Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 18 marzo 2010, n. 6546. La sentenza impugnata aveva annullato la delibera condominiale con cui alcuni condomini erano stati autorizzati a trasformare in balcone le finestre dei rispettivi appartamenti senza osservare le distanze legali rispetto ai preesistenti balconi delle proprietà sottostanti. La Corte, nel cassare la decisione di appello, ha ritenuto legittima l’esecuzione delle opere, avvenuta nell’ambito delle facoltà consentite dall’art. 1102 c.c. nell’uso dei beni comuni – la facciata dell’edificio – atteso che la realizzazione del balcone non aveva provocato alcuna diminuzione di aria e di luce alla veduta esercitata dal condomino sottostante

[69] Corte di Cassazione, sentenza del 11 febbraio 2014, n. 3094, per lalettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 11 febbraio 2014, n. 3094

[70] Per una maggior approfondimento sulla comunione aprire il seguente link

http://3.70.129.172/2011/08/23/la-comunione/

[71] Corte di Cassazione, sentenza del   3 marzo 2014, n. 4936, per la lettura del testo iuntegrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del   3 marzo 2014, n. 4936 cfr. Corte di Cassazione, sentenza 14.4.2004, n. 7044; Corte di Cassazione, sentenza 18.3.2010, n. 6546

[72] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 27 gennaio 2016, n. 1549, per la consultazione del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 27 gennaio 2016, n. 1549

[73] Corte di Cassazione, sentenza del n. 13874 del 9 giugno 2010

[74] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 26 febbraio 2007, n. 4386, Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 19 ottobre 2005, n. 20200, Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 27 febbraio 2007, n. 4617 e Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 16 marzo 2006, n. 5848

[75] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 20 giugno 2000, n. 8397

[76] Corte di Cassazione, sentenza del 12 giugno 1981, n. 3819

[77] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 12 febbraio 1998, n. 1498

[78] Corte di Cassazione, sentenza del 11 luglio 2011, n. 15186, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 11 luglio 2011, n. 15186

[79] Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza 27 marzo 2014, n. 7269, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza 27 marzo 2014, n. 7269

[80] Corte di Cassazione, sentenza n. 9562 del 1997; Corte di Cassazione, sentenza n. 17317 del 2007

[81] Corte di Cassazione, sentenza n. 13012/2000

[82] Corte di Cassazione, sentenza 12033/2011; Corte di Cassazione, sentenza 955/2013

[83] cfr, in precedenza, Corte di Cassazione, sentenza n.11199 del 2000; Corte di Cassazione, sentenza n.12299 del 1997

[84] Corte di Cassazione, sentenza n.5764 del 2004; Corte di Cassazione, sentenza n.1598 del 1993

[85] Per una maggior approfondimento sulla servitù aprire il seguente link

http://3.70.129.172/2011/04/22/servitu-prediali/

[86] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 07 luglio 2006, n. 15430

[87] Corte di Cassazione, sentenza del 11 maggio 1983, n. 3258

[88] Cfr. Il Sole 24 Ore – Dossier – Repertorio di Urbanistica ed Edilizia –  Le distanze in edilizia, vedute o prospetti – pag. 38 – SAIE 2008

[89] Per una migliore disamina del diritto di superficie aprire il seguente collegamento on-line http://3.70.129.172/2012/05/29/il-diritto-di-superficie/

[90] Cfr. Il Sole 24 Ore – Dossier – Repertorio di Urbanistica ed Edilizia –  Le distanze in edilizia, vedute o prospetti –  pag. 39 – SAIE 2008

[91] Cfr. Il Sole 24 Ore – Dossier – Repertorio di Urbanistica ed Edilizia –  Le distanze in edilizia, vedute o prospetti – pag. 39 – SAIE 2008

[92] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 9 febbraio 1993, n. 1598

[93] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 04 maggio 2010, n. 10746

[94] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 16 ottobre 2012, n. 17680, per la lettura de testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 16 ottobre 2012, n. 17680

[95] Cfr. Il Sole 24 Ore – Dossier – Repertorio di Urbanistica ed Edilizia –  Le distanze in edilizia, vedute o prospetti – pag. 40 – SAIE 2008

[96] Per un maggior approfondimento sull’usucapione aprire il seguente link http://3.70.129.172/2013/02/18/il-possesso-lusucapione-e-le-azioni-a-tutela-del-possesso/

[97] Corte di Cassazione, sentenza del 9 aprile 1976, n. 1239

[98] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 13 dicembre 1994, n. 10652

[99] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 22 giugno 2006, n. 14442. Nella specie è stata affermata l’esistenza, per effetto del possesso ad usucapionem, della servitù gravante sul terrazzino del sovrastante vano (ubicato nell’edificio condominiale), nel quale si apriva fuoriuscendo con un torrino verticale – una condotta che, partendo da un foro praticato nel solaio del sottostante terraneo, svolgeva la funzione, oltre che di “lucernario”, di “sfiatatoio” a favore di quest’ultimo

[100] Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza 21 novembre 1996, n. 10285, Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 17 giugno 2004, n. 11343 e Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 4 gennaio 2002, n. 71

[101] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 26 marzo 2008, n. 7847. Nella specie è stato negato che, per il solo fatto dell’utilizzo del plurale nelle missive indirizzate al proprietario confinante, nelle quali ci si obbligava ad eliminare affacci e luci abusive, il mittente avesse manifestato anche la volontà della propria consorte di dismettere le predette servitù illegittime in favore dell’immobile di proprietà esclusiva di quella. Cfr Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 29 novembre 2006, n. 25250 e Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 23 giugno 2006, n. 14654

[102] La domanda di eliminazione delle vedute aperte sul muro perimetrale comune deve essere proposta nei soli confronti del proprietario delle vedute stesse e non nei confronti di tutti i condomini del fabbricato sul quale le vedute si aprono. Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 20 luglio 1999, n. 7745

[103] L’azione negatoria è rivolta ad una pronuncia che accerti la libertà dell’immobile posseduto; l’attore in negatoria deve provare la proprietà e non anche la libertà del fondo, gravando sul convenuto l’onere di provare l’esistenza del preteso diritto. Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 28 novembre 1991, n. 12762

[104] Il danno conseguente alla violazione delle norme del codice civile (ed integrative di queste) relative alle distanze da rispettare in caso di costruzione di balconi o terrazze che permettano di affacciarsi sul fondo vicino si identifica nella violazione stessa, costituendo un asservimento “de facto” del fondo predetto, con conseguente obbligo di risarcimento danni senza la necessità di una specifica attività probatoria. Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 24 febbraio 2000, n. 2095

[105] Corte di Cassazione, sentenza del n. 6778 del 4 maggio 2012, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del n. 6778 del 4 maggio 2012

[106] Corte di Cassazione, sentenza del 4 aprile 2000, n. 4087

[107] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 16 gennaio 2007, n. 866

[108] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 03 maggio 1996, n. 4093

[109] App. Ancona, 08 gennaio 2010

[110] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 29 luglio 2004, n. 14368

[111] Corte di Cassazione, sentenza del del 22 febbraio 1994, n. 1693

[112]Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 29 settembre 2009, n. 20871 e Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 13 giugno 1994, n. 5734

[113] Corte di Cassazione, sentenza del 3 luglio 1999, n. 6885

[114] Cfr LE AZIONI A TUTELA DELLA PROPRIETÀ, per la consultazione aprire il seguente collegamento on-line

[115] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 23 ottobre 2009, n. 22553 e Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 27 dicembre 2004, n. 24024

[116] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 02 febbraio 2009, n. 2558

[117] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 21 novembre 2006, n. 24702, Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 02 febbraio 2009, n. 2558, Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 26 novembre 2008, n. 28228, Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 23 novembre 2007, n. 24446, Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 20 novembre 2007, n. 2414, Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 17 luglio 2007, n. 15915 e Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 20 luglio 2005, n. 15248

[118] Cfr. LE AZIONI A TUTELA DEL POSSESSO, per la consultazione aprire il seguente collegamento on-line http://3.70.129.172/2013/02/18/il-possesso-lusucapione-e-le-azioni-a-tutela-del-possesso/

[119] Corte di Cassazione, sentenza del 26 gennaio 2000, n.868, Corte di Cassazione, sentenza del 19 marzo 1996, n. 2293; Corte di Cassazione, sentenza del 4 giugno 1993,  n.62

[120] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 25 luglio 2005, n. 15558 e Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 13 ottobre 2004, n. 20205

[121] Corte di Cassazione, sentenza del 24 maggio 1968, n. 1594

[122] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 13 ottobre 2004, n. 20205, Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 05 maggio 1998, n. 4526 e Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 17 novembre 2003, n. 17341

[123] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del n. 104 del 7 gennaio 2013, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del n. 104 del 7 gennaio 2013

[124] Cfr. par.fo lettera C) Le Vedute, C) – 1) I presupposti pag. 134

[125]Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 07 maggio 2008, n. 11201. Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della corte di merito, che aveva ritenuto sufficiente, per impedire il ravvicinato affaccio sul fondo dell’attore, dal terrazzo ricavato dal convenuto sul tetto del suo edificio eliminando le tegole, un muretto alto 80 cm, spesso 20 cm, ed un cancelletto alto 110 cm, privo di punte di lancia. Cfr Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 25 luglio 2005, n. 15557 e Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 12 maggio 2003, n. 7267

[126] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 20 aprile 2006, n. 9285

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