[….segue pagina antecedente]
Del resto, il principio costituzionale secondo il quale “i magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversita’ di funzioni” (articolo 107 Cost., comma 3) postula una differenziazione che si riconnette ai tre gradi della giurisdizione previsti dall’ordinamento processuale, preordinata ai fini di giustizia ed alla esigenza di esattezza delle decisioni (Corte cost. n. 168 del 1963). In tale ottica, deve ritenersi che “la sussistenza o meno della colpevolezza dell’imputato “al di la’ di ogni ragionevole dubbio” rappresenti la risultante di una valutazione: e la previsione di un secondo grado di giurisdizione di merito trova la sua giustificazione proprio nell’opportunita’ di una verifica piena della correttezza delle valutazioni del giudice di primo grado, che non avrebbe senso dunque presupporre esatte, equivalendo cio’ a negare la ragione stessa dell’istituto dell’appello”; pertanto, il canone “al di la’ di ogni ragionevole dubbio”, rappresentando la risultante di una valutazione, non incide sul giudizio di “certezza” che i diversi gradi di giurisdizione mirano a rafforzare, indipendentemente dai diversi approdi decisori, di colpevolezza o di innocenza, dei distinti giudizi (cosi’ Corte cost. n. 26 del 2007).
Se, dunque, questi sono i principi fondamentali di rilievo costituzionale che caratterizzano il nostro sistema processuale, cioe’ il pubblico ministero quale portatore di una prospettiva di legalita’ (anche in favore dello stesso imputato) e la pluralita’ dei gradi di giurisdizione quale esigenza di giustizia che tende alla “certezza” della decisione in vista del raggiungimento della verita’ processuale e per l’attuazione del principio di legalita’, non si vede perche’ la regola di rinnovazione delle prove dichiarative debba applicarsi nell’ipotesi di ribaltamento in appello della assoluzione in primo grado e non nel caso inverso, visto che le esigenze di “percezione” del giudice di appello dovrebbero valere non a senso unico, ma anche nell’ipotesi in cui non condivida la decisione del giudice di primo grado di avere ritenuto attendibile il teste utilizzato in chiave di accusa; in altre parole, affermare che il giudice di appello, riformando la decisione di primo grado, puo’ assolvere ex actis, ma non puo’ condannare ex actis, significherebbe adottare uno statuto probatorio del tutto privo di base logico – sistematica. Del resto, se si ritiene che il “metodo di assunzione della prova epistemologicamente piu’ affidabile” sia quello dell’oralita’, come afferma la sentenza Patalano, non si vede perche’ questo metodo non debba essere adottato sempre dal giudice dell’impugnazione a fini di giustizia e di certezza della decisione e a presidio delle esigenze di “legalita’” a prescindere dagli esiti decisori. Se, poi, si ritiene, come affermato dalla dottrina che si e’ espressa in senso adesivo alla pronuncia delle Sezioni Unite, che soltanto “il ribaltamento della pronuncia assolutoria operata sulla scorta una identica valutazione cartolare del costrutto probatorio gia’ a disposizione del giudice di prime cure rischia di contenere in se’ un implicito dubbio ragionevole: quello determinato dalla avvenuta adozione di decisioni contrastanti a geometria probatoria invariata”, rimane inspiegato perche’ se il ragionevole dubbio non e’, come non puo’ essere, uno stato psicologico del giudice, ma il risultato di una valutazione (come anche evidenziato dalla Corte costituzionale), che si fonda sul ragionamento critico e non su sensazioni o intuizioni o congetture del giudice e che impone l’adozione del metodo dell’oralita’/immediatezza, tale metodo non debba essere utilizzato in qualsiasi ipotesi di decisioni contrastanti nei due gradi di giudizio; per ritenere diversamente occorrerebbe dimostrare che l’assoluzione in primo grado rappresenti di per se’ una decisione di forza superiore rispetto all’esito opposto e che solo essa, per questo esclusivo motivo, meriti un piu’ affidabile standard probatorio in caso di integrale riforma in appello; ne’ vale a spiegare una diversita’ di metodo in relazione all’esito decisorio del primo giudice la riconduzione del canone del ragionevole dubbio alla presunzione di innocenza, perche’ questa vale “sino alla condanna definitiva”, cioe’ fino a quando non e’ completato il percorso che consente di raggiungere la verita’ processuale e fino a quando il sistema processuale non ha esaurito tutti i sistemi di controllo della legalita’ della decisione.
10. Se si esamina il tema sotto il profilo dei principi desumibili dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo come interpretata dalla giurisprudenza della Corte EDU le conclusioni a cui si giunge non sono diverse.
Prima della pronuncia da parte della Corte costituzionale delle sentenze n. 348 e 349 del 24 ottobre 2007, che hanno riconosciuto alla norme della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, tramite il disposto dell’articolo 117 Cost., comma 1, il valore di “norme interposte” del giudizio di costituzionalita’, nel significato ad esse attribuito della Corte di Strasburgo, per lungo tempo la giurisprudenza sia civile che penale della Corte di cassazione aveva escluso una loro immediata rilevanza nell’ordinamento interno, attribuendo alla giurisprudenza della Corte EDU l’efficacia di un semplice precedente autorevole. Quelle sentenze hanno aperto un varco attraverso il quale, in pochi anni, le norme convenzionali sono penetrate all’interno dell’ordinamento italiano, portate dalla giurisprudenza della Corte EDU, con effetti positivi in termini di accrescimento dei diritti nel processo penale, che si sono prodotti seguendo diversi percorsi: quello di sollecitare gli interventi di un legislatore spesso inerte, quello di imporre l’esecuzione delle sentenze di condanna per violazione delle norme convenzionali mediante adattamento e applicazione analogica delle norme processuali, quello di obbligare la Corte costituzionale a interventi demolitori o ricostruttivi della normativa contrastante con la CEDU, quello di stimolare i giudici ad interpretazioni adeguatrici alla normativa convenzionale.
L’interpretazione adeguatrice e’ stata individuata dalla Corte costituzionale, a cominciare dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007, come passaggio obbligato prima di pervenire a sollevare questione di costituzionalita’, cosi’ da evitare nella misura piu’ ampia possibile una decisione sfavorevole da parte dei giudici di Strasburgo, con le consequenziali ricadute in punto di esecuzione della sentenza Europea e di travolgimento del giudicato. La giurisprudenza della Corte di cassazione fin dalla sentenza Sez. 2, n. 43331 del 18 ottobre 2007, Poltronieri, aveva ritenuto che l’interprete non dovesse isolarsi in un contesto nazionale, ma dovesse cercare una “osmosi” tra le diverse formulazioni della normativa convenzionale e di quella nazionale, ordinaria e costituzionale (indicazione successivamente ripresa da Sez. Un., n. 27918 del 25 novembre 2010, dep. 14 luglio 2011, D.F.) e il risultato di tale osmosi non potra’ essere che quello di una crescita globale, nel senso dell’ampliamento della tutela dei diritti fondamentali, non potendo essere, come ha chiarito la Corte costituzionale (sent. n. 317 del 2009), una causa di diminuzione di tale tutela.
Da cio’ discende anche la necessita’ di riscrivere la funzione della Corte di cassazione in una visione plurisistemica: dal combinato disposto dell’articolo 65 ord. giud., e articolo 111 Cost., comma 7, e articolo 117 Cost., comma 1, deriva alla Cassazione l’obbligo di salvaguardia dell’uniforme e conforme applicazione della legge nazionale e sovranazionale: l’esigenza di uniformita’ si estende, quindi, dal piano nazionale a quello internazionale tanto da imporre all’interprete di piegare, talora, il dato normativo interno verso significati diversi da quelli originariamente prefigurati dal legislatore.
Occorre a questo punto rilevare che le citate sentenze delle Sezioni Unite Dasgupta e Patalano hanno offerto un’interpretazione del nostro sistema processuale, che in dottrina e’ stata definita “di scopo”, esclusivamente finalizzata al convincimento oltre ogni ragionevole dubbio ritenuto “criterio generalissimo” ogniqualvolta “una diversa valutazione della prova dichiarativa conduca ad un risultato peggiorativo nei confronti dell’imputato”; per ammissione esplicita delle stesse Sezioni Unite tale interpretazione discende proprio dal quel criterio generalissimo e “non tanto e non solo dalla necessita’ di un’interpretazione adeguatrice rispetto ai principi della CEDU” (cosi’ la sentenza Patalano). Ebbene, se le Sezioni Unite utilizzando una norma codicistica, quindi di legge ordinaria, quale e’ quella del ragionevole dubbio, sia pure ritenuta riconducibile al principio costituzionale della presunzione di innocenza, sono pervenute ad un risultato interpretativo che ha destrutturato anche il rito abbreviato, e’ necessario approfondire la fonte convenzionale che ha un valore sub-costituzionale ma sovra-legislativo, come ha insegnato la Corte costituzionale, e che quindi e’ l’unica che consente di piegare il dato normativo interno verso significati diversi da quelli originariamente prefigurati dal legislatore nazionale, per verificare se essa imponga una soluzione interpretativa delle norme del nostro codice che tenga conto della necessita’ di tutela della persona offesa.
A tal fine e’ necessario esaminare testualmente il principio che la Corte di Strasburgo ha affermato con una serie di pronunce omogenee sopra richiamate: “Se una Corte d’Appello e’ chiamata esaminare un caso in fatto e in diritto e a compiere una valutazione completa della questione della colpevolezza o dell’innocenza del ricorrente, essa non puo’, per una questione di equo processo, determinare correttamente tali questioni senza una valutazione diretta delle prove….. La Corte ritiene che coloro che hanno la responsabilita’ di decidere la colpevolezza o l’innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni personalmente e valutare la loro attendibilita’. La valutazione dell’attendibilita’ di un testimone e’ un compito complesso che generalmente non puo’ essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate”. Si tratta di un principio che, nella sua semplicita’ e linearita’, si adatta a qualsiasi processo indipendentemente dal suo esito decisorio.
Da subito nella giurisprudenza di legittimita’ era stata individuata una significativa intersezione fra l’obbligo di motivazione rafforzata e quello di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale secondo i canoni dettati dalla Corte EDU. Il principio della motivazione rafforzata deve essere raccordato con quello di immediatezza, che si puo’ anche esprimere, nel rapporto tra giudici dei diversi gradi di giudizio, nel senso che il secondo giudice non puo’ giudicare sulla base di un compendio probatorio non equiparabile a quello del primo giudice. La fonte dell’iniquita’ nel caso dell’overturning deve essere rinvenuto nella inaffidabilita’ delle decisione di riforma che si fondi sull’analisi di un compendio probatorio deprivato rispetto a quello disponibile in primo grado, cioe’ caratterizzato dalla mancata percezione diretta della testimonianza.
Va ricordato, poi, che il diritto “all’assunzione della prova davanti al giudice chiamato a decidere” e’ ritenuto – dalla stessa Corte costituzionale- “uno degli aspetti essenziali del modello processuale accusatorio, espresso dal vigente codice di procedura penale”: “La ratio della rinnovazione della prova dichiarativa – garantita all’imputato dall’articolo 111 Cost., comma 3, – si fonda sull’opportunita’ di mantenere un rapporto diretto tra giudice e prova, non assicurato dalla mera lettura dei verbali: vale a dire la diretta percezione, da parte del giudice deliberante, della prova nel momento della sua formazione, cosi’ da poterne cogliere tutti i connotati espressivi, anche non verbali, prodotti dal metodo dialettico dell’esame e del controesame, che possono rivelarsi utili nel giudizio di attendibilita’ del risultato probatorio” (Corte cost. ord. n. 205 del 2010).
[…segue pagina successiva]
Leave a Reply