Corte di Cassazione, sezione seconda penale, sentenza 12 settembre 2017, n. 41571. L’articolo del codice di rito (603 comma 3), per essere in linea con l’articolo 6 della Cedu sull’equo processo

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Per converso, la totale riforma della sentenza di primo grado impone al giudice di appello di raffrontare il proprio decisum, non solo con le censure dell’appellante, ma anche con il giudizio espresso dal primo giudice, che si compone sia della ricostruzione del fatto che della valutazione complessiva degli elementi probatori, nel loro valore intrinseco e nelle connessioni tra essi esistenti.
In molte pronunce in argomento, e’ ricorrente la locuzione “motivazione rafforzata” per esprimere, con la forza semantica del lemma, il piu’ intenso obbligo di diligenza richiesto al giudice di secondo grado.
Occorre tenere presente che la motivazione rafforzata da parte del giudice di appello e’ richiesta non solo in caso di pronuncia di condanna in seguito ad assoluzione pronunciata dal primo giudice, ma anche nel caso di pronuncia di assoluzione a seguito di precedente sentenza di condanna. Deve, infatti, rilevarsi che la prima compiuta enunciazione del principio della motivazione rafforzata (ma, prima ancora, si veda Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, P.M., p.c., Musumeci ed altri, Rv. 19122901, sempre in fattispecie di assoluzione in secondo grado, che ha censurato la sentenza del giudice di appello che “non ha sostituito una sua analisi, pago della enunciazione del suo dissenso”) e’ contenuta in una pronuncia di annullamento con rinvio di una sentenza di assoluzione del giudice di appello in riforma della condanna pronunciata dal primo giudice (Sez. 1, n. 1381 del 16/12/1994 – dep. 10/02/1995, Felice ed altro, Rv. 20148701: la decisione del giudice di appello, che comporti totale riforma della sentenza di primo grado, impone la dimostrazione dell’incompletezza o della non correttezza ovvero dell’incoerenza delle relative argomentazioni con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da corretta, completa e convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, senza lasciare spazio alcuno, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati. L’alternativita’ della spiegazione di un fatto non attiene al mero possibilismo, come tale esercitazione astratta del ragionamento disancorata dalla realta’ processuale, ma a specifici dati fattuali che rendano verosimile la conclusione di un “iter” logico cui si perviene senza affermazioni apodittiche. Il supporto motivazionale di una decisione giurisdizionale per essere logico deve essere conforme ai canoni che presiedono alle forme corrette del ragionamento in direzione della dimostrazione della verita’); lo stesso principio e’ stato successivamente ripreso e ulteriormente argomentato sempre in un caso di annullamento con rinvio di sentenza di appello di totale riforma in senso assolutorio (Sez. 2, n. 15756 del 12/12/2002 – dep. 03/04/2003, PG in proc. Contrada, Rv. 22556401) e, infine, definitivamente consacrato in una pronuncia delle Sezioni Unite, che quel principio applica in un caso di pronuncia di secondo grado di condanna in riforma di quella di assoluzione del primo giudice, ma senza porre alcuna distinzione con riferimento agli esiti decisori della sentenza del secondo giudice (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005 – dep. 20/09/2005, Mannino, Rv. 23167901: il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i piu’ rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato).
Questa giurisprudenza e’ andata successivamente sviluppandosi alla luce della lettura della innovazione introdotta nel 2006 (L. 20 febbraio 2006, n. 46, articolo 5) con la modifica dell’articolo 533 c.p.p. e l’introduzione del canone dell'”al di la’ di ogni ragionevole dubbio”. E’ affermazione diffusa nella giurisprudenza che esso implichi che, in mancanza di elementi sopravvenuti, la valutazione peggiorativa compiuta nel processo d’appello sullo stesso materiale probatorio acquisito in primo grado, debba essere sorretta da argomenti dirimenti, tali da rendere evidente l’errore della sentenza assolutoria, la quale deve rivelarsi, rispetto a quella d’appello, non piu’ razionalmente sostenibile, per essere stato del tutto fugato ogni ragionevole dubbio sull’affermazione di colpevolezza. Perche’ possa dirsi rispettato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio non e’, dunque, piu’ sufficiente una mera diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilita’ rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo invece una forza persuasiva superiore, tale da far cadere “ogni ragionevole dubbio”, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto.
In verita’, se puo’ accettarsi il principio secondo cui la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza, ma la mera non certezza della colpevolezza (Sez. 6, n. 40159 del 03/11/2011), deve essere evidenziato che il “dubbio” posto a fondamento di una sentenza di assoluzione non e’ una situazione psicologica del giudice, ma l’esito di un percorso argomentativo che rispetti rigorosamente le regole della logica e si basi su elementi processualmente emersi e correttamente valutati singolarmente e nella loro connessione. Non potrebbe, percio’, accettarsi che una sentenza di’ appello di riforma in senso assolutorio sfugga ai rigori della motivazione rafforzata, alla quale rimarrebbe soggetta solo la sentenza di condanna.
E’ evidente, in altri termini, che il ragionevole dubbio non assorbe il principio della motivazione rafforzata, ma di esso entra a far parte, costituendo specificazione del gia’ consolidato principio che la sentenza di secondo grado di totale riforma di quella del primo giudice deve caratterizzarsi per una nuova e compiuta struttura motivazionale, che, non solo sia autosufficiente, ma contenga anche la specifica confutazione degli argomenti posti dal primo giudice a fondamento della diversa decisione. E’ stato, percio’, condivisibilmente affermato che il principio della motivazione rafforzata “ha carattere generale e, mutatis mutandis, non puo’ non trovare applicazione anche nella ipotesi in cui, in secondo grado, intervenga assoluzione, in radicale riforma della sentenza di condanna pronunziata dal primo giudice. Invero, non e’ certo l’epilogo decisorio in malam partem cio’ che obbliga il secondo giudicante a una motivazione “rafforzata”, ma il fatto che appare necessario scardinare l’impianto argomentativo-dimostrativo di una decisione assunta da chi ha avuto contatto diretto con le fonti di prova” (Sez. 5, n. 21008 del 06/05/2014, P.G. e P.C. in proc. Barzaghi e altri, Rv. 26058201. Per le molteplici applicazioni del principio in caso di integrale riforma in senso assolutorio della sentenza di primo grado v. Sez. 6, n. 46742 del 08/10/2013 – dep. 22/11/2013, P.G. in proc. Hamdi Ridha, Rv. 25733201; Sez. 6, n. 1253 del 28/11/2013 – dep. 14/01/2014, Pg in proc. Ricotta, Rv. 25800501; Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014 – dep. 03/12/2014, P.C. in proc. Fu e altri, Rv. 26132701; Sez. 3, n. 6880 del 26/10/2016 – dep. 14/02/2017, P.G. in proc. D L, Rv. 26952301; Sez. 4, n. 4222 del 20/12/2016 -dep. 30/01/2017, P.C. in proc. Mangano e altro, Rv. 26894801).
3. Alla luce dei suddetti principi deve rilevarsi, in generale, che la sentenza impugnata formula una ipotesi alternativa a quella accusatoria, affermando che il fatto che la frequentazione, tra una parte della famiglia (OMISSIS) e il pastore sia continuata negli anni seguenti la pretesa vicenda estorsiva “fa ritenere che la condotta tenuta dal (OMISSIS) in occasione della vicenda della donazione sia stata letta dagli (OMISSIS) in quegli anni (fino alle rivelazioni di (OMISSIS)) in modo diverso da come poi dichiarato da loro nel 2008, altrimenti non si spiegherebbe come possano aver tollerato la sua presenza accanto a loro nella chiesa da loro frequentata”, con la conseguenza di ritenere “possibile” che gli (OMISSIS) “si siano persuasi a risolvere la donazione perche’ si sentivano additati come approfittatori della comunita’ religiosa cui appartenevano” e che “nulla esclude” che il (OMISSIS) si fosse convinto che gli (OMISSIS) stessero veramente approfittandosi dell’anziana signora.
La corte territoriale aggiunge, poi, che le “ricostruzioni alternative possibili” contenute nella sentenza del primo giudice non consentono di giungere ad una sentenza di condanna, poiche’ le dichiarazioni delle costituite parti civili “non hanno trovato specifici riscontri, almeno con riferimento al dolo richiesto per il reato contestato”.
Tale sviluppo motivazionale incorre proprio in quei molteplici vizi che la giurisprudenza in tema di motivazione rafforzata ha piu’ volte denunciato.

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