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7. In tal modo riassunti gli orientamenti della piu’ recente giurisprudenza sul contenuto e sui limiti della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in caso di overturning in appello, deve rilevarsi che la soluzione in merito alla fondatezza o meno del motivo di ricorso di cui al punto 5 deve affrontare il peso della affermazione contenuta nella sentenza Dasgupta secondo cui “e’ il caso di notare che, proprio in quanto non viene in questione il principio del ragionevole dubbio, non puo’ condividersi l’orientamento secondo cui anche in caso di riforma della sentenza di condanna in senso assolutorio il giudice di appello, al di la’ di un dovere di motivazione rafforzata, deve previamente procedere a una rinnovazione della prova dichiarativa (in questo senso, ma isolatamente, Sez. 2, n. 32619 del 24/04/2014, Pipino, Rv. 260071)”.
Sebbene tale affermazione assuma il carattere della enunciazione e non si sia tradotta in un principio di diritto oggetto di massimazione ufficiale, di essa deve tenersi conto in ragione proporzionata al prestigio della Corte che la esprime. La successiva giurisprudenza, infatti, senza specifiche motivazioni, ha ritenuto di conformarsi alla suddetta enunciazione, evidentemente ritenendo che fosse conseguenza logico – sistematica della ratio decidendi della pronuncia delle Sezioni Unite affermare che l’obbligo di rinnovare l’istruzione e di escutere nuovamente i dichiaranti, gravante sul giudice di appello qualora apprezzi diversamente la loro attendibilita’ rispetto a quanto ritenuto in primo grado (obbligo sancito dall’articolo 6 CEDU, come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo), non trovi applicazione nell’ipotesi di riforma, in senso assolutorio, di sentenza di condanna, non venendo in rilievo – in tal caso – il principio del superamento del “ragionevole dubbio”, pur essendo il giudice di appello tenuto a strutturare la motivazione della propria decisione in maniera rafforzata, dando puntuale ragione delle difformi conclusioni assunte (Sez. 4, n. 4222 del 20/12/2016 – dep. 30/01/2017, P.C. in proc. Mangano e altro, Rv. 26894801; Sez. 3, n. 42443 del 07/06/2016, P.G. e altri in proc. G, Rv. 26793101).
Si tratta, peraltro, di affermazioni che non tengono conto, in primo luogo, del nostro complessivo sistema ordinamentale, e, in secondo luogo, dell’effettivo contenuto della giurisprudenza della CEDU, anche alla luce dei piu’ recenti interventi legislativi in materia di vittime del reato.
8. Deve preliminarmente osservarsi che la sentenza Sez. 2, n. 32619 del 24/04/2014, Pipino, Rv. 260071, citata dalle Sezioni Unite Dasgupta come “isolata”, non puo’ dirsi tale, in quanto essa risulta richiamata e ulteriormente argomentata, da molteplici sentenze non massimate, tra le quali: Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, P.C. in proc. Fu e altri, Sez. 3, n. 42982 del 26/10/2015, Sez. 2, n. 36434 del 21/07/2015, Sez. 5, n. 36208 del 13/02/2015, Sez. 5, n. 42389 dell’11/05/2015. La tesi di fondo di tale orientamento giurisprudenziale e’ stata cosi’ espressa: “Se e’ vero che il principio tratto dalla richiamata sentenza Cedu e’ quello che laddove la prova essenziale consista in una o piu’ prove orali che il primo giudice abbia ritenuto, dopo averle personalmente raccolte, non attendibili, il giudice di appello per disporre condanna non puo’ procedere ad un diverso apprezzamento della medesima prova sulla sola base della lettura dei verbali ma e’ tenuto, salvo possibili casi particolari, a raccogliere nuovamente la prova innanzi a se’ per poter operare una adeguata valutazione di attendibilita’, e’ pur vero che tale principio, espressione dell’immediatezza del processo, deve trovare applicazione anche in casi in cui il diverso giudizio di attendibilita’ ha portato ad un giudizio di assoluzione in secondo grado, a maggior ragione a fronte della presenza di una parte privata, costituita parte civile, rispetto alla quale si assiste ad una sempre maggior tutela nell’ambito delle decisioni della Corte Europea”.
9. Se si esamina il nostro complessivo sistema ordinamentale, vengono in rilievo alcuni fondamentali principi.
In primo luogo deve osservarsi che mentre la Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo all’articolo 6, con riferimento all'”equo processo” afferma un “diritto” che ogni persona ha “a che la sua causa sia esaminata, equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale” (§ 1) in particolare specificando questo diritto in quello di “esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico” (§ 3 lettera d) e fissando, altresi’, il canone della presunzione di innocenza fino a quando la colpevolezza non sia stata legalmente accertata (§ 2), la nostra Costituzione, a seguito delle modifiche apportate dalla L. Cost. 23 novembre 1999, n. 2, all’articolo 111 Cost. stabilisce che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge” (comma 1) e che “il processo penale e’ regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova” (comma 4).
Gia’ la Corte costituzionale aveva osservato che il “giusto processo” e’ una “formula in cui si compendiano i principi che la Costituzione detta in ordine tanto ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, quanto ai diritti di azione e difesa in giudizio” (Corte cost. n. 131 del 1996). Ebbene, l’intervento legislativo di modifica costituzionale ha certamente privilegiato l’aspetto oggettivo del giusto processo, poiche’ la collocazione nella Sezione 2 relativa alle “Norme sulla giurisdizione” del Titolo 4 della Parte 2 “Ordinamento della Repubblica” e non nella Parte 1 “Diritti e doveri dei cittadini” individua il principio stesso, prima ancora che come una pretesa di parte, come un’esigenza obiettiva ed irrinunciabile dell’ordinamento costituzionale.
Al fine di ricostruire il nostro sistema costituzionale in materia di giurisdizione e’ poi importante ricordare quanto detto dalla Corte costituzionale successivamente all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale: “il principio di legalita’ (articolo 25, comma 2), che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalita’ nel procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non puo’ essere salvaguardata che attraverso l’obbligatorieta’ dell’azione penale. Realizzare la legalita’ nell’eguaglianza non e’, pero’, concretamente possibile se l’organo cui l’azione e’ demandata dipende da altri poteri: sicche’ di tali principi e’ imprescindibile requisito l’indipendenza del pubblico ministero. Questi e’ infatti, al pari del giudice, soggetto soltanto alla legge (articolo 101 Cost., comma 2) e si qualifica come un magistrato appartenente all’ordine giudiziario collocato come tale in posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere, che non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale all’osservanza della legge (sentenze nn. 190 del 1970 e 96 del 1975). Il principio di obbligatorieta’ e’, dunque, punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale, talche’ il suo venir meno ne altererebbe l’assetto complessivo. Di conseguenza, l’introduzione del nuovo modello processuale non lo ha scalfito, ne’ avrebbe potuto scalfirlo. Qui, anzi, l’esigenza di garantire l’indipendenza del P.M. e’ accentuata dalla concentrazione in capo a lui della potesta’ investigativa, radicalmente sottratta al giudice.
Per altro verso, l’eliminazione di ogni contaminazione funzionale tra giudice e organo dell’accusa – specie in tema di formazione della prova e di liberta personale – non comporta che, sul piano strutturale ed organico, il P.M. sia separato dalla Magistratura costituita in ordine autonomo ed indipendente. Nell’architettura della delega, infatti, il ruolo del P.M. non e’ quello di mero accusatore, ma pur sempre di organo di giustizia obbligato a ricercare tutti gli elementi di prova rilevanti per una giusta decisione, ivi compresi gli elementi favorevoli all’imputato” (Corte cost. n. 88 del 1991). In un ordinamento basato sul principio di legalita’ e su quello dell’obbligatorieta’ dell’azione penale “il fine primario e ineludibile del processo penale rimane la ricerca della verita’” (Corte cost. n. 111 del 1993).
Il potere di impugnazione del pubblico ministero, anche se non puo’ essere configurato come proiezione necessaria del principio di obbligatorieta’ dell’azione penale (Corte cost. sent. n. 280 del 1995 e ord. n. 165 del 2003), ha “come scopo istituzionale quello di assicurare la corretta applicazione della legge penale nel caso concreto e – tramite quest’ultima – l’effettiva attuazione dei principi di legalita’ e di eguaglianza, nella prospettiva della tutela dei molteplici interessi, connessi anche a diritti fondamentali, a cui presidio sono poste le norme incriminatrici” (Corte cost. n. 26 del 2007).
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