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3.1. Con il primo motivo, il ricorrente eccepisce il vizio di motivazione e l’erronea e/o falsa applicazione della legge penale, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e), quanto al mancato riconoscimento della continuazione tra i fatti per cui e’ processo ed altri oggetto di ulteriore e precedente pronuncia di condanna, emessa ai sensi dell’articolo 444 c.p.p.. In particolare, il ricorrente, enucleati i contorni dell’istituto e richiamati i principi elaborati sul punto da questa Corte, lamenta come i giudici di appello abbiano acriticamente ed illogicamente confermato la decisione assunta nella sentenza di prime cure e le argomentazioni ivi sviluppate sul punto. Nello specifico, sarebbe stata esclusa, in maniera incongrua, contraddittoria ed illegittima, la sussistenza degli elementi atti a configurare l’unitarieta’ del disegno criminoso, a fronte del significativo iato temporale tra i fatti per cui e’ processo e quelli oggetto della precedente sentenza citata, dell’eterogenea natura dei beni ricettati e, infine, per avere il ricorrente agito, nei fatti di cui ai due distinti procedimenti, in concorso con persone differenti. La motivazione resa sul punto sarebbe non soltanto “monca”, incongrua ed illogica, ma altresi’ in contrasto con l’elaborazione esegetica in punto di indici rivelatori dell’unitarieta’ ideativa e cognitiva di cui all’articolo 81 c.p., comma 2, facendosi riferimento ad elementi ultronei ed arbitrari. Invero, avrebbe dovuto attribuirsi rilievo la riconducibilita’ di entrambi i reati oggetto delle condanne (furto e ricettazione) alla categoria di delitti offensivi dell’integrita’ patrimoniale, essendo la natura del bene giuridico protetto a rivelare una previa ideazione cognitiva e deliberativa rilevante ai fini del programma criminoso di cui all’articolo 81 c.p., comma 2, e non, invece, la tipologia dei beni oggetto di reato, irrilevante a tal fine. Sicche’, stante l’omogeneita’ del tipo di violazioni perpetrate dall’imputato, l’unitarieta’ del bene giuridico leso, nonche’ le specifiche ed uniformi modalita’ della condotta, avrebbero dovuto indurre a ritenere sussistente il vincolo della continuazione, trattandosi di singole violazioni di legge ascrivibili ad un comune e previo piano ideativo e deliberativo di cui costituiscono attuazione, sebbene diluita e frazionata nel tempo. Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte territoriale, non ricorrerebbe nella specie una significativa distanza temporale tra la data di commissione dei reati, risalendo, quelli di cui alla condanna emessa ai sensi dell’articolo 444 c.p.p., al 2008 e quelli ad oggetto del presente procedimento al 2010, ne’ sarebbero state indicate le ragioni per cui tale lasso di tempo sia stato considerato ostativo all’applicazione dell’istituto in parola, essendo stata tale conclusione assunta in modo acritico ed incongrup. Di contro, proprio la prossimita’ temporale delle condotte criminose relative ai due procedimenti penali avrebbe dovuto indurre a ritenere sussistenti gli estremi per il riconoscimento del vincolo della continuazione, con conseguente rideterminazione del trattamento sanzionatorio ai sensi dell’articolo 81 c.p., comma 1. Ne’ avrebbe potuto attribuirsi rilievo, per disconoscere l’applicazione dell’istituto de quo, al fatto che, nella perpetrazione dei reati, abbiano concorso persone differenti, trattandosi di assunto distorsivo, fuorviante e contrario ai canoni logico-giuridici: sebbene le modalita’ della condotta assumano rilievo ai fini dell’individuazione della unicita’ del disegno criminoso, il riconoscimento della continuazione non comporterebbe infatti alcuna considerazione “collaterale” quanto all’esistenza di un vincolo associativo che accomuni i singoli concorrenti, giacche’ il disegno criminoso attiene ad un dato inerente alla psiche dell’agente, il quale si configura genericamente una serie di condotte delittuose da porre in essere, deliberandone, altrettanto genericamente, l’esecuzione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
5. Il ricorso proposto dagli imputati (OMISSIS) e (OMISSIS) e’ inammissibile.
5.1. In particolare, il primo motivo di ricorso e’ inammissibile. La Corte territoriale ha anzitutto puntualmente esplicitato di non ritenere accoglibili le doglianze difensive formulate circa la concorrente responsabilita’ dei ricorrenti, mosse in punto di mancata attribuzione di credibilita’, da parte dei giudici di prime cure, alla memoria prodotta dalla difesa dell’imputato (OMISSIS) all’udienza del 2/4/2013, nella parte in cui questi, assumendosi la responsabilita’ dell’acquisto di bancali di bevande da alcuni zingari, sosteneva che il fratello e la madre fossero all’oscuro del fatto, nonche’ in ordine alla paventata mancanza di prove di alcuna partecipazione attiva al fatto da parte dei due imputati. I giudici di appello hanno, infatti, evidentemente ritenuto superabili le censure mosse dagli appellanti, osservando come i ricorrenti, cogestori dell’area di servizio dove i beni venivano conservati, abbiano fornito un contributo causale alla ricezione dei beni, consentendone il ricovero nell’area di comune proprieta’. E’ inoltre evidenziato come la natura e il volume dei beni, la sproporzione di essi con le dimensioni della rivendita, l’assenza di documentazione di consegna e di fatturazione fossero indici fattuali e logici evidenti della provenienza delittuosa dei beni. I giudici di seconde cure hanno poi osservato come il fine di profitto fosse rinvenibile nell’intento di rivendere “in nero” i beni stessi, lucrando il margine di guadagno rispetto al prezzo di acquisto. Ne deriva che, da tali elementi, debitamente indicati in sentenza, i giudici di appello hanno ritenuto sussistente non soltanto, dal punto di vista oggettivo, una condotta partecipativa penalmente rilevante posta in essere dai ricorrenti, ma altresi’ l’elemento soggettivo del reato, costituito dalla consapevolezza, in capo agli stessi, della provenienza illecita dei beni, nonche’ il perseguimento del fine richiesto dalla norma incriminatrice, trattandosi, ai sensi dell’articolo 648 c.p., di reato a dolo specifico. In chiusura ai rilievi sopra esposti, peraltro, i giudici di appello hanno osservato come ne’ la (OMISSIS) (rimasta contumace), ne’ (OMISSIS), nel suo esame dibattimentale, abbiano fornito plausibili spiegazioni alternative dello scopo dell’illecita codetenzione, nonche’ di come essi non potessero non essere consapevoli della presenza in loco delle partite di merce di provenienza delittuosa, atteso che tutti e tre i membri della famiglia (la (OMISSIS) e’ madre di (OMISSIS) e (OMISSIS)) gestivano insieme l’area di servizio e abitavano a pochissima distanza dalla stessa. Stante quanto sopra, la Corte territoriale risulta aver correttamente sviluppato il proprio percorso argomentativo posto a fondamento della conferma della condanna nei confronti degli imputati, ponendo correttamente in luce i plurimi elementi atti a dimostrare la ricorrenza, nella specie, degli estremi materiali e psicologici del delitto contestato in capo ai ricorrenti e che hanno logicamente consentito, quindi, di superare i rilievi sollevati, anche in ordine alla mancata credibilita’ delle dichiarazioni autoaccusatorie del coimputato (OMISSIS). Essa risulta essersi inoltre adeguata al costante orientamento della giurisprudenza di legittimita’ secondo il quale, ai fini della configurabilita’ della consapevolezza della provenienza illecita del bene ricevuto nel delitto di ricettazione, non e’ indispensabile che essa si estenda alla precisa e completa conoscenza delle circostanze di tempo, di modo e di luogo del reato presupposto, potendo anche essere desunta da prove indirette, allorche’ siano tali da generare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale, e secondo la comune esperienza, la certezza della provenienza illecita di quanto ricevuto (Sez. 1, n. 29486 del 26/6/2013, Rv. 256108). Del resto questa Corte ha piu’ volte affermato:
– che la conoscenza della provenienza delittuosa della cosa puo’ desumersi da qualsiasi elemento, anche indiretto, e quindi anche dal comportamento dell’imputato che dimostri la consapevolezza della provenienza illecita della cosa ricettata, ovvero dalla mancata – o non attendibile – indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale e’ sicuramente rivelatrice della volonta’ di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede (Sez. 2, sent. n. 25756 del 11/6/2008, Rv. 241458; Sez. 2, sent. n. 29198 del 25/5/2010, Rv. 248265);
– che l’elemento psicologico della ricettazione puo’ essere integrato anche dal dolo eventuale, che e’ configurabile in presenza della rappresentazione da parte dell’agente della concreta possibilita’ della provenienza della cosa da delitto e della relativa accettazione del rischio, non potendosi desumere da semplici motivi di sospetto, ne’ potendo consistere in un mero sospetto che consentirebbe la qualificazione del fatto come incauto acquisto (Sez. Un., sent. n. 12433 del 26/11/2009, Nocera, Rv. 246324; Sez. 1, sent. n. 27548 del 17/6/2010, Rv. 247718).
Alla luce delle argomentazioni sviluppate, si e’ in presenza di un percorso motivazionale giuridicamente corretto e logicamente coerente, come tale non sindacabile in questa sede, mentre, al contrario, le critiche dei ricorrenti finiscono per sollecitare una diversa valutazione della vicenda fattuale, attivita’ preclusa nel giudizio di legittimita’, e sono, in quanto tali, inammissibili (sul punto, fra le molte, Sez. Un., sent. n. 12 del 31/5/2000, Jakani, Rv. 216260; Sez. 6, n. 9923 del 5/12/2011 – ud. 14/03/2012 -, Rv. 252349).
Quanto, poi, alla censura con la quale i ricorrenti si dolgono che la Corte territoriale non avrebbe esaminato in sentenza le doglianze proposte con i motivi di appello, si osserva come, secondo i principi sovente affermati da questa Corte, nella motivazione della sentenza il giudice di appello non e’ tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012, Rv. 254107).
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