Suprema Corte di Cassazione
sezioni unite
sentenza 15 giugno 2015, n. 12310
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f.
Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente Sezione
Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione
Dott. BERNABAI Renato – Consigliere
Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere
Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere
Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere
Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 9026/2008 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), per delega in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), per delega in calce al controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 400/2007 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 19/03/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/01/2015 dal Consigliere Dott. CAMILLA DI IASI;
uditi gli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS);
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del primo motivo del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
(OMISSIS) e (OMISSIS) convennero in giudizio (OMISSIS) dinanzi all’allora pretore di (OMISSIS) e, premesso di avere stipulato con quest’ultimo un contratto avente ad oggetto la cessione di un appezzamento di terreno (che doveva essere frazionato dalla particella n. 556 del foglio 89 della partita 5776 del C.T. del Comune di (OMISSIS)) senza che il (OMISSIS), successivamente al frazionamento, si fosse presentato – malgrado la ricezione di apposita diffida – davanti al notaio all’uopo indicato per la stipula del contratto definitivo di compravendita, chiesero che fosse pronunciata sentenza producente, ai sensi dell’articolo 2932 e.e, l’effetto del trasferimento della proprieta’ fondiaria in questione, con riserva, come concordato, di una servitu’ in favore del medesimo (OMISSIS).
Costituitosi il convenuto, all’udienza di prima comparizione fu accordato termine ai sensi dell’articolo 183 c.p.c., comma 5 (nel testo applicabile ratione temporis) e nella successiva memoria gli attori modificarono l’originaria domanda chiedendo la pronuncia di sentenza dichiarativa dell’avvenuto trasferimento del terreno, sul rilievo che doveva ritenersi definitivo il contratto in base al quale era stata inizialmente richiesta sentenza costitutiva ai sensi dell’articolo 2932 c.c..
Per quanto in questa sede rileva, il Tribunale di Forli’ accolse la domanda siccome riformulata e la Corte d’appello di Bologna, investita dell’impugnazione proposta dal (OMISSIS), confermo’ la sentenza di primo grado.
In particolare, i giudici d’appello hanno ritenuto che la domanda di pronuncia dichiarativa dell’avvenuto trasferimento della proprieta’ di un immobile, avanzata dopo la richiesta – con l’atto di citazione- di sentenza costitutiva ai sensi dell’articolo 2932 c.c., basata sul medesimo contratto diversamente qualificato, costituisse, siccome semplice specificazione della pretesa originaria, mera emendatio libelli in quanto il thema decidendum era rimasto comunque circoscritto all’accertamento dell’esistenza di uno strumento giuridico idoneo al trasferimento della proprieta’, con sostanziale identita’ del bene effettivamente richiesto e della causa petendi, costituita dal contratto del quale era stata prospettata, rispetto alla domanda originaria, soltanto una diversa qualificazione giuridica.
Nella suddetta decisione inoltre, confermandosi l’interpretazione della convenzione conclusa tra le parti come contratto (definitivo) di compravendita, si e’ evidenziata la mancata contestazione dei criteri ermeneutici – fondati “sul tenore letterale della scrittura e sulla circostanza inerente alla immissione degli acquirenti nel possesso del bene” – adottati dai primi giudici e la non rilevanza, in contrario, della previsione del frazionamento da redigersi ad opera di un geometra, dovendo l’identificazione del bene alienato ritenersi, sulla base delle indicazioni contenute nella suddetta convenzione e nelle relative allegazioni, completa e certa, mentre la prevista redazione del successivo frazionamento rispondeva esclusivamente ad esigenze di natura catastale.
Avverso questa sentenza (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi, al quale gli intimati (OMISSIS) e (OMISSIS) hanno resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’articolo 378 c.p.c..
RITENUTO IN DIRITTO
1. Col primo dei tre motivi di ricorso, deducendo violazione e falsa applicazione dell’articolo 102 c.p.c., articolo 112 c.p.c., articolo 163 c.p.c., nn. 3 e 4, nonche’ articoli 2932 e 1350 c.c., in riferimento all’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5, (OMISSIS) si duole del fatto che i giudici d’appello abbiano ritenuto ammissibile la domanda di pronuncia dichiarativa dell’avvenuto trasferimento della proprieta’ del terreno in questione proposta nella memoria autorizzata ai sensi dell’articolo 183 c.p.c., benche’ essa fosse da ritenersi diversa rispetto alla domanda di pronuncia costitutiva ai sensi dell’articolo 2932 c.c., proposta nell’atto di citazione con riguardo al medesimo immobile, e chiede pertanto a questo giudice di dire: se sia ammissibile la proposizione, nella memoria di cui all’articolo 183 c.p.c., comma 5, di domanda diretta ad ottenere l’accertamento del trasferimento della proprieta’ di un immobile dopo che era stata proposta con l’atto di citazione domanda diretta ad ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre relativamente al medesimo immobile; se le due domande siano diverse per petitum e causa petendi; se il passaggio dall’una all’altra delle domande costituisca emendatio libelli ovvero mutatio libelli.
Il collegio della seconda sezione civile di questa Corte, dinanzi al quale la causa e’ stata chiamata, considerato che il sopra esposto motivo richiede la soluzione di una questione di diritto sulla quale e’ riscontrabile un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, ha, con ordinanza interlocutoria n. 2096 del 2014, sollecitato l’intervento compositivo di queste sezioni unite ai sensi dell’articolo 374 c.p.c., comma 2. Tanto premesso, e’ innanzitutto da evidenziare che, come risulta dalla esposizione che precede, il motivo in esame, pur recando nell’epigrafe un chiaro riferimento all’articolo 360 c.p.c., n. 5, non contiene censure riguardanti la motivazione in fatto della sentenza ne’ tanto meno riporta – giusta la previsione di cui all’ultima parte dell’articolo 366 bis c.p.c., (applicabile nella specie, essendo stata la sentenza impugnata depositata il 19 marzo 2007) – la chiara indicazione di un fatto controverso rispetto al quale la motivazione si assuma in ipotesi viziata, essendo peraltro appena il caso di evidenziare che il motivo di cui all’articolo 360, n. 5, non riguarda (ne’ alla stregua del testo applicabile ratione temporis ne’ di quello attualmente vigente) ipotetici “vizi” della motivazione in diritto.
Non vi e’ pertanto necessita’ di valutare la sussistenza di eventuali deficienze della motivazione prima di procedere all’esame del problema giuridico proposto.
2. La specifica questione di diritto oggetto della censura in considerazione (modificabilita’, con la memoria prevista dall’articolo 183 c.p.c., comma 5, della domanda costitutiva ex articolo 2932 c.c., in domanda di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo) e’ – ed e’ stata – oggetto di contrasto nella giurisprudenza di questo giudice di legittimita’, peraltro gia’ una volta composto dalle sezioni unite di questa Corte poco meno di venti anni fa.
Con la sentenza n. 1731 del 1996 (in questa sede invocata da ricorrente a sostegno delle proprie ragioni), infatti, queste sezioni unite, aderendo a quello che allora si presentava come l’orientamento minoritario (Cass. n. 1782 del 1993; Cass. n. 8442 del 1990; Cass. n. 5250 del 1986), a composizione di un contrasto che gia’ all’epoca si proponeva sostanzialmente negli attuali termini, hanno affermato che costituisce domanda nuova vietata la richiesta di una sentenza che accerti l’avvenuto effetto traslativo dopo che sia stata in precedenza richiesta pronuncia costitutiva ex articolo 2932 c.c., essendo tali domande diverse sotto il profilo del petitum e della causa petendi. In tali termini le sezioni unite del 1996 hanno disatteso l’orientamento, allora decisamente maggioritario, secondo il quale, nel caso in cui l’attore, dopo aver domandato con l’atto introduttivo del giudizio una sentenza costitutiva ai sensi dell’articolo 2932 c.c., sulla base di un contratto qualificato come preliminare di vendita immobiliare, richieda successivamente una pronuncia dichiarativa dell’avvenuto trasferimento della proprieta’ del medesimo immobile, non e’ configurabile una “mutatio” bensi’ una semplice “emendatio libelli”, restando il thema decidendum circoscritto all’accertamento dell’esistenza di uno strumento giuridico idoneo al trasferimento della proprieta’, e rimanendo cosi’ identico nella sostanza il bene effettivamente chiesto e identica la causa petendi, costituita dai contratto del quale viene prospettata, rispetto alla domanda originaria, soltanto una diversa qualificazione giuridica (cosi’ Cass. n. 11840 del 1991 – citata nella sentenza impugnata in questa sede-; n. 6740 del 1987; n. 1788 del 1983; n. 1751 del 1980; n. 5619 del 1979; n. 4736 del 1978; n. 787 del 1971).
Dopo la citata sentenza del 1996, come prevedibile (nonostante non fosse stata ancora introdotta la regola dello “stare decisis” per le sezioni semplici della Corte, prevista, al penultimo comma dell’articolo 374 c.p.c., solo col Decreto Legislativo n. 40 del 2006), la giurisprudenza di legittimita’ ha (tranne isolate eccezioni di cui in prosieguo) seguito l’orientamento indicato dalle sezioni unite (v. Cass. numeri 15541 del 2000; 1740 del 2008; 23708 del 2009 e 12039 del 2010, alle quali sono da aggiungere Cass. n. 15859 del 2002; n. 13420 del 2003; n. 2723 del 2010 che hanno affermato il medesimo principio in senso inverso – cioe’ con riferimento a modifica dell’iniziale domanda di accertamento del contratto di compravendita in domanda di esecuzione coattiva di un contratto preliminare-).
L’orientamento minoritario e’ allo stato costituito da due isolate sentenze (Cass. n. 14643 del 1999 e n. 7383 del 2001) che si rifanno alla giurisprudenza anteriore all’intervento delle sezioni unite del 1996 senza tuttavia dare conto ne’ del contrasto che sulla questione si era evidenziato ne’ della sentenza delle sezioni unite che tale contrasto aveva composto ne’ tanto meno delle ragioni per le quali da questa si sono dissociate) nonche’ dalla ordinanza n. 20177 del 2013 della 6 -3 sezione civile di questa Corte, la quale, pur dando atto dell’esistenza di un nutrito orientamento contrario rappresentato in primis dalle sezioni unite del 1996, ha, con decisione camerale ai sensi dell’articolo 380 bis c.p.c., affermato il principio opposto a tale orientamento, evidenziando le esigenze di speditezza e concentrazione che devono caratterizzare il processo anche alla luce del novellato articolo 111 Cost., e precisando che la qualificazione della domanda di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo come mera emendatio libelli non comporta violazione dei valori sostanziali a tutela dei quali e’ stato elaborato il principio della immutabilita’ della domanda iniziale, non essendo necessario procedere all’esame di fatti nuovi ne’ richiedendosi attivita’ diversa dalla mera diversa qualificazione giuridica della domanda attrice.
Tanto premesso, occorre evidenziare che, come si chiarira’ meglio in prosieguo, la necessita’ di un nuovo intervento compositivo sembra emergere in considerazione (non tanto del numero – esiguo – delle pronunce in aperto contrasto col precedente dictum delle sezioni unite sulla specifica questione ne’ del tempo trascorso dall’intervento compositivo del 1996 quanto) dei mutamenti del quadro normativo di riferimento ad opera del legislatore – anche costituzionale – e dei corrispondenti mutamenti nella giurisprudenza di legittimita’, soprattutto a sezioni unite (pure se non specificamente riferibili alla problematica in esame e riguardanti, in una prospettiva piu’ generale, non solo la disciplina dei “nova” nel processo ma anche le problematiche collegate, ad esempio quelle relative all’ambito ed ai limiti del rilievo officioso nel processo dispositivo, soprattutto in tema di patologie negoziali, e quelle “proiettive” correlate all’ombra lunga del giudicato implicito), nella consapevolezza che l’esegesi della normativa processuale deve sempre salvaguardare la coerenza circolare de sistema e che l’intervento nomofilattico compositivo e’ necessario quante volte occorra riportare a sintesi univoca e manifesta il tormentato processo di adeguamento della ermeneutica giuridica al contesto legislativo e culturale in trasformazione. E’ allora innanzitutto necessario individuare la reale portata del contrasto in esame, posto che (come in parte gia’ evidenziato) la questione oggetto della censura di cui si discute, ai di la’ del particolare (e per certi versi paradigmatico) rapporto tra domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto e domanda di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo della proprieta’ di un bene immobile, investe uno degli “snodi” fondamentali del processo ed impone quindi di affrontare il tema dei margini di ammissibilita’ dei “nova” – a prescindere dalle peculiarita’ del caso specifico – innanzitutto a partire da una ricognizione della struttura dell’udienza di comparizione come disciplinata dall’articolo 183 c.p.c., norma prevedente l’ammissibilita’ di modifiche alle domande, eccezioni e conclusioni proposte negli atti introduttivi, con la possibilita’ che, a seguito di tale ricognizione, il contrasto in esame si riveli piu’ ampio e articolato di quanto risultante ad un prima lettura delle pronunce sopra richiamate.
La possibile emersione di tale piu’ ampio (e in parte silente) contrasto e’ in larga misura correlata ad alcune necessarie precisazioni in ordine alla “lettura” dei dati giurisprudenziali in proposito.
2a) La prima precisazione prende l’avvio dalla considerazione che, in linea generale, la giurisprudenza in materia sembra finora univoca e tetragona nell’affermare il principio secondo i quale sono ammissibili solo le modificazioni della domanda introduttiva che costituiscono semplice “emendatio libelli”, ravvisabile quando non si incide ne’ sulla causa petendi (ma solo sulla interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto) ne’ sul petitum (se non nel senso di meglio quantificarlo per renderlo piu’ idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere), mentre sono assolutamente inammissibili quelle modificazioni della domanda che costituiscono “mutatio libelli”, ravvisabile quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e piu’ ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima, ed in particolare su di un fatto costitutivo differente, cosi’ ponendo al giudice un nuovo tema d’indagine e spostando i termini della controversia, con l’effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo (v. tra numerose altre Cass. numeri 1585 del 2015; 12621 del 2012; 17457 del 2009; 17300 del 2008; 21017 del 2007; 9247 del 2006).
Questa apparente uniformita’ di principio (che relega senza incertezze nel campo della inammissibile mutatio libelli le modifiche alla domanda iniziale incidenti su petitum e causa petendi) sottende tuttavia una realta’ piu’ frastagliata, posto che, se pure nessuna pronuncia ha finora esplicitamente affermato che sono ammissibili domande “nuove” (intese come tali quelle delle quali risultano modificati in tutto o in parte il petitum e/o la causa petendi), nei singoli casi, escludendo che fosse intervenuto il suddetto inammissibile cambiamento, si e’ in concreto (talora attraverso equilibrismi teorici a volte comprendenti anche rivisitazioni e ridefinizioni dei concetti di petitum e causa pretendi) giunti a ritenere sostanzialmente ammissibili anche domande che presentavano invece mutamenti in ordine ai suddetti elementi identificativi.
Gli esempi di tale modo di argomentare nella giurisprudenza di questo giudice di legittimita’ sono numerosi, si pensi, tanto per citarne uno, a Cass. n. 20899 del 2013, che ammette, ai sensi dell’articolo 183 c.p.c., una “modifica” della iniziale domanda di risoluzione per inadempimento consistente nell’aggiunta di una domanda subordinata di adempimento del contratto, ravvisando in essa una mera emendatio libelli). E certamente uno degli esempi piu’ rappresentativi del suddetto modo di argomentare e’ costituito proprio dall’orientamento giurisprudenziale che a piu’ riprese nei corso degli anni ha ritenuto ammissibile la proposizione della domanda di accertamento dell’intervenuto effetto traslativo del bene dopo che nell’atto introduttivo era stata proposta domanda di sentenza costitutiva ex articolo 2932 c.c., orientamento fondato, come sopra evidenziato, sulla considerazione che nella specie non sarebbe configurabile una “mutatio” ma solo una “emendatio libelli”, perche’ il thema decidendum rimarrebbe circoscritto all’accertamento dell’esistenza di uno strumento giuridico idoneo al trasferimento della proprieta’, restando cosi’ identico nella sostanza il bene effettivamente richiesto e la causa petendi, costituita dal contratto dei quale viene prospettata soltanto una diversa qualificazione giuridica. Cio’ in quanto risulta invece evidente che nella domanda come formulata prima e dopo la modifica vengono allegati a sostegno delle pretese avanzate fatti costitutivi differenti (un contratto preliminare nel primo caso ed un contratto traslativo della proprieta’ nel secondo); che non si tratta della diversa qualificazione giuridica dello stesso fatto, ma dell’accertamento di due fatti diversi (la comune intenzione dei contraenti indirizzata, nella prima ipotesi, ad un contratto ad effetti obbligatori, nell’altra ad un contratto ad effetti reali), accertamento eventualmente non limitato alla mera interpretazione della scrittura privata ma esteso alla valutazione del comportamento complessivo dei contraenti ex articolo 1362 c.c.; che risulta altresi’ diverso soprattutto il petitum, non solo se inteso come provvedimento richiesto (una sentenza costitutiva nel primo caso ed una sentenza di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo nell’altro), ma anche se inteso come petitum sostanziale, ossia il bene della vita conteso, posto che quando si discute tra compravendita immobiliare e corrispondente preliminare quasi mai quel che e’ oggetto di controversia tra le parti e’ l’esistenza di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento dell’immobile, essendo invece in contestazione il momento in cui il suddetto trasferimento e’ avvenuto o deve avvenire, con la conseguenza che il “bene” della vita conteso finisce per essere non l’immobile bensi’ proprio il “tempo” (meglio, il diverso momento in cui avviene, nelle due ipotesi, il trasferimento), e cio’, come e’ intuibile, in relazione ad una serie di accadimenti inducenti effetti spesso di consistente rilievo economico (e non solo), basti pensare, tra i molti, al perimento della cosa, alle conseguenze – anche penali – della rovina di edifici, all’intervento del fallimento di uno dei contraenti, al godimento da parte di uno dei predetti (ovvero all’aspettativa di godimento ed alla necessita’ di porsi in condizione di fruirne) delle agevolazioni fiscali relative alla c.d. “prima casa”, al momento di deliberazione di eventuali spese condominiali.
Occorre pertanto considerare che le numerose pronunce che, anche in tempi risalenti, hanno affermato la possibilita’ di modificare l’iniziale domanda di sentenza costitutiva ex articolo 2932 c.c. in domanda di sentenza di accertamento dell’intervenuto effetto traslativo (e viceversa) si sono di fatto (al di la’ delle differenti affermazioni di principio) poste in contrasto (anche se forse non sempre volontario o consapevole) con la apparentemente granitica e tuttora formalmente indiscussa giurisprudenza affermativa del divieto della c.d. mutatio libelli (intesa come modificazione degli elementi costitutivi oggettivi – petitum e/o causa petendi – della domanda).
2b) La seconda necessaria precisazione in ordine alla “lettura” dei dati giurisprudenziali in materia parte dal rilievo che, in linea generale, le divergenze su temi cosi’ vasti e cosi’ (direttamente o indirettamente) collegati ad una serie di problematiche costituenti la struttura portante dell’architettura del processo molto spesso non rappresentano una posizione di netta (tanto meno cosciente e volontaria) contrapposizione con altre precedenti pronunce (a sezioni semplici o a sezioni unite) e tuttavia esprimono una particolare forma di piu’ ampia (e spesso “asintomatica”) divergenza che non sempre investe direttamente i principi affermati dalla pronunce “contrastate”, ma piuttosto i presupposti e le conseguenze di quei principi.
Tali atipici contrasti sono ravvisabili soprattutto con riguardo a sentenze particolarmente articolate, fortemente ricostruttive del sistema e gravide di implicazioni, in quanto si misurano su temi (come nella specie quello dell’ammissibilita’ di “nova” nel processo e quelli logicamente connessi) costituenti un significativo e qualificante “crocevia” del processo, ed in pratica si sostanziano in una diversa ricostruzione del sistema (o nella non completa accettazione della ricostruzione presupposta dai principi affermati nel precedente giurisprudenziale pur non esplicitamente sconfessato).
Si tratta di “contrasti” piu’ frequenti di quanto non appaia ad un primo esame della giurisprudenza, soprattutto in rapporto a sentenze complesse nelle quali e’ rinvenibile una serie di affermazioni (inquadrabili come una specie assai qualificata di obiter di tipo “logico-progressivo”) che si pongono come passaggi logici obbligati nell’ambito di un piu’ ampio e complesso ragionamento giuridico.
La necessita’ di stabilire se, in caso di decisioni complesse strutturate secondo costruzioni logiche, costituiscono rationes decidendi o solo obiter dieta quelle enunciazioni autonomamente isolabilt che, pur non incidendo direttamente sulla soluzione del caso, ne costituiscono il presupposto logico, rappresentando passaggi essenziali del ragionamento che ha condotto alla decisione stessa, e’ tuttavia in questa sede meramente teorica, se si considera che nelle pronunce in materia processuale l’esigenza di verificare la ricostruzione assunta alla luce anche della coerenza dell’intero sistema e’ fondamentale, con la conseguenza che, rispetto ad alcuni enunciati che, pur non avendo ricevuto diretta applicazione nella decisione del caso, costituiscono tuttavia parte integrante del ragionamento che ha condotto alla decisione, se non si puo’ ravvisare un vero e proprio contrasto in senso tecnico, potrebbe senz’altro ravvisarsi una sorta di “contrasto di sistema”. Occorre dunque altresi’ considerare che in relazione alla questione proposta dalla censura in esame e’ riscontrabile nella giurisprudenza di legittimita’ anche un ulteriore contrasto “atipico” tra la ricostruzione del sistema (con le corrispondenti opzioni esegetico-valoriali) presupposta dalle recenti sentenze che hanno deciso questioni connesse al tema in esame (ad esempio quelle in materia di patologie negoziali relative all’ambito del rilievo officioso ed ai rivenienti limiti oggettivi del giudicato) e la ricostruzione del sistema (con le connesse opzioni esegetico-valoriali, esplicite o implicite che siano) presupposta dalle numerose decisioni che in maniera (solo apparentemente) univoca hanno affermato il principio del divieto assoluto di mutatto libelli (intesa come modifica della causa petendi e/o del petitum della domanda iniziale).
E delle sopra evidenziate due tipologie di contrasti (implicito il primo, atipico il secondo) riscontrabili in ordine alla problematica in esame (oltre al contrasto esplicito sulla specifica questione della modifica preliminare/definitivo) e’ necessario farsi carico per evitare il proliferare, su di un tema cosi’ cruciale e percio’ richiedente massima chiarezza, di ulteriori ambiguita’ e contrasti, espressi o silenti.
3. Sulla base di quanto sopra doverosamente precisato, non si ritiene dunque di perpetuare la logica giurisprudenziale del caso per caso volta a privilegiare un approccio “settoriale” che, come accaduto finora -in misura maggiore o minore- nelle sentenze in relazione alle quali e’ stato rilevato il contrasto, non pone in discussione le affermazioni di principio in materia, ma anzi ricostruisce le singole decisioni proprio a partire da quei principi dati formalmente per indiscutibili.
Prima di procedere pero’ alla diretta ricognizione della struttura e della portata precettiva dell’articolo 183 c.p.c., con riguardo all’ampiezza della ivi prevista ammissibilita’ della modifica di domande, eccezioni e conclusioni, e’ pero’ indispensabile innanzitutto “resettare” le pre-cognizioni in materia e sgombrare il campo di analisi da preconcetti e suggestioni – linguistiche prima ancora che giuridiche – soprattutto con riguardo ad espressioni sfuggenti ed abusate che hanno finito per divenire dei “mantra” ripetuti all’infinito senza una preventiva ricognizione e condivisione di significato. E’ vero che l’utilizzo di formule brevi e icastiche puo’ servire a semplificare la comunicazione ed a favorire il richiamo convenzionale di concetti, deve tuttavia trattarsi di formule che abbiano, appunto, un indiscusso retroterra concettuale, essendosene preventivamente stabilito in modo convenzionale ed inequivoco il significato, mentre il richiamo a termini il cui significato resta oscuro serve solo ad aumentare la confusione ed a favorire l’ambiguita’ concettuale nonche’ la pigrizia esegetica, inducendo a cedere alla tentazione sbrigativa e autoritaria della “formuletta” che, ripetuta acriticamente ed in rapporto a situazioni eterogenee, finirebbe in ogni caso, perfino se preceduta da una seria e condivisa ricognizione di senso, per usurarsi. E’ questo certamente il caso della nota coppia retorica emendatio/mutatio libelli, e della connessa convinzione di ammissibilita’ della prima ed inammissibilita’ della seconda.
Il principio (finora, come rilevato, apparentemente indiscusso nella giurisprudenza di questo giudice di legittimita’) secondo il quale e’ inammissibile ogni modifica della domanda iniziale che incida sul petitum e/o sulla causa petendi prende le mosse dalla corretta considerazione iniziale secondo la quale, ad ogni finalita’ giuridicamente rilevante (ad esempio la litispendenza, l’individuazione dell’ambito del giudicato), i momenti identificativi della domanda sono rappresentati dai tre elementi delle personae (sotto il profilo soggettivo), del petitum e della causa petendi (sotto il profilo oggettivo).
Gli aspetti problematici della ricostruzione in esame cominciano a configurarsi quando, con un vero e proprio salto logico, il problema dell’identificazione della domanda si salda con quello della sua modificabilita’, sulla base di due passaggi dati per scontati e/o assunti come obbligati ma che non trovano completo riscontro nella struttura e nella portata precettiva dell’articolo 183 c.p.c.: la convinzione che non e’ ammessa la proposizione di domande “nuove” nel corso dell’udienza di cui alla citata norma, e la connessa convinzione che nella logica di detta norma devono ritenersi “nuove” le domande che differiscono da quella iniziale anche solo per uno degli elementi identificativi sul piano oggettivo (petitum, causa petendi), con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile la modifica della domanda iniziale che abbia inciso su uno dei suddetti elementi e che pertanto la modificazione consentita sia qualcosa di meno della vera e propria “mutatio” e si identifichi con la “emendatio libelli”, non meglio definita e/o definibile se non in negativo, nel senso che non puo’ consistere nella vietata “mutatio”.
La fondatezza di tali convinzioni non puo’ che essere verificata sulla base di un’attenta analisi della norma in esame, partendo dalla constatazione che in essa non e’ dato rinvenire un esplicito divieto di domande nuove come quello riscontrabile nell’articolo 345 c.p.c., laddove si afferma che “nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e se proposte devono essere dichiarate inammissibili d’ufficio”, ma che “Possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonche’ il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa”.
Ovviamente solo una tecnica di decodificazione del silentium legis assai rozza consentirebbe di trarre dirette conseguenze dalla mera assenza di un esplicito divieto (paragonabile a quello espresso nel citato articolo 345 c.p.c., per il giudizio d’appello) di proporre domande nuove nell’ambito dell’udienza di cui all’articolo 183 c.p.c., tuttavia e’ evidente che il rilievo costituisce un dato oggettivo da interpretare alla stregua del contesto di riferimento.
E’ inoltre da evidenziare che l’articolo 189 c.p.c., in tema di rimessione della causa al collegio, prevede che il giudice istruttore invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni che intendono sottoporre al collegio “nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell’articolo 183 c.p.c.”, in tal modo ribadendo, ove vi fossero dubbi, che a norma dell’articolo 183 c.p.c., le parti possono cambiare le domande e conclusioni avanzate nell’atto introduttivo in maniera sensibilmente apprezzabile (quindi non limitata a mere qualificazioni giuridiche o precisazioni di dettaglio), restando tuttavia ancora in parte imprecisato il tenore di tale cambiamento. Per una maggiore comprensione della effettiva portata del cambiamento ammissibile ai sensi dell’articolo 183 c.p.c., occorre procedere dalla considerazione che, in rapporto alla domanda originaria, nell’economia della suddetta norma risultano previsti altri tre tipi di domande: le domande “nuove”, le domande “precisate” e le domande “modificate”. Con riguardo alle domande “nuove”, va innanzitutto evidenziato che, pur non riscontrandosi un espresso divieto come quello di cui all’articolo 345 c.p.c., questo puo’ essere implicitamente desunto dal fatto che risultano specificamente ammesse per l’attore le domande e le eccezioni “che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto”, ben potendo l’affermazione suddetta leggersi nel senso che sono (implicitamente) vietate tutte le domande nuove ad eccezione di quelle che per l’attore rappresentano una reazione alle opzioni difensive del convenuto, secondo una struttura in parte dissimile da quella riscontrabile nel piu’ volte citato articolo 345 c.p.c., dove il divieto di domande nuove risulta esplicitato, sicche’ non resta deducibile “a contrario” dalla esplicita ammissione delle domande relative a frutti, interessi, accessori e danni rispettivamente maturati e sofferti dopo la sentenza impugnata.
L’unico limite a questa tecnica di interpretazione del silentium legis e’ indubbiamente, come sara’ piu’ chiaro in prosieguo, costituito dal fatto che il silenzio non puo’ “colorarsi” e prendere voce se non in rapporto alla parte esplicita della norma alla quale si riconnette e che pertanto il divieto implicito non potrebbe che riguardare domande “nuove” nel senso in cui sono “nuove” le domande del tipo di quelle che il legislatore ha ritenuto di dover espressamente ammettere.
Quanto alle domande “precisate”, e’ intuitivo che esse sono le stesse domande introduttive che non hanno subito modificazioni nei loro elementi identificativi, ma semplici precisazioni, per tali intendendosi tutti quegli interventi che non incidono sulla sostanza della domanda iniziale ma servono a meglio definirla, puntualizzarla, circostanziarla, chiarirla.
L’identificazione delle c.d. domande “modificate” si presenta invece piu’ ardua, soprattutto ove si intendesse mantenersi fedeli ai principio generale – esplicitato o presupposto da tutta la giurisprudenza finora esaminata – secondo il quale sono domande nuove vietate quelle in cui risultino modificati in tutto o in parte uno o entrambi gli elementi identificativi sul piano oggettivo della domanda originaria (cioe’ petitum e causa petendi).
In proposito, non e’ superfluo precisare che non ha alcuna consistenza ontologica prenormativa la pretesa differenza linguistica tra “mutamento” e “modifica” da alcuni sostenuta sulla falsariga del binomio emendatio-mutatio libelli, posto che nella lingua italiana i verbi modificare e mutare (come anche, ad esempio, cambiare), utilizzati con riferimento ad una cosa, risultano sinonimi se intesi nel significato di “trasformare”, e lo sono sostanzialmente anche se intesi nel significato di “sostituire”, se non per la sfumatura che, nel caso di modifica, potrebbe trattarsi solo di una “sostituzione – mediante – trasformazione”, nel senso in cui si puo’ dire, ad esempio, che la domanda (come modificata) sostituisce la precedente oggetto di modifica.
E’ inoltre da considerare che la norma in esame non prevede limiti ne’ qualitativi ne’ quantitativi alla modificazione ammessa e che in nessuna parte della norma suddetta e’ dato riscontrare un (esplicito o implicito) divieto di modificazione – in tutto o in parte – di uno degli elementi oggettivi di identificazione della domanda. In ogni caso risulta veramente difficile immaginare una modifica della domanda che non si riduca ad una mera precisazione e neppure incida (almeno in parte) sui suddetti elementi identificativi, come in concreto provato dalla stessa giurisprudenza che, ritenuta in astratto indiscutibile l’inammissibilita’ della modificazione degli elementi identificativi oggettivi della domanda, ha poi trovato tali difficolta’ ad indicare una ammissibile modificazione della medesima che non si riduca ad una mera precisazione, da pervenire ad affermazioni illogiche identificando la modificazione ammissibile ai sensi dell’articolo 183 c.p.c., non nella prospettazione di un fatto costitutivo diverso da quello addotto nell’atto di citazione bensi’ nella diversa qualificazione giuridica di tale fatto (v. tra le altre Cass. n. 17457 del 2009 e 12621 del 2012), come se una diversa qualificazione giuridica del fatto non fosse sempre ammissibile, perfino nel corso dei giudizi di impugnazione, ad opera della parte ed anche del giudice, senza bisogno di una specifica norma che autorizzi a tanto, addirittura distinguendo questa attivita’ da quella di precisazione della domanda e prevedendo tale possibilita’ solo all’inizio del procedimento di primo grado e con la contemporanea prescrizione di importanti “cautele” a tutela della controparte, come la previsione di doppi termini per memorie e articolazione di prova diretta e contraria.
Per comprendere allora l’effettiva portata della modificazione ammissibile occorre fare un passo indietro e tornare a delimitare il reale ambito del divieto di domande “nuove” implicitamente desunto (nel silenzio del legislatore) dalla ammissione espressa di domande costituenti conseguenza della riconvenzionale o delle eccezioni del convenuto.
Se, come sopra precisato, il “silenzio” assume valore e significato in relazione alla previsione espressa dalla quale e’ desunto, occorre allora prendere atto che possono ritenersi vietate solo domande le cui caratteristiche di “novita’” corrispondono a quelle riscontrabili nelle domande espressamente ammesse in deroga ad una inammissibilita’ implicitamente assunta come principio generale. E la prima caratteristica riscontrabile nelle domande “nuove” ammesse, nell’economia dell’articolo 183 c.p.c., in risposta alle opzioni difensive del convenuto, e’ che esse si aggiungono alla domanda proposta nell’atto introduttivo, sono “altro” da quella domanda, innanzitutto perche’ con essa convivono, con la conseguenza che possono (implicitamente) ritenersi inammissibili solo le (altre) domande che (al pari di quelle eccezionalmente ed esplicitamente ammesse) si aggiungono alla domanda principale.
La vera differenza tra le domande “nuove” implicitamente vietate – in relazione alla eccezionale ammissione di alcune di esse – e le domande “modificate” espressamente ammesse non sta dunque nel fatto che in queste ultime le “modifiche” non possono incidere sugli elementi identificativi, bensi’ nel fatto che le domande modificate non possono essere considerate “nuove” nel senso di “ulteriori” o “aggiuntive”, trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate – eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali -, o, se si vuole, di domande diverse che pero’ non si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in un rapporto di alternativita’.
In questo pertanto, secondo la disciplina positiva enucleabile dalla struttura dell’articolo 183 c.p.c., sta tutto il loro non essere domande “nuove”, rispetto ad un divieto implicitamente ricavato dalla (e pertanto oggettivamente correlato alla) necessita’ espressa di prevedere l’ammissibilita’ di alcune specifiche domande “nuove” aventi la caratteristica di non essere alternative alla (o sostitutive della) domanda iniziale, ma di aggiungersi ad essa: in pratica, con la modificazione della domanda iniziale l’attore, implicitamente rinunciando alla precedente domanda (o, se si vuole, alla domanda siccome formulata nei termini precedenti alla modificazione), mostra chiaramente di ritenere la domanda come modificata piu’ rispondente ai propri interessi e desiderata rispetto alla vicenda sostanziale ed esistenziale dedotta in giudizio. Una differente ricostruzione renderebbe, come gia’ evidenziato, difficilmente comprensibile una modifica prevista come diversa dalla mera precisazione e tuttavia non suscettibile di incidere neppure in parte sugli elementi identificativi della domanda. Ed inoltre, come pure rilevato, se si trattasse di modificazioni incidenti solo su aspetti marginali della domanda iniziale ovvero sulla mera qualificazione giuridica del fatto costitutivo inizialmente dedotto, non sarebbe giustificata la previsione di un termine di trenta giorni per il deposito di memorie in relazione a precisazioni e modificazioni di domande, eccezioni e conclusioni, un ulteriore termine di trenta giorni per replicare alle domande ed eccezioni nuove o modificate, proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni suddette ed indicare i mezzi di prova e le produzioni documentali, nonche’ ancora un termine di ulteriori venti giorni per le indicazioni di prova contraria.
D’altro canto, una modificazione della domanda ammissibile senza limiti (quindi anche eventualmente incidente sugli elementi oggettivi di identificazione della medesima) risulta logicamente comprensibile siccome situata all’esito dell’udienza di comparizione, cioe’ una udienza in cui non e’ ancora sostanzialmente iniziata la trattazione della causa, non e’ intervenuta l’ammissione di mezzi di prova, e quindi una modifica anche incisiva della domanda non arrecherebbe pregiudizio all’ordinato svolgimento del processo (a differenza delle modifiche ammissibili, prima delle riforme degli anni novanta, perfino in appello).
E’ inoltre da considerare che la possibilita’ di una simile modificazione risulta prevista, nella complessa architettura della norma in esame, dopo gli atti introduttivi di entrambe le parti, le eventuali domande riconvenzionali e richieste di autorizzazione a chiamare in causa terzi, ma, soprattutto, dopo l’esplicazione dei poteri (non solo di direzione ma anche) di “indirizzo” processuale attribuiti al giudice pure attraverso la previsione, nella medesima norma, della richiesta di chiarimenti alle parti e dell’indicazione delle questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione, quindi in un momento in cui, all’esito di una udienza potenzialmente “chiarificatrice”, puo’ risultare assai piu’ evidente alle parti, in relazione alla situazione sostanziale dedotta in causa, la soluzione effettivamente rispondente ai rispettivi interessi e intendimenti.
E’ percio’ da ritenersi che il legislatore abbia scelto proprio questo momento per consentire, prima dell’inizio della trattazione della causa, “correzioni di tiro” e cambiamenti anche rilevanti (rispetto ai quali, come gia’ sottolineato, e’ addirittura previsto un triplo ordine di termini) al fine di massimizzare la portata dell’intervento giurisdizionale richiesto cosi’ da risolvere in maniera tendenzialmente definitiva i problemi che hanno portato le parti dinanzi al giudice, evitando che esse tornino nuovamente in causa in relazione alla medesima vicenda sostanziale. Diversamente opinando si finirebbe per imprigionare la ratio che presiede alla organizzazione dell’articolo 183 c.p.c., nell’ambito di una logica deontica fine a se stessa, intesa ad inquadrare e regolamentare permessi, obblighi e divieti con l’unica preoccupazione che siano certi i confini tra quel che si puo’, quel che si deve e quel che e’ vietato fare, anche a discapito della funzionalita’ dell’intero processo e dei suoi valori fondanti.
Ridurre la modificazione ammessa ad una sorta di precisazione o addirittura di mera diversa qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto (per la quale, come gia’ precisato, neppure sarebbe necessaria un’apposita previsione e addirittura la concessione di termini e “controtermini”) significherebbe infatti, contro la lettera e la logica della norma, costringere la parte che abbia meglio messo a fuoco il proprio interesse e i propri intendimenti In relazione ad una determinata vicenda sostanziale – eventualmente anche grazie allo sviluppo dell’udienza di comparizione – a rinunciare alla domanda gia’ proposta per proporne una nuova in un altro processo, in contrasto con i principi di conservazione degli atti e di economia processuale, ovvero a continuare il processo perseguendo un risultato non perfettamente rispondente ai propri desideri ed interessi, per poi eventualmente proporre una nuova domanda (con indubbio spreco di attivita’ e risorse) dinanzi ad un altro giudice il quale dovra’ conoscere della medesima vicenda, sia pure sotto aspetti in parte dissimili, con effetti incidenti negativamente: sulla “giustizia” sostanziale della decisione (posto che essa puo’ essere meglio assicurata se sono veicolati nel medesimo processo tutti i vari aspetti e le possibili ricadute della medesima vicenda sostanziale ed “esistenziale”, evitando di fornire al giudice la conoscenza di una realta’ sostanziale artificiosamente frammentata con l’effetto di determinarne una visione parziale); sul rischio di giudicati contrastanti; sulla ragionevole durata dei processi, valore costituzionale da perseguire anche nell’attivita’ di interpretazione delle norme processuali da parte del giudice. Peraltro, una interpretazione come quella in questa sede proposta, che vede la possibilita’ di una modifica della domanda iniziale anche con riguardo agli elementi identificativi oggettivi della stessa, non espone al rischio di trasformare il processo in un “tram” da prendere al volo caricandolo di tutte le possibili ed eventualmente eterogenee ragioni di lite nei confronti di una determinata controparte, se si considera che, oltre a rimanere ovviamente immutato rispetto alla domanda originaria l’elemento identificativo soggettivo delle personae, la domanda modificata deve pur sempre riguardare la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l’atto introduttivo o comunque essere a questa collegata, regola sicuramente ricavabile da tutte le indicazioni contenute nel codice in relazione alle ipotesi di connessione a vario titolo, ma soprattutto se si considera in particolare che, come sopra evidenziato, la domanda modificata si presenta certamente connessa a quella originaria quanto meno per “alternativita’”, rappresentando quella che, a parere dell’attore, costituisce la soluzione piu’ adeguata ai propri interessi in relazione alla vicenda sostanziale dedotta in lite.
Ne’ l’interpretazione proposta rischia di allungare i tempi del processo nel quale la modifica della domanda interviene, posto che: la domanda “modificata” sostituisce la domanda iniziale e non si aggiunge ad essa; la modifica interviene pur sempre nella fase iniziale del giudizio di primo grado, prima dell’ammissione delle prove; la modifica – quale ne sia la portata – non potrebbe giammai comportare tempi superiori a quelli gia’ preventivati dal medesimo articolo 183 c.p.c., laddove prevede che il giudice, su richiesta delle parti, concede una serie di termini prederminati, anche in ipotesi di mera precisazione ovvero di modificazione intesa nei piu’ ristretti limiti finora ammessi in linea di principio dalla giurisprudenza di legittimita’.
E neppure puo’ ritenersi che una simile interpretazione della portata della modificazione ammessa possa “sorprendere” la controparte ovvero mortificarne le potenzialita’ difensive perche’: l’eventuale modifica avviene sempre in riferimento e connessione alla medesima vicenda sostanziale in relazione alla quale la parte e’ stata chiamata in giudizio; la parte sa che una simile modifica potrebbe intervenire a norma della disciplina processuale vigente, sicche’ non si trova rispetto ad essa come dinanzi alla domanda iniziale; alla suddetta parte e’ in ogni caso assegnato un congruo termine per potersi difendere e controdedurre anche sul piano probatorio. E’ peraltro necessario evidenziare che nel caso specifico portato alla cognizione di queste sezioni unite non e’ neppure ravvisabile una semplice connessione per alternativita’ tra la domanda iniziale e la domanda modificata, ma addirittura una connessione per incompatibilita’, basti pensare che, accertato in ipotesi dal giudice che la comune intenzione dei contraenti fu quella di obbligarsi alla conclusione di un contratto di compravendita immobiliare, e formatosi sul punto il giudicato, la parte che volesse chiedere al giudice di accertare (avendo interesse ad una diversa decorrenza degli effetti traslativi) che tra le parti intervenne invece un contratto con effetti reali si scontrerebbe con un giudicato che ha diversamente accertato la suddetta “comune intenzione” dei contraenti.
4. Tanto premesso circa la necessita’ di interpretare nell’ambito della complessiva economia strutturale dell’articolo 183 c.p.c., la riconosciuta possibilita’ di modificare domande, eccezioni e conclusioni gia’ formulate, occorre ora sottolineare che i risultati ermeneutici in tal modo raggiunti risultano in completa consonanza sia con l’esigenza – ripetutamente perseguita nel codice di rito talora anche attraverso modifiche della disciplina sulla competenza – di realizzare, al fine di una maggiore economia processuale ed una migliore giustizia sostanziale, la concentrazione nello stesso processo e dinanzi allo stesso giudice delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale (basti pensare alle disposizioni codicistiche in tema di connessione o di riunione di procedimenti) sia, piu’ in generale, con i valori funzionali del processo come via via enucleati nel corso degli ultimi anni dalla dottrina a dalla giurisprudenza – soprattutto a sezioni unite – di questo giudice di legittimita’. L’interpretazione adottata in questa sede risulta infatti maggiormente rispettosa dei principi di economia processuale e ragionevole durata del processo, posto che, come gia’ rilevato, non solo non incide negativamente sulla durata del processo nel quale la modificazione interviene, ma determina anzi una indubbia incidenza positiva piu’ in generale sui tempi della giustizia, in quanto e’ idonea a favorire una soluzione della complessiva vicenda sostanziale ed esistenziale portata dinanzi al giudice in un unico contesto invece di determinare la potenziale proliferazione dei processi, essendo appena il caso di aggiungere che sulla irragionevole durata di un processo non incide (sol)tanto cio’ che rileva all’interno di quel processo quanto il numero complessivo dei processi contemporaneamente pendenti che ne condiziona la gestione.
La concentrazione favorita da tale interpretazione risulta inoltre maggiormente rispettosa della stabilita’ delle decisioni giudiziarie, anche in relazione alla limitazione del rischio di giudicati contrastanti, nonche’ della effettivita’ della tutela assicurata, sempre messa in pericolo da pronunce meramente formalistiche.
A tale ultimo proposito e’ in linea generale ancora da sottolineare che la previsione costituzionale di un processo “giusto” impone a giudice di non limitarsi alla meccanica e formalistica applicazione di regole processuali astratte, ma di verificare sempre (e quindi ogni volta) se l’interpretazione adottata sia necessaria ad assicurare nel caso concreto le garanzie fondamentali in funzione delle quali le norme oggetto di interpretazione sono state poste, evitando che, in mancanza di tale necessita’, il rispetto di una ermeneutica tralascia sottratta alla necessaria verifica in rapporto al caso concreto si traduca in un inutile complessivo allungamento dei tempi di giustizia ed in uno spreco di risorse, con correlativa riduzione di effettivita’ della tutela giurisdizionale.
Va infine aggiunto che i suddetti valori funzionali del processo, a tutela dei quali deve essere improntata interpretazione della disciplina processuale, risultano sempre piu’ spesso espressamente posti a base della esegesi adottata in alcune pronunce di queste sezioni unite su problematiche processuali di ampio respiro, basti pensare, con particolare riguardo ai valori costituzionali sottesi al principio di concentrazione, tra le altre, a s.u. n. 23726 del 2007 in materia di frazionamento del credito, e a s.u. n. 26242 del 2014, in materia di patologie negoziali (esplicitamente affermativa dell’esigenza di una decisione intesa al definitivo consolidamento della situazione sostanziale direttamente o indirettamente dedotta in giudizio, “evitando di trasformare il processo in un meccanismo potenzialmente destinato ad attivarsi all’infinito”).
5. Col secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli articoli 2932, 1376 e 2826 c.c., nonche’ vizio di motivazione, il ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello abbiano ritenuto che nel contratto in esame il frazionamento fosse stato pattuito per mere esigenze di natura catastale laddove esso doveva ritenersi previsto al fine di identificare il bene oggetto dell’impegno a vendere.
La censura e’ inammissibile.
Il ricorrente censura l’interpretazione data al contratto dai giudici d’appello con riguardo al frazionamento ivi previsto (per mere esigenze catastali, secondo la sentenza impugnata ed invece per identificare il bene oggetto del contratto, secondo il ricorrente), tuttavia non risulta denunciata violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale (articolo 1362 c.c. e ss.) ne’ formulato corrispondente quesito di diritto ai sensi dell’articolo 366 bis c.p.c..
Peraltro, l’accertamento in fatto compiuto dal giudice di merito con riguardo all’interpretazione del contratto in esame non risulta adeguatamente censurato neppure sul piano motivazionale – al di la’ della formale indicazione del corrispondente vizio nell’epigrafe del motivo in esame – sia perche’ manca la specifica indicazione delle ragioni dell’obiettiva deficienza o contraddittorieta’ del ragionamento del giudice, risolvendosi la censura nella mera esposizione di un’interpretazione diversa rispetto a quella criticata (v. sul punto, tra le altre, Cass. n. 14318 del 2013 e n. 6641 del 2012) sia perche’ manca del tutto l’indicazione prevista dalla seconda parte dell’articolo 366 bis c.p.c., a norma del quale e’ richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidita’ formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume viziata, dovendo peraltro, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimita’, il suddetto onere di indicazione essere adempiuto non gia’ e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo e consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilita’ del ricorso (v. tra le altre Cass. n. 24255 del 2011 e n. 8897 del 2008). Ne’ potrebbe ritenersi adeguato alle prescrizioni della suddetta norma siccome interpretate dalla giurisprudenza citata l’interrogativo posto in calce al motivo in esame (“se rappresenti un fatto controverso decisivo per il giudizio lo stabilire se quel contratto intervenuto tra le parti ed i suoi effetti reali potevano attuarsi senza che fosse stato determinato in accordo il contenuto sostanziale del tipo di frazionamento redatto un anno dopo e se un tale frazionamento avrebbe dovuto essere approvato per iscritto”), posto che in esso non si indica il fatto controverso e decisivo in ordine al quale la motivazione si assume viziata, ma ci si limita a chiedere se rappresenti fatto controverso e decisivo stabilire una determinata circostanza, risultando evidente, a tacer d’altro, che anche una eventuale risposta positiva a tale interrogativo non significherebbe che in ordine a tale fatto la motivazione sia da ritenersi in ipotesi viziata.
E’ peraltro in ogni caso da rilevare che quello di cui si chiede di dire se rappresenti un “fatto” controverso e decisivo per il giudizio in realta’ non e’ un “fatto” bensi’ una “questione”, mentre l’illustrazione di cui all’ultima parte del citato articolo 366 bis deve sempre avere ad oggetto (non piu’ una questione o un “punto”, secondo la versione dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, anteriore alla modifica introdotta dal Decreto Legislativo n. 40 del 2006, ma) un fatto preciso, inteso in senso storico e normativo, ossi’a un fatto “principale”, ex articolo 2697 c.c., (cioe’ un “fatto” costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche, secondo parte della dottrina e giurisprudenza, un fatto secondario (cioe’ un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purche’ controverso e decisivo (v. tra le altre cass. n. 21152 del 2014 e n. 16655 de 2011).
Deve infine sottolinearsi che anche la denuncia di violazione e falsa applicazione di norme di diritto non trova adeguato riscontro nello sviluppo del motivo e soprattutto risulta assolutamente carente del corrispondente quesito di diritto, non potendo evidentemente ritenersi tale la mera richiesta in ordine a cosa possa ritenersi fatto controverso e decisivo per il giudizio, espressa nei termini sopra riportati. Col terzo motivo, deducendo, in riferimento all’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione e “disapplicazione” dell’articolo 1350 c.c., nonche’ omessa motivazione su di un fatto controverso decisivo per il giudizio, il ricorrente chiede a questo giudice di dire “se i contratto intervenuto tra le parti richiedesse di essere integrato con altro, concordato fra di loro, idoneo ad identificare il bene che ne formava l’oggetto; se tale atto integrativo avrebbe dovuto redigersi per iscritto; se non sia stata omessa dal giudice d’appello una motivazione adeguata sulla mancanza dell’atto integrativo ed altresi’ se l’immobile che si attribuiva ai promissari fosse stato identificabile con quello del loro impegno scritto ad acquistare”.
Anche queste censure sono inammissibili.
In particolare, con riguardo alla violazione e “disapplicazione” della norma di legge indicata nell’epigrafe del motivo in esame, i quesiti sopra esposti, in quanto assolutamente generici e teorici, privi di ogni specifica indicazione relativa alla fattispecie concreta e pertanto non suscettibili di lettura “autonoma”, non risultano in alcun modo idonei ad assolvere alla funzione di integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale e quindi di mettere la Corte in grado di comprendere, dalla sola lettura del quesito, l’errore asseritamene compiuto dal giudice di merito e la regola applicabile (v. tra numerose altre Cass. n. 3530 del 2012 e n. 8463 del 2009).
Quanto al dedotto vizio di motivazione, risulta del tutto mancante l’indicazione prevista dall’ultima parte dell’articolo 366 bis c.p.c., indicazione che, come sopra esposto, pur libera da rigidita’ formali, deve pur sempre individuare in maniera chiara ancorche’ sintetica il fatto (con esplicazione della relativa natura controversa e decisiva) in ordine al quale la motivazione si assume viziata, non potendo ritenersi in alcun modo idonei allo scopo gli interrogativi posti in calce al motivo in esame.
6. Dall’argomentare che precede discende la reiezione del ricorso.
In ottemperanza al disposto del primo comma dell’articolo 384 c.p.c., (nel testo risultante dalla modifica introdotta dal Decreto Legislativo n. 40 del 2006, applicabile ratione temporis), con riguardo alla questione di diritto decisa col primo motivo di ricorso, si enuncia il seguente principio di diritto: “La modificazione della domanda ammessa a norma dell’articolo 183 c.p.c., puo’ riguardare anche uno o entrambi gli elementi identificativi della medesima sul piano oggettivo (petitum e causa petendi), sempre che la domanda cosi’ modificata risulti in ogni caso connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, e senza che per cio’ solo si determini la compromissione delle potenzialita’ difensive della controparte ovvero l’allungamento dei tempi processuali. Ne consegue che deve ritenersi ammissibile la modifica, nella memoria all’uopo prevista dall’articolo 183 c.p.c., della iniziale domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto in domanda di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo”.
I contrasti e le dissonanze riscontrati nella giurisprudenza di legittimita’ in ordine alla questione di diritto esaminata nonche’ la complessita’ delle questioni trattate giustificano l’integrale compensazione tra le parti delle spese processuali.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
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