Corte di Cassazione, sezione unite, sentenza 17 luglio 2014, n. 16379. La convivenza coniugale che si sia protratta per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio concordatario, crea una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali e ordinarie di ordine pubblico italiano, che sono fonti di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità, anche genitoriali, e di aspettative legittime tra i componenti della famiglia. Pertanto, non può essere dichiarata efficace nella Repubblica Italiana la sentenza definitiva di nullità di matrimonio pronunciata dal Tribunale ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico per contrarietà all’ordine pubblico interno italiano. La relativa eccezione deve però essere sollevata dalla parte nel giudizio di delibazione a pena di decadenza.
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente Sezione –
Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione –
Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –
Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –
Dott. DI PALMA Salvatore – rel. Consigliere –
Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –
Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –
Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 12658/2011 proposto da:
T.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI RIPETTA 258, presso lo studio dell’avvocato DEL FAVERO LUCA, rappresentato e difeso dall’avvocato BRUNO ROCCO, per delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
F.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FONTANELLA BORGHESE 72, presso lo studio dell’avvocato VOLTAGGIO PAOLO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati ELISABETTA FRACCALANZA, BARTONE NICOLA, per delega in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 58/2011 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 11/01/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/12/2013 dal Consigliere Dott. SALVATORE DI PALMA;
uditi gli avvocati Rocco BRUNO, Nicola BARTONE, Elisabetta FRACCALANZA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso con eventuale enunciazione del principio di diritto ex art. 363 c.p.c., o rigetto.
Svolgimento del processo
1. – Con citazione del 29 gennaio 2010, F.F. convenne dinanzi alla Corte d’Appello di Venezia T.D., esponendo che: 1) aveva contratto matrimonio concordatario con il T. il (OMISSIS); 2) il matrimonio era stato dichiarato nullo dal Tribunale ecclesiastico regionale Triveneto – “per esclusione della indissolubilità del vincolo da parte della donna” – con sentenza del 22 gennaio 2009, confermata con decreto del Tribunale ecclesiastico regionale Lombardo di appello del 3 settembre 2009 e resa esecutiva con decreto del Supremo Tribunale della Segnatura apostolica del 9 dicembre 2009.
Tanto esposto, la F. chiese che la Corte d’Appello adita dichiarasse l’efficacia di detta sentenza canonica nella Repubblica Italiana.
Costituitosi, il T. si oppose alla domanda, deducendo in particolare che l’accertata esclusione unilaterale dell’indissolubilità del matrimonio da parte della moglie non gli era stata mai resa nota.
La Corte di Venezia, con sentenza dell’11 gennaio 2011, ha dichiarato l’efficacia nella Repubblica Italiana della predetta sentenza canonica, affermando, tra l’altro e in particolare, che:
a) tale sentenza canonica non contiene disposizioni contrarie all’ordine pubblico interno, in quanto l’esclusione dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale da parte della F. era stata “manifestata, secondo i giudici ecclesiastici, anche a terzi, in particolare al padre, alla madre, al fratello e all’amica M.M. e percepita dallo zio del convenuto, don P.G., secondo cui “in occasione dei colloqui in preparazione del matrimonio lei si dichiarò alea e si limitò ad una accettazione solo formale degli impegni del matrimonio”, perciò ragionevolmente conosciuta anche dal convenuto, attesa l’abitualità della esternazione da parte dell’attrice anche fuori dal contesto familiare”;
b) questa conclusione di merito, circa l’affermata conoscenza da parte del T. – della esclusione, da parte della moglie, dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale, è conforme all’orientamento della Corte di cassazione sull’ammissibilità della delibazione nei casi in cui l’esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii sia conosciuta, o conoscibile secondo l’ordinaria diligenza, da parte dell’altro coniuge (vengono richiamate le sentenze nn. 1822 del 2005 e 6128 del 1985).
2. – Avverso tale sentenza T.D. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi di censura.
Ha resistito, con controricorso illustrato da memoria, F. F..
3. – Assegnato il ricorso alla Prima Sezione, questa, con ordinanza interlocutoria n. 712/2013 del 14 gennaio 2013, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione dello stesso ricorso alle Sezioni Unite, in relazione al primo motivo, con il quale il ricorrente ha dedotto la contrarietà all’ordine pubblico interno degli effetti della predetta sentenza canonica, ciò in ragione del rilievo che la convivenza matrimoniale aveva avuto una durata di molti anni successivamente alla celebrazione del matrimonio ed era stata accompagnata dalla nascita di una figlia, e che una convivenza siffatta integra un principio di ordine pubblico ostativo alla delibazione, secondo l’orientamento espresso dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 1343 del 2011.
Al riguardo ed in particolare, la citata ordinanza interlocutoria ha, tra l’altro, testualmente osservato quanto segue:
“(…) La tematica introdotta dalle riferite opposte tesi difensive, non ancora contrastanti all’epoca della decisione assunta dalla Corte d’appello di Venezia, che ha dichiarato l’efficacia nel territorio dello Stato della sentenza di nullità pronunciata dal giudice ecclesiastico trascurando la disamina circa la portata ostativa ovvero l’irrilevanza della durata decennale del matrimonio celebrato tra le parti in causa ed allietato anche dalla nascita di una figlia, registra il riferito contrasto tra l’enunciato invocato dal ricorrente, espresso con la sentenza n. 1343/2011, ed il successivo recente arresto n. 8926 del 2012, evocato dalla controparte, palesemente espressivi di antitetica opzione esegetica. Afferma la sentenza n. 1343/2011 che la prolungata convivenza tra i coniugi rappresenta condizione ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario laddove si sia tradotta in un rapporto corrispondente alla durata del matrimonio o comunque ad un periodo di tempo considerevole dopo la celebrazione del matrimonio e la scadenza del termine per l’impugnativa del matrimonio-atto, in quanto siffatta situazione esprime la volontà di accettazione del rapporto proseguito, confliggente con l’esercizio della facoltà di rimetterlo in discussione adducendo, per quel che rileva in questa sede, riserva mentale risalente al tempo delle nozze, cioè un vizio del matrimonio – atto non più azionabile dopo la scadenza dei termini per l’impugnativa, e concretante incompatibilità ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario. La costruzione esegetica, che assume a dato dirimente la durata del matrimonio intesa quale convivenza prolungata dei coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio, richiamando espressamente l’arresto delle S.U. n. 19809 del 18 luglio 2008, rileva che l’ordine pubblico interno matrimoniale manifesta il “favor” per la validità del matrimonio, quale fonte del rapporto familiare incidente sulla persona e oggetto di rilievo e tutela costituzionali (Cass. S.U. 2008/19809) e, per l’effetto, nella cornice sistematica regolata secondo i dettami dell’art. 29 Cost., e della riforma del diritto di famiglia, attribuisce rilievo preminente al matrimonio – rapporto fondato sull’unione coniugale, a sua volta fondante il rapporto familiare. Le ragioni che, attenendo alla coscienza dei nubendi, rilevano per la legge canonica, non necessariamente concretano cause invalidanti del matrimonio per l’ordinamento civile e, pur se ravvisabili, restano sanate dal protrarsi del rapporto che ne è seguito. A questo orientamento si è sostanzialmente uniformata la sentenza n. 9844/2012 in un caso in cui la sentenza del tribunale ecclesiastico aveva dichiarato la nullità del matrimonio concordatario per difetto di consenso, assumendo tale vizio psichico a condizione d’inettitudine del soggetto ad intendere i diritti ed i doveri del matrimonio al momento della manifestazione del consenso, sostanzialmente conforme all’ipotesi di invalidità contemplata dall’art. 120 c.c., sostenendo all’esito che la durata ventennale del matrimonio prospettata dalla ricorrente come impeditiva della delibazione, secondo il principio dettato da Cass. 2011 n. 1343, non rilevava nella specie, essendosi la medesima ricorrente limitata a porre in evidenza solo detto elemento temporale, e non l’effettiva convivenza dei coniugi nello stesso periodo, che in ogni caso avrebbe dovuto essere dedotta e provata in sede di delibazione. Anche Cass. 2012 n. 1780 ha aderito al richiamato arresto, con la distinzione concettuale ad esso sottesa tra matrimonio – atto e matrimonio – rapporto, pur escludendo nella specie l’instaurazione di un matrimonio – rapporto duraturo e radicato. Se ne è invece consapevolmente discostata la sentenza n. 8926 del 2012 che, in fattispecie in cui si era accertato il vizio simulatorio di uno degli sposi, ha escluso che la convivenza dei coniugi successiva alla celebrazione del matrimonio, che pur nella specie considerata si era protratta per oltre trent’anni, “esprima norme fondamentali che disciplinano l’istituto del matrimonio e, pertanto, non è ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico”. L’arresto si colloca espressamente nel solco tracciato dal precedente delle S.U. n. 4700/1988 che aveva risolto analogo contrasto affermando che “Con riguardo alla sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per esclusione unilaterale di uno dei “bona matrimonii”, manifestata all’altro coniuge, la delibazione, nella disciplina di cui alla L. 27 maggio 1929, n. 810, art. 1, e L. 27 maggio 1929, n. 847, art. 17, (nel testo risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 18 del 1982), deve ritenersi consentita anche se detta nullità sia stata dichiarata su domanda proposta dopo il decorso di un anno dalla celebrazione, ovvero dopo il verificarsi della convivenza dei coniugi successivamente alla celebrazione stessa, in difformità dalla disposizione dettata dall’art. 123 c.c., comma 2, in tema d’impugnazione del matrimonio per simulazione, atteso che la norma, pur avendo carattere imperativo, non configura espressione di principi e regole fondamentali con le quali la Costituzione e le leggi dello Stato delineano l’istituto del matrimonio, e che, pertanto, la indicata difformità non pone la pronuncia ecclesiastica in contrasto con l’ordine pubblico italiano”. E, a lume di questa esegesi, conclude assumendo che la convivenza, pur esprimendo l’effettiva comunione spirituale e materiale creatasi tra i coniugi nonostante il vizio genetico riscontrato dal giudice ecclesiastico, non comporta contrasto tra i due ordinamenti, quello canonico che regola la validità del matrimonio-atto e quello interno che, a dispetto del riscontrato difetto, opta per la stabilità del matrimonio – rapporto trascorso il tempo ritenuto congruo dal legislatore. Ed invero, prosegue nella motivazione la sentenza n. 8926/2012, “considerata la natura dei rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, disciplinati da accordi il cui valore, nell’ambito del principio di bilateralità, è consacrato nell’art. 7 Cost., comma 2, che fornisce copertura costituzionale anche agli accordi successivi ai Patti Lateranensi, ivi espressamente indicati”, e pur nel vigore della L. 25 marzo 1985, n. 121, che ha dato esecuzione all’accordo di modificazioni ed al protocollo addizionale del 18 febbraio 1984 tra la Santa Sede e l’Italia, restando attribuita in via esclusiva al tribunale ecclesiastico la cognizione sull’invalidità del matrimonio concordatario, siccome disciplinato nel suo momento genetico dalla legge canonica, la Corte d’appello, chiamata in sede di delibazione ad attribuirne efficacia nel nostro territorio, è tenuta a “trovare un punto di equilibrio” nelle non poche ipotesi di divergenza tra il diritto canonico e quello civile. Di qui “la necessità di delimitare il concetto di “ordine pubblico interno” circoscrivendolo al caso (cfr. S. U. n. 5026/1982) in cui si ravvisi una contrarietà ai canoni essenziali cui secondo l’ordinamento interno è improntata la struttura dell’istituto matrimoniale, tra i quali non si annovera l’instaurazione del “matrimonio – rapporto” e la stabilità ad esso attribuita dalla previsione dell’art. 123 c.c., comma 2.
Affermata dai plurimi arresti citati nella motivazione della sentenza riferita (Cass. 10 maggio 2006 n. 10796, 7 aprile 2000 n. 4387, 7 aprile 1997 n. 2002, 17 giugno 1990 n. 6552 e 17 ottobre 1989 n. 4166), la tesi ivi propugnata si colloca in una cornice interpretativa del tutto contrastante con quella fondante la sentenza n. 1343/2011 che ha inteso far riferimento alla nozione di ordine pubblico predicata dalla sentenza delle sezioni unite del 18 luglio 2008 n. 19809, che tuttavia, in un caso di nullità basata su un vizio del consenso scaturente dall’ignoranza dell’infedeltà prematrimoniale di uno dei coniugi, e “nell’ambito della delineata distinzione fra cause di incompatibilità assolute e relative (essendo soltanto le prime ostative alla delibazione in considerazione del favor al riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale ai sensi del citato Protocollo addizionale)”, ha concluso per l’irrilevanza nel giudizio di legittimità della convivenza come causa ostativa alla delibazione, in quanto la relativa eccezione non era stata esaminata nè prospettata in sede di merito”.
Tanto premesso ed osservato, la predetta ordinanza interlocutoria, ha così concluso:
“La composizione del rilevato contrasto ad avviso di questo collegio deve essere rimessa alle sezioni unite della Cassazione, cui s’intende sottoporre la definizione anche delle ulteriori questioni originate dalle riferite opzioni interpretative, allo stato irrisolte, secondo il seguente ordine logico: 1. – se la protrazione ultrannuale della convivenza rappresenti condizione integrante violazione dell’ordine pubblico interno e per l’effetto sia ostativa alla dichiarazione d’efficacia della sentenza di nullità del matrimonio pronunciata dal giudice ecclesiastico, ed in presenza di quali vizi del matrimonio – atto operi, in tesi, tale preclusione. In questa cornice, in particolare, se il limite dell’ordine pubblico si riferisca alla convivenza da intendersi quale coabitazione materiale, cui fanno riferimento gli artt. 120 e 122 c.c., in caso di vizi del consenso, ovvero sia “significativa di un’instaurata affectio familiae, nel naturale rispetto dei diritti ed obblighi reciproci, per l’appunto, come tra (veri) coniugi (art. 143 c.c.), tale da dimostrare l’instaurazione di un matrimonio – rapporto duraturo e radicato nonostante il vizio genetico del matrimonio – atto” (Cass. n. 1780/2012), dovendo in tal senso intendersi la locuzione “abbiano convissuto come coniugi” di cui all’art. 123 c.c., comma 2, in caso di simulazione. E, in logica consecuzione; 2. – se, in caso affermativo, il contrasto tra l’indicata condizione e l’ordine pubblico interno sia verificabile d’ufficio dalla Corte d’appello, versandosi in un caso d’impedimento assoluto alla riconoscibilità della sentenza ecclesiastica (in tal senso Cass. citata n. 1780 del 2012), dal momento che l’ordine pubblico esprime valori di natura indeclinabile ed è per l’effetto indisponibile, ovvero sia rilevabile solo su eccezione della parte che si oppone alla delibazione; 3. – se, ammessa la rilevabilità d’ufficio, rientri nei poteri della Corte d’appello, la cui indagine è astretta entro il limite del compendio istruttorio formatosi nel giudizio ecclesiastico, disporre l’acquisizione di ulteriori elementi di verifica; 4. – se l’incompatibilità in discorso, laddove si ritenga rilevabile d’ufficio, sia riscontrabile anche dalla Corte di Cassazione se emerge dagli atti (secondo quanto è avvenuto in sede di pronuncia n. 1343/2011) e sia dunque scrutinabile senza necessità d’ulteriore istruttoria.(…)”.
4. – Assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, la controricorrente ha depositato ulteriore memoria.
5. – All’esito dell’odierna udienza di discussione, il Procuratore generale ha concluso, in via principale, per l’inammissibilità del ricorso – previa eventuale enunciazione del principio di diritto ai sensi dell’art. 363 c.p.c., ovvero, in subordine, per il suo rigetto.
Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo (con cui deduce: “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto – art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla L. n. 121 del 1985, art. 8, all’art. 123 c.c., e all’art. 29 Cost.”), il ricorrente critica la sentenza impugnata, deducendo la contrarietà all’ordine pubblico interno degli effetti riconosciuti dalla Corte di Venezia alla pronuncia d’annullamento del matrimonio concordatario, seppur celebrato con la F. dieci anni prima, elevandone ad indici rivelatori la convivenza protratta per l’intera durata del rapporto matrimoniale e la nascita di una figlia. Lo stesso ricorrente richiama a sostegno della censura il principio enunciato nella sentenza di questa Corte n. 1343 del 2011, secondo cui l’ordine pubblico interno matrimoniale evidenzia un palese favor per la validità del matrimonio quale fonte del rapporto familiare che, ove si sia protratto per lungo periodo di tempo, osta alla delibazione della pronuncia canonica di nullità, che investe l’atto.
Con il secondo motivo (con cui deduce: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., – Omessa e/o insufficiente motivazione – art. 360 c.p.c., n. 5. Violazione dell’art. 116 c.p.c., – Omessa e/o erronea valutazione degli elementi di prova – art. 360 c.p.c., n. 3), il ricorrente critica ancora la sentenza impugnata, segnatamente sotto il profilo dei vizi di motivazione, deducendo che i Giudici a quibus, nel desumere la conoscenza, da parte dello stesso ricorrente, della esclusione della indissolubilità del vincolo matrimoniale esclusivamente dalla sentenza canonica e dalle deposizioni testimoniali degli stretti congiunti della moglie, ha erroneamente valutato le prove e, comunque, ha insufficientemente motivato al riguardo.
2. – La controricorrente, preliminarmente, eccepisce il difetto di autosufficienza del ricorso e, quindi, la sua inammissibilità, palesata dall’omessa specificazione degli elementi in cui si è concretata la vicenda fattuale; deduce altresì la sua infondatezza, fondandola sull’inapplicabilità del principio di cui alla sentenza n. 1343 del 2011, siccome enunciato in una fattispecie nella quale il giudice ecclesiastico aveva escluso il bonum prolis, diversa perciò dal caso – quale quello di specie – di esclusione del vincolo dell’indissolubilità del matrimonio accertata dal tribunale ecclesiastico, e richiama a sua volta, con la prima e con la seconda memoria difensiva, il principio affermato da questa Corte con la sentenza n. 8926 del 2012, con cui è stato escluso che la convivenza fra i coniugi rappresenti condizione ostativa alla delibazione della sentenza di nullità del matrimonio canonico, ribadendo così un principio consolidato, contrastato unicamente dalla più volte citata sentenza n. 1343 del 2011.
2.1. – L’eccezione di inammissibilità del ricorso, per mancanza di autosufficienza, è palesemente infondata, perchè – contrariamente a quanto dedotto dalla controricorrente – il ricorso contiene tutti gli elementi, di fatto, necessari per la comprensione della fattispecie, e di diritto, posti a base delle censure mosse alla sentenza impugnata, della quale, in particolare, si individua esattamente la ratio decidendi che viene censurata.
3. – Le Sezioni Unite sono chiamate, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, a pronunciarsi sul contrasto determinatosi, nell’ambito della Prima Sezione, tra – da un lato – le sentenze nn. 1343 del 2011, 1780 e 9844 del 2012 e – dall’altro – la sentenza n. 8926 del 2012 (che, peraltro, ribadisce il consolidato orientamento di queste Sezioni Unite, inaugurato con le note sentenze nn. 4700, 4701, 4702 e 4703 del 1988), contrasto i cui termini essenziali sono esattamente ed esaurientemente esposti nella su riprodotta ordinanza di rimessione (cfr., supra, Svolgimento del processo, n. 3.).
3.1. – Va premesso che la fattispecie sottostante al ricorso in esame – per quanto ora rileva ai fini della pronuncia sul denunciato contrasto, fatto salvo quanto successivamente si dirà in sede di esame nel merito del ricorso medesimo (cfr., infra, n. 5.) – sta in ciò, che il matrimonio “concordatario” de quo, celebrato in data (OMISSIS) e caratterizzato anche dalla nascita di una figlia nel (OMISSIS), è stato dichiarato nullo dal Tribunale ecclesiastico regionale Triveneto con sentenza del 22 gennaio 2009, confermata con decreto del Tribunale ecclesiastico regionale Lombardo di appello del 3 settembre 2009 e resa esecutiva con decreto del Supremo Tribunale della Segnatura apostolica del 9 dicembre 2009, “per esclusione della indissolubilità del vincolo da parte della donna”. Della pronuncia canonica di nullità di questo matrimonio – che ha avuto, dunque, dalla sua celebrazione a tale pronuncia canonica definitiva, una durata di undici anni e sei mesi circa – l’odierna controricorrente ha chiesto ed ottenuto la dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana da parte della Corte d’Appello di Venezia con la sentenza impugnata.
3.2. – Va premesso, altresì, che alcune incertezze emergenti sia dalla motivazione della sentenza impugnata sia dagli scritti difensivi delle parti – circa la disciplina applicabile a tale fattispecie: se, cioè, la L. 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell’Accordo, con Protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), e/o la L. 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), nonchè circa la sussistenza o no della giurisdizione italiana a conoscere la fattispecie medesima – inducono il Collegio a chiarire, in limine, il quadro normativo di riferimento e gli orientamenti giurisprudenziali rilevanti per il superamento di tali incertezze, ribadendo peraltro, con alcune precisazioni ed integrazioni, principi già più volte espressi, esplicitamente od implicitamente, da questa Corte.
3.2.1. – Quanto alla disciplina legislativa applicabile dal Giudice italiano alla materia della delibazione delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio, non v’è alcun dubbio che tale materia è regolata esclusivamente dai menzionati Accordo e Protocollo addizionale del 18 febbraio 1984, resi esecutivi dalla legge n. 121 del 1985: in particolare dall’art. 8, paragrafo 2, dell’Accordo e dal punto 4 del Protocollo, nonchè dalle disposizioni della legge italiana cui essi rinviano, specificamente (rinvio “materiale” agli artt. 796 e 797 c.p.c., del 1940, di cui al punto 4, lett. b, del Protocollo) o genericamente (come fanno, ad esempio, l’art. 8, paragrafo 2, lett. b e c, dell’Accordo, e il punto 4, lett. b, n. 1, del Protocollo).
Nè potrebbe essere diversamente: sia perchè la stessa L. n. 218 del 1995, nell’art. 2, comma 1, stabilisce, conformemente ai principi del rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (art. 117 Cost., comma 1) e di specialità, che “Le disposizioni della presente legge non pregiudicano l’applicazione delle convenzioni internazionali in vigore per l’Italia”, sia, e soprattutto, perchè la nuova disciplina convenzionale (anche) della materia matrimoniale, originariamente dettata dall’art. 34 del citato Concordato del 1929 – essendo già compresa nell’oggetto dei Patti Lateranensì, costituendo quindi attuazione del “principio concordatario”, costituzionalizzato dall’art. 7 Cost., comma 2, ed esigendo perciò il rispetto dell’impegno alle modificazioni dei Patti sulla base di intese bilaterali (si vedano anche gli artt. 13, paragrafo 2, e 14 dell’Accordo), salva la possibilità di promozione del procedimento di revisione costituzionale, di cui all’art. 138 Cost., per l’eventuale modificazione unilaterale dei Patti, trova nell’Accordo e nel Protocollo addizionale del 1984, resi esecutivi appunto con la legge formale ordinaria n. 121 del 1985, la sua fonte esclusiva (cfr.
al riguardo, ex plurimis, la sentenza di queste Sezioni Unite n. 1824 del 1993, nonchè le sentenze nn. 8764 del 2003 e 24990 del 2010).
A conferma di ciò, del resto, possono menzionarsi, non soltanto l’art. 82 c.c., – successivo alla stipulazione dei Patti Lateranensi, ma anche: a) da un lato, il Regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il Regolamento (CE) n. 1347/2000, il quale, in deroga alla disciplina dettata in materia di riconoscimento (anche) delle decisioni di divorzio, di separazione personale o di annullamento di matrimonio (art. 22 che, alla lettera a, impedisce il riconoscimento, fra l’altro, se esso “è manifestamente contrario all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto”), fa esplicitamente salva l’applicazione del Concordato lateranense, come modificato dall’Accordo del 1984, al riconoscimento delle decisioni relative all’invalidità di un matrimonio (art. 63, paragrafo 3, lett. a); b) dall’altro, la sentenza n. 421 del 1993 della Corte costituzionale che – investita della questione di legittimità costituzionale della L. 27 maggio 1929, n. 810, art. 1, (Esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi e del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la Santa Sede e l’Italia, l’11 febbraio 1929), nella parte in cui da esecuzione all’art. 34, comma 4, del Concordato fra la Santa Sede e lo Stato italiano dell’11 febbraio 1929, sollevata in riferimento all’art. 7 Cost., comma 1, nel dichiarare inammissibile la questione per difetto di rilevanza nel giudizio a quo della disposizione censurata, ha affermato che “le modificazioni del Concordato espresse dall’Accordo del 1984 disciplinano l’intera materia e impediscono, quindi, di fare ricorso a testi normativi precedenti” (n. 4 del Considerato in diritto).
Tuttavia, non essendo stata data ulteriore e specifica attuazione con legge formale ordinaria ai nuovi Accordi del 1984, residuano margini di incertezza – che in questa sede però non rilevano immediatamente – circa l’attuale vigenza di alcune norme della L. 27 maggio 1929, n. 847, (Disposizioni per l’applicazione del Concordato dell’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia, nella parte relativa al matrimonio), come emerge chiaramente dalle osservazioni al riguardo fatte dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 329 del 2001, che ha ritenuto attualmente in vigore l’art. 18 di tale legge (cfr. n. 3.1. del Considerato in diritto; cfr. anche, nel medesimo senso, ex plurimis, le sentenze nn. 399 del 2010 e 17094 del 2013).
3.2.2. – Quanto, poi, alla giurisdizione del Giudice italiano nelle materie della nullità civile del matrimonio concordatario e della delibazione delle sentenze canoniche di nullità di tale matrimonio, è sufficiente ribadire – in continuità con i condivisi costanti orientamenti delle Sezioni Unite di questa Corte, costituenti ormai “diritto vivente” (cfr., ex plurimis, la sentenza n. 1824 del 1993 e l’ordinanza n. 14839 del 2011) – che:
a) l’Accordo (ed il Protocollo addizionale) del 1984, pur confermando, anche se implicitamente, la giurisdizione ecclesiastica sulle controversie in materia di nullità del matrimonio celebrato secondo le norme del diritto canonico (art. 8, paragrafo 2, dell’Accordo e punto 4 del Protocollo), non “riserva” più tale giurisdizione ai “tribunali e (…) dicasieri ecclesiastici” (art. 34, comma 4, del Concordato lateranense del 1929), nè più “riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, effetti civili” (art. 34, primo paragrafo), tali “riserva” e “riconoscimento” dovendo ritenersi certamente abrogati in forza dell’art. 13, paragrafo 1, secondo periodo, dell’Accordo medesimo, secondo cui le disposizioni del Concordato lateranense “non riprodotte come, appunto, l’art. 34 nel presente testo sono abrogate”;
b) conseguentemente, sulle controversie aventi ad oggetto la nullità del matrimonio concordatario, regolarmente trascritto nei registri dello stato civile italiani, promosse dinanzi sia al giudice ecclesiastico sia al giudice civile, “concorrono” autonomamente la giurisdizione italiana e la giurisdizione ecclesiastica, determinandosi il rapporto tra l’una e l’altra in base al criterio della giurisdizione preventivamente adita;
c) a seguito: prima, nella vigenza dell’art. 34 del Concordato lateranense, della fondamentale sentenza della Corte costituzionale n. 18 del 1982 – che, tra l’altro, dichiarò l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 1 Cost., comma 2, art. 7 Cost., comma 1, e art. 24 Cost., comma 1, (anche) “della L. 27 maggio 1929, n. 810, art. 1 (…), limitatamente all’esecuzione data all’art. 34, comma 6, del Concordato, e della L. 27 maggio 1929, n. 847, art. 17, comma 2, (…), nella parte in cui le norme suddette non prevedono che alla Corte d’appello, all’atto di rendere esecutiva la sentenza del tribunale ecclesiastico, che pronuncia la nullità del matrimonio, spetta accertare che nel procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti, e che la sentenza medesima non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano”; nonchè della stessa L. n. 810 del 1929, art. 1, “limitatamente all’esecuzione data all’art. 34, commi 4, 5 e 6, del Concordato”, e la L. n. 847 del 1929, art. 17, “nella parte in cui le suddette norme prevedono che la Corte d’appello possa rendere esecutivo agli effetti civili il provvedimento ecclesiastico, col quale è accordata la dispensa dal matrimonio rato e non consumato, e ordinare l’annotazione nei registri dello stato civile a margine dell’atto di matrimonio”, e, poi, dell’entrata in vigore dell’Accordo e del Protocollo addizionale del 1984, non può più dubitarsi dell’attribuzione allo Stato italiano della piena ed effettiva giurisdizione, intesa quale indefettibile manifestazione della sua sovranità, in ordine al giudizio di delibazione delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio, ogni questione vertendo, semmai – come si vedrà più oltre, soltanto sui cosiddetti “limiti interni” all’esercizio di tale giurisdizione, secondo la legge italiana interpretata anche alla luce dell’Accordo di Villa Madama.
3.3. – Tanto premesso, la stessa ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite ha ben evidenziato che la principale questione di diritto, decisa in modo difforme dalle su menzionate sentenze della Prima Sezione, consiste nello stabilire: – se la sentenza canonica di nullità del matrimonio, pronunciata dal tribunale ecclesiastico, possa essere dichiarata efficace nella Repubblica italiana – oppure no, per violazione dell’ordine pubblico interno -, nel caso di convivenza tra i coniugi protrattasi per un certo periodo di tempo (che nell’ordinanza di rimessione viene individuato in un periodo superiore all’anno), e quali siano i vizi del “matrimonio – atto”, posti a base della pronunciata nullità canonica, eventualmente ostativi a detta dichiarazione d’efficacia; – se, in particolare, “il limite dell’ordine pubblico si riferisca alla convivenza da intendersi quale coabitazione materiale, cui fanno riferimento gli artt. 120 e 122 c.c., in caso di vizi del consenso, ovvero sia “significativa di un’instaurata affectio familiae, nel naturale rispetto dei diritti ed obblighi reciproci, per l’appunto, come tra (veri) coniugi (art. 143 c.c.), tale da dimostrare l’instaurazione di un matrimonio – rapporto duraturo e radicato nonostante il vizio genetico del matrimonio – atto” (Cass. n. 1780/2012), dovendo in tal senso intendersi la locuzione “abbiano convissuto come coniugi” di cui all’art. 123 c.c., comma 2, in caso di simulazione”.
3.3.1. – La corretta risposta a tali quesiti richiede la preliminare individuazione del quadro normativo di riferimento rilevante, costituito – come già affermato (cfr., supra, n. 3.2.1.) -, dalle pertinenti disposizioni dell’Accordo e del Protocollo addizionale del 1984, nonchè dalle norme di diritto interno ivi richiamate, ed inoltre da due fondamentali pronunce della Corte costituzionale le quali, ancorchè risalenti nel tempo, conservano intatto il loro valore ermeneutico quanto ai principi ivi affermati: le sentenze n. 18 del 1982 (già menzionata dianzi: cfr., supra, n. 3.2.2., lett. c) e n. 203 del 1989.
L’art. 8, dell’Accordo – dopo aver statuito, nel primo periodo del numero 1, che “Sono riconosciuti gli effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico, a condizione che l’atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni nella casa comunale” -, nel n. 2, lett. c), stabilisce: “2. Le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, che siano munite del decreto di esecutività del superiore organo ecclesiastico di controllo, sono, su domanda delle parti o di una di esse, dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con sentenza della corte d’appello competente, quando questa accerti:(…) c) che ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere”.
A sua volta, il Protocollo addizionale, in riferimento all’art. 8, n. 2, dell’Accordo, nel punto 4, alla lett. 6), precisa: “(…) ai fini dell’applicazione degli artt. 796 e 797 del codice italiano di procedura civile, si dovrà tener conto della specificità dell’ordinamento canonico dal quale è regolato il vincolo matrimoniale, che in esso ha avuto origine”. La stessa lett. b) del punto 4 prosegue, disponendo: “In particolare: 1) si dovrà tener conto che i richiami fatti dalla legge italiana alla legge del luogo in cui si è svolto il giudizio si intendono fatti al diritto canonico; 2) si considera sentenza passata in giudicato la sentenza che sia divenuta esecutiva secondo il diritto canonico; 3) si intende che in ogni caso non si procederà al riesame del merito”.
Infine, il richiamato art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, (cfr., supra, n. 3.2.1.) dispone(va): “La corte d’appello dichiara con sentenza l’efficacia nella Repubblica della sentenza straniera quando accerta:
(…) 7) che la sentenza non contiene disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano”.
Con la già citata sentenza n. 18 del 1982, la Corte costituzionale – nel dichiarare, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 1 Cost., comma 2, art. 7, comma 1, e art. 24 Cost., comma 1, “della L. 27 maggio 1929, n. 810, art. 1 (…), limitatamente all’esecuzione data all’art. 34, comma 6, del Concordato, e della L. 27 maggio 1929, n. 847, art. 17, comma 2, (…), nella parte in cui le norme suddette non prevedono che alla Corte d’appello, all’atto di rendere esecutiva la sentenza del tribunale ecclesiastico, che pronuncia la nullità del matrimonio, spetta accertare che nel procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti, e che la sentenza medesima non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano” – ha, tra l’altro, affermato:
a) “Le norme denunciate, interpretate come dianzi esposto nel senso, cioè, che la pronuncia di esecutività della corte d’appello sarebbe contraddistinta da una sorta di “automaticità”, incidono profondamente e radicalmente sui poteri che in via generale sono attribuiti al giudice, in correlazione con i prescritti accertamenti, allorchè sia chiamato a dichiarare l’efficacia nell’ordinamento dello Stato italiano di sentenze emesse in ordinamenti a questo estranei. Ed invero, nello speciale procedimento da esse disciplinato, la mutilazione e la vanificazione dei cennati poteri del giudice italiano, la preclusione di qualsiasi sindacato che esorbiti dall’accertamento della propria competenza e dalla semplice constatazione che la sentenza di nullità sia anche accompagnata dal decreto del tribunale della Segnatura apostolica e sia stata pronunciata nei confronti di matrimonio canonico trascritto agli effetti civili, degradano la funzione del procedimento stesso ad un controllo meramente formale. Così strutturato, nella sua concreta applicazione lo speciale procedimento di delibazione elude due fondamentali esigenze, che il giudice italiano nell’ordinario giudizio di delibazione è tenuto a soddisfare, prima di dischiudere ingresso nel nostro ordinamento a sentenze emanate da organi giurisdizionali ad esso estranei: l’effettivo controllo che nel procedimento, dal quale è scaturita la sentenza, siano stati rispettati gli elementi essenziali del diritto di agire e resistere a difesa dei propri diritti, e la tutela dell’ordine pubblico italiano onde impedire l’attuazione nel nostro ordinamento delle disposizioni contenute nella sentenza medesima, che siano adesso contrarie”;
b) “Sia l’una che l’altra esigenza si ricollegano e muovono da principi, ai quali si ispirano i parametri costituzionali invocati dai giudici a quibus. Il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti – strettamente connesso ed in parte coincidente con il diritto alla tutela giurisdizionale cui si è fatto dianzi riferimento -trova la sua base soprattutto nell’art. 24 Cost.. La inderogabile tutela dell’ordine pubblico, e cioè delle regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società, è imposta soprattutto a presidio della sovranità dello Stato, quale affermata nell’art. 1, comma 2, e ribadita nell’art. 7 Cost., comma 1. Entrambi questi principi vanno ascritti nel novero dei “principi supremi dell’ordinamento costituzionale”, e pertanto ad essi non possono opporre resistenza le denunciate norme, pur assistite dalla menzionata copertura costituzionale, nella parte in cui si pongono in contrasto con i principi medesimi: nella parte, cioè, in cui non dispongono che il giudice italiano, nello speciale procedimento da esse disciplinato, sia tenuto a quegli accertamenti, e sia all’uopo munito dei relativi poteri, volti ad assicurare il rispetto delle fondamentali esigenze dianzi indicate” (n. 5. del Considerato in diritto; cfr. anche l’ordinanza n. 138 del 1982).
Con la sentenza n. 203 del 1989, la stessa Corte costituzionale – chiamata a pronunciarsi, in riferimento agli artt. 2, 3 e 19 Cost., sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, n. 2, dell’Accordo e del punto 5, lett. b), numero 2, del Protocollo addizionale, nel dubbio che tali disposizioni causassero discriminazione in danno degli studenti non avvalenti si dell’insegnamento della religione cattolica, ove le stesse non potessero interpretarsi nel senso dell’insegnamento religioso come insegnamento meramente facoltativo -, dopo aver premesso che, nella materia in discussione, “gli artt. 3 e 19 vengono in evidenza come valori di libertà religiosa nella duplice specificazione di divieto:
a) che i cittadini siano discriminati per motivi di religione; b) che il pluralismo religioso limiti la libertà negativa di non professare alcuna religione”, ha affermato: “i valori richiamati concorrono, con altri (artt. 7, 8 e 20 Cost.), a strutturare il principio supremo della laicità dello Stato, che è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica. Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost., implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale. Il Protocollo addizionale alla L. n. 121 del 1985, di ratifica ed esecuzione dell’Accordo tra la Repubblica italiana e la Santa Sede esordisce, in riferimento all’art. 1, prescrivendo che “Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”, con chiara allusione all’art. 1 del Trattato del 1929 che stabiliva: “L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’art. 1 dello Statuto del regno del 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato”. La scelta confessionale dello Statuto albertino, ribadita nel Trattato lateranense del 1929, viene così anche formalmente abbandonata nel Protocollo addizionale all’Accordo del 1985, riaffermandosi anche in un rapporto bilaterale la qualità di Stato laico della Repubblica italiana” (nn. 3. e 4. del Considerato in diritto; cfr. anche, ex plurimis, la sentenza n. 334 del 1996, laddove la Corte ha, più in generale, affermato che la “distinzione dell'”ordine” delle questioni civili da quello dell’esperienza religiosa…. caratterizza nell’essenziale il fondamentale o “supremo” principio costituzionale di laicità o non confessionalità dello Stato (…e) significa che la religione e gli obblighi morali che ne derivano non possono essere imposti come mezzo al fine dello Stato”: n. 3.2. del Considerato in diritto; cfr. anche l’ordinanza di queste Sezioni Unite n. 14839 del 2011, cit.).
3.4. – Essendo questo ora delineato il quadro normativo di riferimento rilevante, deve osservarsi che, tra le molteplici ragioni che stanno al fondo del denunciato contrasto, v’è certamente quella fondata sulla tesi per cui, pur non potendosi negare la possibilità di distinguere e la stessa distinzione, sul piano giuridico, tra “matrimonio – atto” e “matrimonio – rapporto” – al secondo dei quali, peraltro, nessuno dubita debba essere ricondotta la situazione giuridica “convivenza tra i coniugi” o “come coniugi”, successiva alla celebrazione del “matrimonio – atto” -, se ne contestano tuttavia il fondamento costituzionale e legislativo e la correlativa tutela, con la conseguenza che detta situazione giuridica di “convivenza”, anche se protrattasi per un certo tempo dopo la celebrazione del matrimonio, non sarebbe idonea, di per sè, ad integrare una “norma” di ordine pubblico interno ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana della sentenza canonica di nullità del matrimonio. Tale questione è decisiva per la composizione del contrasto.
Al riguardo in particolare, con la già menzionata sentenza n. 4700 del 1988, queste Sezioni Unite hanno, tra l’altro, affermato che “(…) la convivenza fra i coniugi, intervenuta successivamente alla celebrazione del matrimonio, ostativa all’impugnazione del matrimonio civile ai sensi dell’art. 123 c.c., comma 2, seppure si pone come una norma imperativa interna, non costituisce espressione di principi o di regole fondamentali con le quali la Costituzione e le leggi dello Stato delineano l’istituto del matrimonio (…)”. E proprio tale affermazione è stata recentemente ribadita dalla su menzionata sentenza della Prima Sezione n. 8926 del 2012 – oggetto del contrasto (cfr., supra, n. 3.) -, laddove si riportano altri condivisi passi della stessa pronuncia delle Sezioni Unite: “Si afferma, quindi, anche all’esito di una disamina dei rapporti fra il giudizio di divorzio e quello relativo alla nullità matrimoniale, che “la limitata portata della convivenza come coniugi” e “l’inesistenza nelle norme costituzionali di un principio chiaramente evincibile circa la prevalenza del matrimonio – rapporto sul matrimonio – atto, anche se viziato”, impediscono la praticabilità di un’interpretazione adeguatrice, per la quale in ogni caso di matrimonio nullo per vizi del consenso l’impugnazione dell’atto sarebbe comunque impedita da detta convivenza come coniugi, che finirebbe col comportare “una sostanziale modifica dell’ordinamento”.
A tali orientamenti, peraltro, si erano già contrapposte queste stesse Sezioni Unite con la sentenza n. 19809 del 2008 (sia pure, incidentalmente, in una fattispecie particolare – diversa da quella del ricorso in esame – in cui è stata confermata la decisione della corte d’appello che aveva ritenuto non delibabile, per contrarietà assoluta con l’ordine pubblico, una sentenza canonica che, nella formazione della volontà dei nubendi, aveva dato rilievo all’errore soggettivo in cui era incorso un coniuge per dolo dell’altro, il quale aveva negato una relazione prematrimoniale con terze persone), laddove hanno affermato: “L’incidenza inderogabile, nel nostro diritto vivente, della forma e della “manifestazione” del consenso da un canto comporta la tipicità con l’oggettività e il carattere esterno delle cause che incidono sulla formazione di esso, perchè possa considerarsi viziata o mancante la volontà e d’altro canto giustificano lo speciale rilievo del “rapporto” coniugale, che, nato dall’atto, incide con la sua realizzazione tipica costituita dalla convivenza o coabitazione spesso per un certo periodo di tempo, come fatto convalidante la volontà espressa all’atto della celebrazione e ostativo, per l’ordine pubblico italiano, a far rilevare l’invalidità del consenso del matrimonio in sede giurisdizionale. La riforma del diritto di famiglia ha collegato al decorso di un tempo in genere maggiore di quello in precedenza ritenuto dalla legge ostativo all’annullamento, il rilievo del matrimonio rapporto, riconosciuto in precedenza ma assunto ora a valore cogente, per lo stretto nesso tra esso e il matrimonio atto, sancito nella Costituzione (art. 29)”(n. 3.1. della motivazione in diritto).
3.5. – La distinzione tra “matrimonio – atto” e “matrimonio – rapporto” e la situazione giuridica “convivenza tra i coniugi” o “come coniugi”, da ricondurre senza dubbio alcuno al “matrimonio – rapporto”, hanno, ad avviso del Collegio – contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza di queste Sezioni Unite n. 4700 del 1988 e dalle successive conformi pronunce -, un nitido e solido fondamento nella Costituzione, nelle Carte Europee dei diritti e nella legislazione italiana. Fondamento che, peraltro, ha radici in dati di immediata esperienza umana e giuridica universale.
Infatti, già l’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 10 dicembre 1948, ed espressamente richiamata nei preamboli sia della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia dalla L. 4 agosto 1955, n. 848, sia del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia dalla L. 25 ottobre 1977, n. 881) – dopo aver affermato che “Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione” – stabilisce che “Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto del suo scioglimento” (paragrafo 1), precisando altresì che “Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi” (paragrafo 2). Dalla piana lettura di queste disposizioni emerge chiaramente non solo la più volte richiamata distinzione tra “matrimonio – atto” (cui si riferiscono il paragrafo 2 e l’espressione “riguardo al matrimonio” del paragrafo 1) e “matrimonio – rapporto” (cui si riferisce l’espressione “durante il matrimonio” dello stesso paragrafo 1), ma anche l’autonoma valorizzazione del rapporto matrimoniale sotto il profilo dell’eguaglianza dei diritti dei coniugi.
Ancora più precisamente dispone l’art. 23, paragrafo 4, del citato Patto internazionale sui diritti civili e politici – secondo il quale “Gli Stati parti del presente Patto devono prendere misure idonee a garantire la parità di diritti e di responsabilità dei coniugi riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e al momento del suo scioglimento. In caso di scioglimento deve essere assicurata ai figli la protezione necessaria” -, laddove pone opportunamente l’accento, “durante il matrimonio” e “al momento del suo scioglimento”, sulle “responsabilità” dei coniugi nei rapporti reciproci e verso i figli.
Analoghe disposizioni sono dettate anche dall’art. 5, primo periodo, del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, concernente l’estensione della lista dei diritti civili e politici, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984 e reso esecutivo dalla L. 9 aprile 1990, n. 98, secondo il quale “I coniugi godranno dell’uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civilistico tra loro e nelle loro relazioni con i loro figli, in caso di matrimonio, durante il matrimonio e dopo la fine del matrimonio stesso”.
La nostra Costituzione distingue nitidamente il “matrimonio – atto” – cui senza dubbio si riferisce l’art. 29, comma 1, laddove stabilisce che la Repubblica riconosce i diritti della famiglia “fondata sul matrimonio” – dal “matrimonio – rapporto”, cui certamente si riferiscono sia lo stesso l’art. 29, comma 1, laddove definisce la famiglia con l’espressione fortemente evocativa “società naturale”, sia il secondo comma dello stesso art. 29, laddove “Il matrimonio (…) ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi” evoca chiaramente lo svolgimento del rapporto e della vita matrimoniali, sia infine l’art. 30, comma 1, nella parte in cui fissa le principali responsabilità genitoriali nei confronti dei figli, e 31, comma 1, laddove stabilisce che “La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi (…)”.
La stessa distinzione emerge in modo chiarissimo anche da molteplici disposizioni del Codice civile e di leggi ordinarie, fra le quali è centrale l’art. 143 c.c., (nel testo sostituito dalla L. 19 maggio 1975, art. 24, sulla riforma del diritto di famiglia) che, nel primo comma (“Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gi stessi diritti e assumono i medesimi doveri”), si riferisce certamente al “matrimonio – atto” come “fonte” di eguali diritti e doveri dei coniugi, mentre, nel secondo (“Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione”) e nel terzo comma (“Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”), il riferimento è sicuramente al “matrimonio – rapporto”, cioè allo svolgimento del rapporto coniugale e della “vita familiare” (art. 144 c.c.) in tutte le sue dimensioni, morali e materiali, rilevanti sul piano giuridico. Ciò, senza dimenticare i “doveri verso i figli” imposti ad entrambi i coniugi dall’art. 147 c.c., (nel testo sostituito dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 3), secondo cui “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare ed assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’art. 315 – bis inserito dalla L. 10 dicembre 2012, n. 219 art. 1, comma 8” dove, ancora una volta, il riferimento è sicuramente al “matrimonio – rapporto”, allorquando sia caratterizzato dalla generazione di figli e dalle relative responsabilità genitoriali.
E’ indispensabile sottolineare, poi, che le menzionate disposizioni, costituzionali ed ordinarie, sul “matrimonio – rapporto” debbono essere correttamente interpretate in conformità con i principi fondamentali affermati dall’art. 2 Cost.: “La Costituzione non giustifica una concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti (…). E proprio da tale ultima disposizione l’art. 2 Cost., appunto, conformemente a quello che è stato definito il principio personalistico che essa proclama, risulta che il valore delle “formazioni sociali”, tra le quali eminentemente la famiglia, è nel fine a esse assegnato, di permettere e anzi promuovere lo svolgimento della personalità degli esseri umani” (così la Corte costituzionale nella sentenza n. 494 del 2002, n. 6.1. del Considerato in diritto). Del resto, il richiamo di tali principi fondamentali è comune alle menzionate sentenze della Prima Sezione (nn. 1343 del 2011 e 9844 del 2012) che si contrappongono all’orientamento seguito dalle sentenze delle Sezioni Unite n. 4700 del 1988 e della Prima Sezione n. 8926 del 2012.
Questo quadro normativo di base mostra in modo molto chiaro non soltanto che la distinzione tra “matrimonio – atto” e “matrimonio – rapporto” – diversamente da quanto ritenuto dall’orientamento espresso con la citata sentenza delle Sezioni Unite n. 4700 del 1988 e dalle successive sentenze che l’hanno ribadito – ha nitido e solido fondamento costituzionale e legislativo, ma anche che la relazione tra il matrimonio come “atto” ed il matrimonio come “rapporto” deve porsi in termini non già di “prevalenza” (cfr. la sentenza n. 8926 del 2012 cit.), cioè di pretesa superiorità assiologica, dell’uno rispetto all’altro (che sembra alludere in qualche modo alla natura “sacramentale” del matrimonio cattolico), bensì di distinzione appunto: nel senso, cioè, che questi due aspetti, o dimensioni, dell’istituto giuridico “matrimonio” hanno ragioni, disciplina e tutela distinte – come del resto emerge dalla stessa sistematica del Codice civile (rispettivamente, Capi III e IV del medesimo Titolo VI del Libro I) – e devono, quindi, essere distintamente considerati, anche – ed è ciò che specificamente rileva in questa sede – per l’individuazione dei principi e delle regole fondamentali che, connotando nell’essenziale ciascuno di essi, sono astrattamente idonei ad integrare norme di ordine pubblico interno che, come tali, possono essere ostative anche alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio concordatario.
In definitiva, il “matrimonio – rapporto”, il quale ha certamente origine nel “matrimonio – atto”, può ritenersi un’espressione sintetica comprensiva di molteplici aspetti e dimensioni dello svolgimento della vita matrimoniale e familiare – che si traducono, sul piano rilevante per il diritto, in diritti, doveri, responsabilità, caratterizzandosi così, secondo il paradigma dell’art. 2 Cost., come il “contenitore”, per così dire, di una pluralità di “diritti inviolabili”, di “doveri inderogabili”, di “responsabilità”, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti dei componenti della famiglia, sia come individui sia nelle relazioni reciprochi.
3.6. – E un elemento essenziale del “matrimonio – rapporto” è certamente costituito dalla “convivenza” dei coniugi o “come coniugi” che, nell’attuale specifico significato giuridico di tale espressione, connota il rapporto matrimoniale in modo determinante.
Per intendere l’attuale significato giuridico della nozione di “convivenza” dei coniugi, non è certo risolutiva la sola disciplina dettata dal codice civile. In questo coesistono, infatti, espressioni che fanno riferimento sia alla “coabitazione” dei coniugi (cfr., ad esempio, l’art. 143, comma 2, art. 119, comma 2, art. 120, comma 2) – termine, di natura sicuramente tralatizia presente fin dal codice civile del 1865, che, letteralmente inteso, rimanda al fatto di abitare insieme nella stessa casa familiare – sia alla “convivenza” degli stessi (cfr., ad esempio, l’art. 120, comma 2, art. 151 comma 1, art. 232, comma 2).
Quanto all’espressione “coabitazione” in particolare, se si tiene conto del diritto di ciascuno dei coniugi, in forza dell’art. 45 c.c., comma 1, di stabilire il proprio domicilio nel luogo corrispondente alla sede principale dei propri affari o interessi – luogo che può anche non coincidere, per i motivi più vari (come, ad esempio, per inderogabili esigenze di lavoro), con quello ove è stata stabilita la “residenza della famiglia” (art. 144 e art. 146, commi 1 e 2) -, non può sicuramente escludersi il diritto dei coniugi di concordare liberamente forme non tradizionali di rapporto matrimoniale – non caratterizzate, cioè, (anche) dalla mera “coabitazione”, letteralmente intesa -, dalle quali sia tuttavia possibile inferire, secondo le concrete circostanze, una effettiva convivenza degli stessi (cfr. la significativa affermazione della Corte EDU, Grande Camera, sentenza 7 novembre 2013, Vallianatos ed altri contro Grecia, n. 84, secondo cui “non vi è solo un modo o una scelta per condurre la propria vita familiare o privata”, garantite dall’art. 8, paragrafo 1, della CEDU).
Per individuare più precisamente il significato e i contenuti attuali della nozione di “convivenza” – da preferire rispetto a quella di “coartazione”, per la sua indiscutibile, maggiore comprensività semantica -, è allora indispensabile fare riferimento innanzitutto alla Costituzione, ed anche alle carte Europee dei diritti che, com’è noto, vincolano, sia pure con diversa intensità, l’interprete: in particolare, all’art. 8, paragrafo 1, della CEDU – secondo cui “Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare(…)” – ed all’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, secondo cui “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare(…)” (cosiddetta “Carta di Nizza” che, com’è noto, “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”: art. 6, paragrafo 1, TUE).
La Corte costituzionale ha già da tempo affermato che “la garanzia della “convivenza del nucleo familiare” si radica “nelle norme costituzionali che assicurano protezione alla famiglia e in particolare, nell’ambito di questa, ai figli minori””, e che “”il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, e perciò di tenerli con sè, e il diritto dei genitori e dei figli minori ad una vita comune nel segno dell’unità della famiglia, sono(…) diritti fondamentali della persona” (cfr. le sentenze n. 28 del 1995, n. 4. del Considerato in diritto, n. 203 del 1997, n. 4.
del Considerato in diritto, n. 376 del 2000, n. 6. del Considerato in diritto).
E più recentemente – ma nella medesima prospettiva – il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di norme che arrecano “un irragionevole pregiudizio ai rapporti familiari, che dovrebbero ricevere una protezione privilegiata ai sensi degli artt. 29, 30 e 31 Cost., e che la Repubblica è vincolata a sostenere, anche con specifiche agevolazioni e provvidenze, in base alle suddette previsioni costituzionali” (così, la sentenza n. 202 del 2013, n. 4.4. del Considerato in diritto). In questa stessa sentenza – con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 2, 3, 29, 30 e 31, nonchè dell’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 8 della CBDU, “del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 5, (…), nella parte in cui prevede che la valutazione discrezionale in esso stabilita si applichi solo allo straniero che “ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare” o al “familiare ricongiunto”, e non anche allo straniero “che abbia legami familiari nel territorio dello Stato”” -, la Corte ha istituito un raffronto (come, del resto, già fatto in generale altre volte: cfr., ex plurimis, la sentenza n. 264 del 2012, nn. da 4. a 4.2. del Considerato in diritto) tra la tutela garantita dalle su menzionate norme della Costituzione e quella garantita dall’art. 8, paragrafo 1, della CEDU e dall’art. 7 della Carta di Nizza. In particolare, la Corte – nel rammentare che “La Corte di Strasburgo ha (…) sempre affermato (ex plurimis pronuncia 7 aprile 2009, Cherif e altri c. Italia) (…) che, quando nel Paese dove lo straniero intende soggiornare vivono i membri stretti della sua famiglia, occorre bilanciare in modo proporzionato il diritto alla vita familiare del ricorrente e dei suoi congiunti con il bene giuridico della pubblica sicurezza e con l’esigenza di prevenire minacce all’ordine pubblico, ex art. 8, paragrafo 1, della CEDU”, e che “La ragionevolezza e la proporzione del bilanciamento richiesto dall’ari 8 della CEDU implicano, secondo la Corte Europea, (…) la possibilità di valutare una serie di elementi desumibili dall’attenta osservazione in concreto di ciascun caso, quali, ad esempio, (…) la situazione familiare del ricorrente, e segnatamente, all’occorrenza, la durata del suo matrimonio ed altri fattori che testimonino l’effettività di una vita familiare in seno alla coppia” – ha affermato che “Una simile attenzione alla situazione concreta dello straniero e dei suoi congiunti, garantita dall’art. 8 della CEDU, come applicato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, esprime un livello di tutela dei rapporti familiari equivalente, per guanto rileva nel caso in esame, alla prolezione accordata alla famiglia nel nostro ordinamento costituzionale” (n. 5. del Considerato in diritto).
Sotto altri profili e in fattispecie diverse, la stessa Corte costituzionale ha comunque osservato che “(…) l’istituto del matrimonio civile, come previsto nel vigente ordinamento italiano, si riferisce soltanto all’unione stabile tra un uomo e una donna(…)”, e che peraltro nella nozione di “formazione sociale”, di cui all’art. 2 Cost., “è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso” (sentenza n. 138 del 2010, nn. 6. e 8. del Considerato in diritto; si veda anche la recente sentenza n. 170 del 2014, nn. 5.5. e 5.6. del Considerato in diritto).
A sua volta, la Corte EDU ha, innanzitutto, affermato più volte che:
a) “se l’art. 8 ha essenzialmente per oggetto la tutela dell’individuo dalle ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, esso non si limita ad ordinare allo Stato di astenersi da tali ingerenze;
a tale obbligo negativo possono aggiungersi obblighi positivi attinenti ad un effettivo rispetto della vita privata o familiare (i quali) possono implicare l’adozione di misure finalizzate al rispetto della vita familiare, incluse le relazioni reciproche fra individui, e la predisposizione di strumenti giuridici adeguati e sufficienti ad assicurare i legittimi diritti degli interessati, nonchè il rispetto delle decisioni giudiziarie ovvero di misure specifiche appropriate” (cfr., ex plurimis, la sentenza, Seconda Sezione, 29 gennaio 2013, Lombardo contro Italia, n. 80, e la sentenza della Grande Camera 3 novembre 2011, S. H. ed altri contro Austria, n. 87); b) “la nozione di famiglia in base a questa disposizione l’art. 8 non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio e può comprendere altri legami “familiari” di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo del matrimonio…” con una “stabile relazione di fatto” idonea ad instaurare una “relazione durevole” fra i conviventi (cfr., ex plurimis, la sentenza della Grande Camera 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria, n. 91 e segg.); c) “la questione dell’esistenza o dell’assenza di una “vita familiare” è anzitutto una questione di fatto, che dipende dall’esistenza di legami personali stretti” (cfr., ex plurimis, la sentenza 27 aprile 2010 Moretti e Benedetti contro Italia, n. 44).
Quanto, in particolare, alla coppia sposata, “(…) l’expression “vie familiale” implique normalement la cohabitation, L’article 12 (della CEDU, che garantisce “il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia” le confirme car le droit de fonder une famille ne se concoit guere sans celui de vivre ensemble” (Grande Camera, sentenza 28 maggio 1985, Abdulaziz, Cabales et Balkandali contro Regno Unito, n. 62), anche se – come già sottolineato – “non vi è solo un modo o una scelta per condurre la propria vita familiare o privata” garantite dall’art. 8, paragrafo 1, della CEDU (cfr. la già citata sentenza della Grande Camera 7 novembre 2013, Vallianatos ed altri contro Grecia, n. 84).
Infine, occorre sottolineare che, secondo il suo consolidato orientamento, la Corte di giustizia dell’Unione Europea afferma che “l’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (…), relativo al diritto al rispetto alla vita privata e familiare, contiene diritti corrispondenti a quelli garantiti dall’art. 8, n. 1, della CEDU e che pertanto occorre attribuire all’art. 7 della Carta lo stesso significato e la stessa portata attribuiti all’art. 8, n. 1, della CEDU, nell’interpretazione datane dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo” (così, ex plurimis e fra le ultime, la sentenza della Grande Sezione 15 novembre 2011, causa C- 256/11).
Dall’analisi della richiamata giurisprudenza emerge, quindi, che la Corte EDU individua come “vita familiare”, garantita dall’art. 8, paragrafo 1, della CEDU, quella connotata – nell’ambito del, o fuori dal, matrimonio – da una coabitazione o da una convivenza (nozioni che, in tale giurisprudenza, che peraltro utilizza in prevalenza la seconda espressione, tendono sostanzialmente a coincidere) “stabili” e comunque “non transitorie”, o da rapporti affettivi “significativi e duraturi” (i menzionati “legami personali stretti” o “legami familiari”), o ancora dalla presenza di figli concepiti secondo un “progetto procreativo comune”.
Resta così confermato, anche alla luce delle significative convergenze della giurisprudenza costituzionale, della Corte EDU e della Corte di giustizia UE’, che la “convivenza” – e, dunque, non la sola e mera “coabitazione” – dei coniugi o “come coniugi” – cioè, la consuetudine di vita comune, il “vivere insieme” stabilmente e con continuità nel corso del tempo o per un tempo significativo tale da costituire “legami familiari”, nei sensi dianzi specificati – integra un aspetto essenziale e costitutivo del “matrimonio – rapporto”, caratterizzandosi al pari di questo, secondo il paradigma dell’art. 2 Cost., come manifestazione di una pluralità di “diritti inviolabili”, di “doveri inderogabili”, di “responsabilità” anche genitoriali in presenza di figli, di “aspettative legittime” e di “legittimi affidamenti” degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari. Essa perciò – ribadendo al riguardo, con la Corte costituzionale (cfr., supra, n. 3.3.1., la sentenza n. 18 del 1982), che “La inderogabile tutela dell’ordine pubblico…. è imposta soprattutto a presidio della sovranità dello Stato, quale affermata nel comma secondo dell’ari.
1, e ribadita nell’art. 7 Cost., art. 5, comma 5″, e che le norme d’ordine pubblico si individuano nelle “regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società” – connota nell’essenziale, al pari di altri aspetti o dimensioni del “matrimonio – rapporto” che qui non rilevano, lo stesso istituto matrimoniale delineato dalla Costituzione e dalle leggi che lo disciplinano ed è quindi costitutiva di una situazione giuridica che, in quanto regolata da disposizioni costituzionali, convenzionali ed ordinarie, è perciò tutelata da norme di “ordine pubblico italiano”, secondo il disposto di cui all’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7.
3.7. – Proprio in ragione di queste stesse caratteristiche, la nozione di “convivenza coniugale” richiede tuttavia – ai fini che in questa sede rilevano – un’ulteriore, duplice specificazione per la sua corretta individuazione sul piano giuridico. Tali specificazioni riguardano: l'”esteriorità” – o, più precisamente, la sua “riconoscibilità esteriore” – e la determinazione, secondo ragionevolezza, del periodo di tempo necessario perchè essa possa qualificarsi “stabile”.
3.7.1. – Quanto alla prima specificazione, concernente l'”esteriorità” della convivenza coniugale, è sufficiente osservare – rilevando sul piano giuridico, quantomeno in linea generale e tendenziale, fatti e comportamenti, e restando invece irrilevanti tutti gli aspetti del cosiddetto “foro interno” (cfr., ad esempio, la fattispecie di cui all’art. 237 c.c., nel testo modificato dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 12, comma 1, relativa ai “Fatti costitutivi del possesso di stato di figlio”) – che la convivenza coniugale con i predetti caratteri deve essere esteriormente riconoscibile attraverso fatti e comportamenti che vi corrispondano in modo non equivoco e, perciò, essere anche dimostrabile in giudizio, da parte dell’interessato, mediante idonei mezzi di prova, ivi comprese le presunzioni semplici assistite dai noti requisiti di cui all’art. 2729 c.c., comma 1, (l’esempio più vicino è quello prefigurato dall’art. 157 c.c., relativo alla cessazione degli effetti della separazione, e quindi alla ripresa di una convivenza – non purchessia ma – con dette caratteristiche, che esige comportamenti non equivoci incompatibili con lo stato di separazione:
cfr. al riguardo, ex plurimis, le sentenze nn. 12314 del 2007 e 28655 del 2013; v. altresì, infra, nn. 4.1. e 4.3.).
3.7.2. – Quanto alla seconda specificazione, concernente la “stabilità” della convivenza, v’è da osservare, innanzitutto, che tale qualità – pur concordemente evocata, come già detto, dalla giurisprudenza costituzionale e delle Corti Europee quale connotato che la caratterizza nell’ambito del, o fuori dal, matrimonio – non è temporalmente determinata. Questa mancanza viene in genere giustificata, per i rapporti extramatrimoniali, perchè in tali rapporti sono normalmente decisive le circostanze del caso concreto, e, per i rapporti matrimoniali, in base al rilievo che detta stabilità deriva (o dovrebbe derivare) immediatamente dalla stessa tendenziale stabilità del vincolo formale contratto dai coniugi.
Tuttavia – agli specifici fini che rilevano in questa sede: la composizione del denunciato contrasto di giurisprudenza -, appare indispensabile individuare, secondo diritto e ragionevolezza, il periodo di tempo dalla celebrazione del matrimonio, trascorso il quale dalla convivenza coniugale con dette caratteristiche può legittimamente inferirsi anche una piena ed effettiva “accettazione del rapporto matrimoniale”, tale da implicare anche la sopravvenuta irrilevanza giuridica dei vizi genetici eventualmente inficianti l'”atto” di matrimonio, che si considerano perciò “sanati” dall’accettazione del rapporto.
E’ proprio questa – il favor matrimonii, conseguente alla consapevole, piena ed effettiva assunzione e prosecuzione del rapporto matrimoniale -, in sostanza, la ratio sottesa a quelle norme del codice civile che sanciscono la decadenza dalle azioni di annullamento del matrimonio (art. 119, comma 2, art. 120, comma 2, art. 122, comma 4), allorquando, venute meno le cause del vizio dell’atto (revoca dell’interdizione, recupero della “capacità naturale”, cessazione della violenza morale, scoperta dell’errore), “vi è stata coabitazione per un anno”. Norme queste, relativamente alle quali è significativo notare – nel senso della valorizzazione del fatto della “coabitazione successiva” – il progressivo ampliamento del termine di decadenza da parte del legislatore: da quello di un mese del codice civile del 1865 a quello di tre mesi del codice del 1942, fino all’attuale termine di un anno stabilito dalla riforma del diritto di famiglia del 1975.
E la medesima ratio sta anche alla base dell’art. 123 – concernente gli accordi simulatori degli sposi relativi al contraendo matrimonio -, il quale, al secondo comma, stabilisce che “L’azione di annullamento non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matrimonio ovvero nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”. La differenza di tale fattispecie rispetto alle precedenti sta in ciò, che – trattandosi di accordi simulatori convenuti da entrambi gli “sposi” prima del matrimonio, ed esclusivamente “tra gli stessi”, senza coinvolgimento di terzi – la decadenza dall’azione di annullamento per ciascuno dei coniugi è individuata o nel decorso del termine di un anno dalla “celebrazione del matrimonio”, oppure – sine die – “nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”: ciò, in quanto il legislatore ha ritenuto che il tempo di un anno dalla celebrazione del matrimonio o la “convivenza come coniugi” dopo tale data siano fatti idonei a far legittimamente presumere il sopravvenuto consenso degli stessi sull’inefficacia di detti accordi. L’elemento comune sta, invece, nella valorizzazione – espressa più nitidamente nell’art. 123, comma 2, alla luce delle considerazioni che precedono – della capacità “sanante” dei vizi genetici (accordi simulatori) dell’atto matrimoniale, attribuita proprio alla “convivenza come coniugi”.
3.7.3. – Ciò posto, resta da individuare – proprio alla luce delle più volte ricordate norme costituzionali e convenzionali – la ragionevole durata della convivenza coniugale, decorrente dalla data di celebrazione del matrimonio, idonea a far legittimamente presumere la raggiunta stabilità del rapporto matrimoniale.
Al riguardo, il Collegio ritiene di poter prendere a riferimento – in ragione, come si vedrà, delle strette connessioni analogiche tra le fattispecie, secondo il canone ermeneutico di cui all’art. 12, comma 2, primo periodo, delle disposizioni sulla legge in generale (“Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe”) – la L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 6, commi 1 e 4, (Diritto del minore ad una famiglia), nel testo sostituito dalla L. 28 marzo 2001, n. 149, art. 6, comma 1, (Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonchè al titolo 8 del libro primo del codice civile), secondo i quali: “1. L’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto(….). 4. Il requisito della stabilità del rapporto di cui al comma 1 può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto” (cfr. anche la stessa L. n. 184 del 1983, art. 29 – bis, comma 1, che richiede per gli adottanti, ai fini dell’adozione internazionale, le medesime condizioni soggettive di cui all’art. 6).
Il testo originario della L. n. 184 del 1983, art. 6, comma 1, prevedeva: “L’adozione è permessa ai coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni tra i quali non sussista separazione personale neppure di fatto e che siano idonei ad educare, istruire ed in grado di mantenere i minori che intendono adottare”.
La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità, in riferimento all’art. 2 Cost., di tale disposizione originaria – nella parte (rimasta sostanzialmente immutata) in cui dispone(va) che, ai fini dell’idoneità ad adottare, i coniugi aspiranti siano uniti in matrimonio da almeno tre anni, in un caso in cui tali coniugi vantavano una convivenza prematrimoniale di dieci anni, con la sentenza n. 281 del 1994, nel dichiarare non fondata tale questione, ha affermato, tra l’altro, che la norma censurata “è coerente col principio, riconosciuto da questa Corte (sentenze n. 89/1993; n. 310/1989; n. 404/1988; nn. 198 e 237 del 1986; n. 11/1981; n. 45/1980), secondo cui l’istituto dell’adozione è finalizzato alla tutela prevalente dell’interesse del minore. Tale principio comporta, fra l’altro, che, ai fini della complessa opera di selezione dei soggetti idonei a svolgere il delicatissimo compito di educare ed accogliere un bambino abbandonato, costituisce criterio fondamentale quello che la doppia figura genitoriale sia unita dal “vincolo giuridico che garantisce stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività di diritti e doveri del nucleo in cui il minore sarà accolto”(sentenza n. 310 del 1989)”; ha inoltre sostanzialmente avallato “la scelta adottata dal legislatore italiano, che, al pari di numerosi legislatori Europei, intende il matrimonio, a tal fine, non solo come “atto costitutivo” ma anche come “rapporto giuridico “, vale a dire come vincolo rafforzato da un periodo di esperienza matrimoniale, in cui sia perdurante la volontà di vivere insieme in un nucleo caratterizzato da diritti e doveri”; ed ha precisato infine che “il criterio dei tre anni successivi alle nozze si configura come requisito minimo presuntivo a dimostrazione della stabilità del rapporto matrimoniale(…)” (n. 2. del Considerato in diritto; da notare che l’introduzione del comma 4 dell’art. 6 ad opera della L. n. 149 del 2001, art. 6, comma 1, deriva proprio dalle osservazioni svolte dalla Corte, nel n. 4. del Considerato in diritto, favorevoli alla prolungata convivenza prematrimoniale, stabile e continuativa, come requisito legittimante all’adozione).
Dalla piana lettura del su riprodotto vigente testo della L. n. 184 del 1983, art. 6, commi 1 e 4, e delle affermazioni della Corte costituzionale ora riportate risulta del tutto evidente, naturalmente mutatis mutandis, la loro ragionevole riferibilità anche alla fattispecie in esame: a ben vedere, convergono infatti in tal senso tutti gli argomenti fondati sia sulla distinzione tra “matrimonio – atto” e “matrimonio – rapporto”, sia sugli elementi essenziali del rapporto matrimoniale come sintesi di diritti, di doveri e di responsabilità, sia sulla valorizzazione della convivenza coniugale con le individuate caratteristiche, segnatamente di “stabilità” e di “continuità”, sia e soprattutto – per quanto ora specificamente rileva – sul “criterio dei tre anni successivi alle nozze” quale “requisito minimo presuntivo a dimostrazione della stabilità del rapporto matrimoniale”.
Tutte le considerazioni che precedono consentono, perciò, di affermare in modo compiuto che la convivenza dei coniugi, connotata dai più volte sottolineati caratteri e protrattasi per almeno tre anni dopo la celebrazione del matrimonio, in quanto costitutiva di una situazione giuridica disciplinata e tutelata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di “ordine pubblico italiano”, secondo il disposto di cui all’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, osta alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio concordatario.
3.7.4. – Al termine dell’analisi delle disposizioni passate in rassegna, deve in ogni caso sottolinearsi che il fondamento del significato della “convivenza coniugale”, da intendere nei sensi su precisati, e della particolare tutela ad essa assicurata sta immediatamente ed esclusivamente – non già nelle menzionate disposizioni del codice civile e della legge ordinaria, ma – nelle norme della Costituzione e delle Convenzioni Europee dianzi esaminate ed interpretate alla luce della giurisprudenza costituzionale e delle Corti Europee, sicchè dette disposizioni “ordinarie”, da interpretare in senso costituzionalmente e convenzionalmente conforme, confermano e rafforzano tutte le conclusioni raggiunte.
3.7.5. – Come correttamente richiesto con l’ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite, si tratta ora di stabilire se tale limite alla delibazione dipenda, oppure no, dalla natura del vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dalla sentenza canonica: in altri termini, se il giudice della delibazione, ai fini dell’applicazione del limite medesimo, debba distinguere, oppure no, tra detti vizi genetici comportanti la nullità del matrimonio, accertati e dichiarati secondo il diritto canonico.
La risposta negativa al quesito si impone per la decisiva ragione che all’affermazione della convivenza coniugale, successiva al matrimonio “concordatario” regolarmente trascritto e con i caratteri dianzi individuati, quale “limite generale” d’ordine pubblico italiano alla delibazione delle sentenze di nullità matrimoniale pronunciate dai tribunali ecclesiastici, consegue necessariamente, ai fini dell’applicazione di tale limite generale, l’irrilevanza nell'”ordine civile” di qualsiasi vizio genetico del matrimonio canonico, tutte le volte che esso sia stato accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico nell'”ordine canonico” nonostante la sussistenza dell’elemento essenziale della convivenza coniugale: in tutti questi casi, infatti, si manifesta chiaramente la radicale collisione di detti vizi genetici del matrimonio canonico con l’individuato limite d’ordine pubblico.
Peraltro – diversamente opinando -, la risposta affermativa a detto quesito implicherebbe una inammissibile invasione del giudice italiano nella giurisdizione ecclesiastica in materia di nullità del matrimonio, riservata dall’Accordo esclusivamente ai tribunali ecclesiastici nell'”ordine canonico” (art. 8, n. 2): in particolare, il giudice italiano, al fine di decidere sulla domanda di delibazione sotto il profilo dell’applicabilità del predetto limite generale d’ordine pubblico, dovrebbe, previamente ed inevitabilmente, procedere ad una interpretazione delle singole norme del codice di diritto canonico disciplinanti le fattispecie di nullità ivi previste, distinguendo fra di esse e stabilendo eventualmente una gerarchia fra le stesse, valicando così inammissibilmente i confini della giurisdizione nell'”ordine civile”, a sè riservata dalle disposizioni dell’Accordo.
3.8. – Le conclusioni dianzi raggiunte richiedono tuttavia – tenuto conto, in particolare, degli argomenti svolti dalla difesa della controricorrente – qualche ulteriore osservazione sull’ordine pubblico quale limite alla delibabilità di dette sentenze canoniche, sul principio di laicità dello Stato e sulla interpretazione delle pertinenti disposizioni dell’Accordo di Villa Madama.
3.8.1. – Al riguardo, è indispensabile innanzitutto ribadire nuovamente i principi affermati con le fondamentali sentenze della Corte costituzionale n. 18 del 1982 e n. 203 del 1989 (cfr., supra, n. 3.3.1.).
La difesa della controricorrente in particolare, con la memoria di cui all’art. 378 c.p.c., insiste molto sui rilievi che una pronuncia di questa Corte nel senso da essa non auspicato determinerebbe sia una ingiusta discriminazione in danno del civis fidelis – il quale “subirebbe l’assurda discrasia di essere, come cristiano, non più coniuge per la Chiesa cattolica e invece restare, come cittadino, coniuge per lo Stato” (pag. 13) – sia, più in generale, un vero e proprio vulnus all’Accordo del 1984.
Circa tali rilievi, può immediatamente osservarsi: per un verso, che il principio fondamentale di laicità, o non confessionalità, dello Stato comporta che “Qualunque atto di significato religioso, fosse pure il più doveroso dal punto di vista di una religione e delle sue istituzioni, rappresenta sempre per lo Stato esercizio della libertà dei propri cittadini”, e che qualsiasi intervento dello Stato su atti o fatti aventi significato religioso “è escluso comunque, in conseguenza dell’appartenenza della religione a una dimensione che non è quella dello Stato e del suo ordinamento giuridico, al quale spetta soltanto il compito di garantire le condizioni che favoriscano l’espansione della libertà di tutti e, in questo ambito, della libertà di religione” (Corte costituzionale, sentenza n. 334 del 1996 cit., n. 3.1. del Considerato in diritto); per altro verso, che la denunciata “scissione” di effetti, conseguente alla sentenza di nullità matrimoniale pronunciata nell’ordinamento canonico e non delibata, perchè non delibabile, nell’ordinamento italiano, è conseguenza legittima, per tutti i cives fideles, della distinzione – separazione tra i due ordinamenti, scolpita nell’art. 7 Cost., comma 1, e “riaffermata” nell’art. 1 dello stesso Accordo. Deve inoltre rilevarsi che la risoluzione del denunciato “conflitto personale” del civis fidelis nel senso auspicato dalla controricorrente postulerebbe necessariamente, nonostante la pronuncia della Corte costituzionale n. 18 del 1982, la delibazione “automatica” di qualsiasi sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, con conseguente “eliminazione”, in palese violazione dell’art. 1, comma 2, e art. 7 Cost., comma 1, della giurisdizione del giudice italiano in materia.
Del resto, rientra nella stessa logica del sistema consensualmente accettato con l’Accordo la possibilità che determinate sentenze di nullità matrimoniale pronunciate dai tribunali ecclesiastici non siano delibate, in particolare, per contrarietà con l’ordine pubblico italiano. Ciò è già accaduto più volte, ad esempio, per quelle sentenze ecclesiastiche dichiarative della nullità del matrimonio concordatario per esclusione, da parte di un coniuge soltanto, di uno dei bona matrimonii: in tali casi, infatti, questa Corte ha costantemente affermato che la divergenza unilaterale tra volontà e dichiarazione postula che essa sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero che sia stata da questo effettivamente conosciuta, o ancora che non l’abbia conosciuta esclusivamente a causa della sua negligenza, in quanto, qualora tali situazioni non ricorrano, la delibazione è impedita dalla contrarietà con l’ordine pubblico italiano, nel cui ambito va ricompreso il principio fondamentale della tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 24047 del 2006 e 3378 del 2012).
3.8.2. – I principi fondamentali, dianzi richiamati e ribaditi, e gli argomenti che li supportano conservano validità e valore ermeneutico intatti anche nella vigenza degli Accordi di Villa Madama, come chiaramente affermato dalla citata pronuncia costituzionale n. 203 del 1989 (cfr., supra, n. 3.3.1.)., con la conseguenza che le disposizioni di tali Accordi debbono essere interpretate innanzitutto in conformità con tali principi fondamentali. E’ opportuno quindi riesaminare, in tale prospettiva, alcuni punti critici dello specifico quadro normativo di riferimento della fattispecie.
Quanto, in particolare, all’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, l’inequivoca formulazione letterale di tale norma del codice di rito civile, cui materialmente rinvia il punto 4, lett. b), del Protocollo addizionale, nonchè i principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 18 del 1982 non consentono alcun dubbio nè circa il parametro da applicare – l'”ordine pubblico italiano” appunto, non già l’ordine pubblico internazionale, come invece viene adombrato con riferimento all’inapplicabile la citata L. n. 218 del 1995, art. 64, lett. g), (cfr., supra, n. 3.2.1., nonchè la sentenza n. 17349 del 2002 che, tuttavia, definisce l’ordine pubblico internazionale quello costituito dai soli principi fondamentali e caratterizzanti l’atteggiamento etico – giuridico dell’ordinamento in un determinato periodo storico), nè circa il contenuto di esso, costituito, si ribadisce, dalle “regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società, la cui “inderogabile tutela” è imposta soprattutto a presidio della sovranità dello Stato, quale affermata nell’art. 1, comma 2, e ribadita nell’art. 7 Cost., comma 1, (cfr. al riguardo, ex plurimis, le sentenze di queste Sezioni Unite nn. 19809 e 14199 del 2008). E tutte le precedenti considerazioni sui caratteri della convivenza “come coniugi confermano che questa connota nell’essenziale l’istituto del matrimonio civile italiano ed è, quindi, costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie certamente qualificabili siccome di ordine pubblico.
Non è, poi, certamente d’ostacolo alla piena ed effettiva applicazione dell’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, l’ambiguo “canone ermeneutico”, enunciato dalla disposizione del Protocollo addizionale di cui al punto 4, lett. b) (“ai fini dell’applicazione degli artt. 796 e 797 del codice italiano di procedura civile, si dovrà tener conto della specificità dell’ordinamento canonico dal quale è regolato il vincolo matrimoniale, che in esso ha avuto origine(….”), chiaramente rivolto al giudice della delibazione.
Tale disposizione – di significato equivoco, se isolatamente considerata – fa riferimento alla “specificità” dell’ordinamento canonico, da intendersi – parrebbe – in stretta correlazione con il fatto che il matrimonio “concordatario”, contratto secondo le norme del diritto canonico, per ciò stesso “ha avuto origine” in tale ordinamento e conserva quindi la natura di “sacramento” (C.J.C., can. 1055), sicchè è al matrimonio canonico – sacramento che vengono, ciononostante, consensualmente “riconosciuti gli effetti civili” (art. 8, paragrafo 1, dell’Accordo). Ma, anche ad ammettere, per mera ipotesi, che sia questo il “vero” significato della disposizione – o meglio, di quella che è soltanto una “premessa” della disposizione – resterebbero pur sempre dubbie le conseguenze di tale “specificità (….) ai fini dell’applicazione degli artt. 796 e 797 del codice italiano di procedura civile”, dovendosi escludere, in limine, che essa alluda tout court al carattere “originario” dell’ordinamento giuridico canonico, che ne implicherebbe l'”esclusività” anche in termini di giurisdizione, perchè un’interpretazione siffatta colliderebbe radicalmente sia con l’art. 7 Cost., comma 1, che afferma la sovranità, oltrechè della Chiesa cattolica, anche dello Stato, sia con lo stesso art. 1 dell’Accordo, con cui le Parti “riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani” e si “impegnan(o) al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti”.
Deve ritenersi allora, secondo un’interpretazione conforme alla Costituzione ed all’Accordo, che a detta disposizione non può darsi altro significato che quello di fungere da mera premessa generale, esplicativa delle ragioni per le quali vengono indicate, “In particolare”, le tre prescrizioni (relative alla competenza, al giudicato e al divieto di riesame del merito della sentenza canonica, in deroga, rispettivamente, all’art. 796 c.p.c., comma 1, art. 797 c.p.c., comma 1, nn. 1 e 4, e art. 798 c.p.c.) vincolanti il giudice della delibazione: tali prescrizioni infatti – costituenti le uniche limitazioni, consensualmente accettate dalle Parti, al pieno ed effettivo esercizio della giurisdizione (e, quindi, all’esercizio della sovranità dello Stato italiano) da parte del giudice della delibazione (cfr., supra, n. 3.2.2., lett. c) – sono tutte riconducigli alla premessa “specificità” dell’ordinamento canonico per il fatto che “il vincolo matrimoniale (…) in esso ha avuto origine”). Di qui, la conseguenza – fatte salve le tre predette eccezioni -del pieno ed effettivo esercizio della giurisdizione da parte del giudice della delibazione, quanto in particolare all’esercizio del potere di controllo della sentenza canonica di nullità del matrimonio sotto il profilo della sua eventuale contrarietà con l’ordine pubblico italiano.
3.9. – A composizione del denunciato contrasto di giurisprudenza (cfr., supra, n. 3.3.), deve pertanto enunciarsi il seguente, articolato principio di diritto:
“La convivenza “come coniugi” deve intendersi ~ secondo la Costituzione (artt. 2, 3, 29, 30 e 31), le Carte Europee dei diritti (art. 8, paragrafo 1, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), come interpretate dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, ed il Codice civile – quale elemento essenziale del “matrimonio – rapporto”, che si manifesta come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, ed esteriormente riconoscibile attraverso corrispondenti, specifici fatti e comportamenti dei coniugi, e quale fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità anche genitoriali in presenza di figli, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari.
In tal modo intesa, la convivenza “come coniugi”, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio “concordatario” regolarmente trascritto, connotando nell’essenziale l’istituto del matrimonio nell’ordinamento italiano, è costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di “ordine pubblico italiano” e, pertanto, anche in applicazione dell’art. 7 Cost., comma 1, e del principio supremo di laicità dello Stato, è ostativa – ai sensi dell’Accordo, con Protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, reso esecutivo dalla L. 25 marzo 1985, n. 121, (in particolare, dell’art. 8, n. 2, lett. c, dell’Accordo e del punto 4, lett. b, del Protocollo addizionale), e dell’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, – alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, per qualsiasi vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico nell'”ordine canonico” nonostante la sussistenza di detta convivenza coniugale”.
4. – L’affermazione di tale principio di diritto incide ovviamente, sotto il relativo profilo, anche sulla struttura, sull’oggetto e sullo svolgimento del giudizio di delibazione dinanzi alla competente corte d’appello, quale delineato dall’art. 8, numero 2, dell’Accordo, dal punto 4, lett. b), del Protocollo addizionale e dai previgenti artt. 796 e 797 c.p.c..
Al riguardo, l’ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite, pone correttamente le seguenti ulteriori questioni: “(…) 2. – se(….) il contrasto tra l’indicata condizione la convivenza coniugale, nei sensi dianzi indicati e l’ordine pubblico interno sia verificabile d’ufficio dalla Corte d’appello, versandosi in un caso d’impedimento assoluto alla riconoscibilità della sentenza ecclesiastica (in tal senso Cass. citata n. 1780 del 2012), dal momento che l’ordine pubblico esprime valori di natura indeclinabile ed è per l’effetto indisponibile, ovvero sia rilevabile solo su eccezione della parte che si oppone alla delibazione; 3. – se, ammessa la rilevabilità d’ufficio, rientri nei poteri della Corte d’appello, la cui indagine è astretta entro il limite del compendio istruttorio formatosi nel giudizio ecclesiastico, disporre l’acquisizione di ulteriori elementi di verifica; 4. – se l’incompatibilità in discorso, laddove si ritenga rilevabile d’ufficio, sia riscontrabile anche dalla Corte di Cassazione se emerge dagli atti (secondo guanto è avvenuto in sede di pronuncia n. 1343/2011) e sia dunque scrutinabile senza necessità d’ulteriore istruttoria (….)”. La risposta puntuale a tali ulteriori quesiti richiede lo svolgimento di alcune considerazioni preliminari.
4.1. – Innanzitutto, va ribadito che la convivenza coniugale successiva alla celebrazione del matrimonio concordatario – come in precedenza individuata e specificata (cfr., supra, nn. da 3.7. a 3.7.4.) -, per valere quale limite generale d’ordine pubblico alla delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, deve essere caratterizzata anche, come già detto, da “fatti e comportamenti” dei coniugi corrispondenti ad una “consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo”, dalla sua “riconoscibilità esteriore”, nonchè dalla sua durata per almeno tre anni dalla data della celebrazione del matrimonio; ciò, senza dimenticare che tali “dati oggettivi” sono strettamente connessi ad “una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità anche geni tonali in presenza di figli, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari”. E’ dunque evidente che, in una fattispecie siffatta, il limite d’ordine pubblico ostativo alla delibazione non scaturisce immediatamente da una precisa disposizione (come, ad esempio, la “libertà di stato”: art. 86 c.c.; punto 4, lett. a, n. 2, del Protocollo addizionale), ma deve trarsi da una situazione giuridica complessa – la convivenza coniugale, appunto – caratterizzata essenzialmente da circostanze oggettive esteriormente riconoscibili e, quindi, allegabili e dimostrabili in giudizio.
In secondo luogo, dal momento che l’Accordo, con norma speciale (alinea dell’art. 8, n. 2), stabilisce che le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici sono dichiarate efficaci nella Repubblica italiana dalla competente corte d’appello “su domanda delle parti o di una di esse”, ne consegue con certezza sia che il procedimento di delibazione non ha conservato natura officiosa (come, invece, nel previgente sistema delineato dall’art. 34, comma 6, del Concordato lateranense e citata L. n. 847 del 1929, art. 17: cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 2787 del 1995 e 22514 del 2004), sia che tale procedimento giurisdizionale è un ordinario giudizio di cognizione, sia pure svolto in unico grado di merito, nel quale valgono ovviamente, tra gli altri, i fondamentali principi della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (artt. 99 e 112 c.p.c.; cfr. anche, del resto, l’art. 796 c.p.c., comma 1).
E’ noto, poi, che in linea di principio, per costante orientamento di questa Corte, la contrarietà di un atto all’ordine pubblico, sostanziale o processuale, attenendo a materie “indisponibili” dalle parti perchè involgenti aspetti che trascendono interessi esclusivamente individuali, è questione rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, salvo il dovere del giudice di promuovere su di essa il previo contraddittorio tra le parti (art. 101 c.p.c., comma 2, e art. 384 c.p.c., comma 3). Tuttavia, le già rilevate, indubbie peculiarità della fattispecie d’ordine pubblico “convivenza coniugale” – fondata su fatti specifici e rilevanti (come, ad esempio, la durata della convivenza post-matrimoniale, l’esistenza di figli, la continuità del rapporto matrimoniale, età), nonchè su comportamenti dei coniugi altrettanto specifici e rilevanti -, unitamente all’applicazione dei ricordati principi della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, richiedono che tali fatti e comportamenti: o emergano già dagli atti del giudizio di delibazione, oppure siano allegati, e in ogni caso dimostrati dalla parte interessata – se contestati dall’altra -, mediante la deduzione di idonei mezzi di prova, anche presuntiva (cfr., supra, n. 3.7.1.)” ed anche mediante il richiamo degli atti del processo canonico e della stessa sentenza delibanda, se ivi già risultano parzialmente o compiutamente.
A tal ultimo proposito e salve le ulteriori specificazioni, deve immediatamente affermarsi che sia tali oneri di allegazione, di deduzione e di prova gravanti sulla parte interessata a far valere detto limite d’ordine pubblico, sia l’eventuale svolgimento della relativa istruzione probatoria non costituiscono violazioni del divieto di “riesame del merito” della sentenza canonica, imposto al giudice della delibazione dal punto 4, lett. b), n. 3, del Protocollo addizionale. Infatti – nell’ambito del giudizio di delibazione in cui sia stata dedotto il predetto limite d’ordine pubblico -, l’oggetto specifico ed esclusivo dei relativi accertamenti è costituito dalla verifica della sussistenza, o no, della “convivenza coniugale”.
Oggetto questo, rispetto al quale l’insindacabile accertamento contenuto nel “giudicato canonico” (punto 4, lett. b, n. 2, del Protocollo addizionale), costituito dalle ragioni di fatto e di diritto della nullità del matrimonio, accertata e dichiarata appunto secondo il diritto canonico, è e deve restare del tutto estraneo ed irrilevante. Al riguardo, è appena il caso di sottolineare che è dovere del giudice della delibazione valutare l’ammissibilità e la rilevanza delle circostanze allegate e delle prove eventualmente dedotte dalle parti, nel rispetto della netta distinzione tra gli oggetti dei due processi ora rimarcata e, comunque, del suddetto divieto stabilito dall’Accordo, fermo restando in ogni caso il sindacato di legittimità sul punto esercitabile da questa Corte (cfr., ex plurimis e da ultima, la sentenza n. 24967 del 2013).
Del resto, principi analoghi sono già stati affermati più volte da questa Corte in riferimento sia a casi di diniego della delibazione, in cui rileva tout court la convivenza coniugale successiva alla celebrazione del matrimonio (sentenza n. 9844 del 2012), sia a casi di diniego della delibazione per esclusione, da parte di un coniuge, di uno dei bona matrimonii (sentenza n. 3378 del 2012), ovvero per apposizione di una condizione al vincolo matrimoniale viziante il consenso di uno dei coniugi (sentenza n. 12738 del 2011): casi nei quali, appunto, il giudice italiano può e deve accertare la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità dell’esclusione o della condizione anzidette da parte dell’altro coniuge con piena autonomia, trattandosi di profili estranei, in quanto irrilevanti, al processo canonico. E sono proprio queste, in definitiva, le medesime ragioni che giustificano – fermi i predetti oneri di allegazione, di deduzione e di prova gravanti sulla parte interessata ed i corrispondenti poteri di controllo del giudice della delibazione e di questa Corte – anche l’acquisizione di elementi probatori dagli atti del processo canonico e dalla stessa sentenza delibanda.
E’ certamente vero che, nei casi da ultimo menzionati, questa Corte, nell’ammettere detti accertamenti da parte del giudice della delibazione con piena autonomia rispetto al giudice ecclesiastico, ha nel contempo affermato che la relativa indagine ha da svolgersi con esclusivo riferimento alla pronuncia delibanda ed agli atti del processo canonico eventualmente acquisiti e non deve essere integrata da alcuna attività istruttoria (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 3339 del 2003 e 12738 del 2011 cit.), ma è altrettanto vero che nelle più volte sottolineate peculiarità della fattispecie “convivenza coniugale”, fatta valere come limite generale d’ordine pubblico alla delibazione, è certamente compresa, anche sotto il profilo in esame, un’indubbia “complessità fattuale” – molto maggiore di quella rilevabile negli altri casi, anche se parimenti non coinvolta negli accertamenti della sentenza canonica -, che giustifica ampiamente lo svolgimento di un’apposita istruzione probatoria, da compiersi tuttavia, come pure già rimarcato, con particolare attenzione, tenuto conto che i relativi accertamenti, da un lato, attengono al’attuazione di un principio d’ordine pubblico italiano oggetto di rilievo e tutela anche costituzionali e, dall’altro, esigono comunque l’osservanza dei patti stipulati dalla Repubblica italiana e dalla Santa Sede con l’Accordo del 1984.
4.2. – Va svolta, inoltre, qualche ulteriore considerazione preliminare circa l’intervento obbligatorio del pubblico ministero in tali giudizi di delibazione.
E’ noto che, secondo l’art. 796 c.p.c., comma 3, – richiamato dal punto 4, lett. b), del Protocollo addizionale e da questo non derogato sul punto -, nel giudizio di delibazione “L’intervento del pubblico ministero è sempre necessario”; ciò, coerentemente con quanto dispone l’art. 70, comma 1, n. 2, dello stesso codice di rito, che prevede l’intervento obbligatorio del pubblico ministero a pena di nullità, tra le altre, “nelle cause matrimoniali” (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 9085 e 19277 del 2003).
E’ altresì noto che il pubblico ministero, ai sensi dell’art. 72 c.p.c., comma 1, “nelle cause che avrebbe potuto proporre ha gli stessi poteri che competono alle parti e li esercita nelle forme che la legge stabilisce per queste ultime”, mentre, ai sensi dello stesso art. 72, comma 2, “Negli altri casi di intervento previsti dall’art. 70…. può produrre documenti, dedurre prove, prendere conclusioni nei limiti delle domande proposte dalle parti”, essendo peraltro attribuito allo stesso organo requirente il potere di proporre impugnazione, tra le altre, contro le sentenze “che dichiarino l’efficacia o l’inefficacia di sentenze straniere relative a cause matrimoniali” (art. 72, comma 4: cfr. le sentenze, delle Sezioni Unite n. 27145 del 2008, nonchè nn. 6739 del 1983, 332 del 1984, 773 del 1985), salvo in ogni caso il potere, attribuito all’organo medesimo, di impugnazione per revocazione nei casi di cui all’art. 397 c.p.c..
Esclusa quindi nettamente, ai sensi dell’Accordo, la promovibilità di tali giudizi di delibazione da parte del pubblico ministero, in questi giudizi spetta tuttavia allo stesso organo requirente l’eventuale esercizio dei poteri processuali previsti dal menzionato art. 72 c.p.c., comma 2, (“produrre documenti, dedurre prove, prendere conclusioni”), soltanto però “nei limiti delle domande proposte dalle parti”.
Al riguardo, deve ribadirsi che il parametro di legittimità dell’esercizio di tali poteri da parte del pubblico ministero, malgrado la dimensione pubblicistica sottesa al suo intervento, è costituito, in definitiva, dalle causae petendi e dai petita fatti valere dalle parti nonchè dalle eccezioni dalle stesse sollevate, che delimitano l’oggetto del giudizio (cfr., tra le poche che hanno affrontato il tema, le sentenze nn. 8862 del 1993, e 2621 del 1970, pronunciata a sezioni unite).
4.3. – Sulla base di tutte le considerazioni che precedono, può rispondersi puntualmente alle suddette questioni poste con l’ordinanza di rimessione (cfr., supra, n. 4).
A) Quanto al potere della corte d’appello e della Corte di cassazione di rilevare – d’ufficio, oppure soltanto su eccezione di parte – la “convivenza coniugale” quale situazione giuridica che, con le individuate caratteristiche, osta alla delibazione, deve innanzitutto sottolinearsi che, nelle fattispecie in esame, l’oggetto del giudizio è costituito, da un lato, dalla domanda di dichiarazione d’efficacia nella Repubblica italiana della sentenza ecclesiastica di nullità di matrimonio, dall’altro, dalla “questione” della delibabilità di tale sentenza, sotto il profilo del limite generale d’ordine pubblico rappresentato da detta situazione giuridica.
Si tratta, allora, di stabilire se la “convivenza coniugale” successiva alla celebrazione del matrimonio concordatario, opposta da un coniuge all’altro nel giudizio di delibazione, abbia, o no, i caratteri delle “eccezioni in senso stretto” (exceptiones juris) rilevabili, com’è noto, soltanto ad istanza di parte: tali eccezioni vengono identificate ormai, secondo diritto vivente, o in quelle per le quali la legge riserva espressamente il potere di rilevazione alla parte, ovvero in quelle nelle quali il fatto che integra l’eccezione corrisponde all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio da parte del titolare, comportando quindi, per avere efficacia modificativa, impeditiva od estintiva di un rapporto giuridico, il tramite di una manifestazione di volontà della parte (cfr., ex plurimis, la sentenza di queste Sezioni Unite n. 15661 del 2005, nonchè l’ordinanza interlocutoria delle stesse Sezioni Unite n. 10531 del 2013 e la sentenza n. 18602 del 2013). La risposta affermativa a tale quesito si impone per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, perchè la convivenza coniugale, come delineata nel su enunciato principio di diritto – in particolare “come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, ed esteriormente riconoscibile attraverso corrispondenti fatti e comportamenti dei coniugi, e come fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità anche genitoriali in presenza di figli, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio “concordatario” regolarmente trascritto” -, è perciò connotata non soltanto, come già sottolineato, da un’indubbia “complessità fattuale” (cfr., supra, n. 4.1.), ma anche dalla connessione molto stretta di tale complessità con l’esercizio di diritti, con l’adempimento di doveri e con l’assunzione di responsabilità personalissimi di ciascuno dei coniugi, con la conseguenza che essa può essere eccepita soltanto dal coniuge che, quale partecipe esclusivo del rapporto matrimoniale, intende farla valere come situazione giuridica impeditiva della delibazione richiesta (rectius:
come situazione giuridica che, quale limite generale d’ordine pubblico, è idonea ad impedire la dichiarazione di efficacia, nell’ordinamento italiano, della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico).
In secondo luogo, perchè la fattispecie processuale in esame è riconducibile per analogia – secondo il già applicato canone ermeneutico di cui all’art. 12 disp. gen., comma 2, primo periodo, (cfr., supra, n. 3.7.3.) – a quella prefigurata dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 3, comma 1, n. 2, lett. b), primo capoverso, ultimo periodo, nel testo sostituito dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 5, (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), secondo cui “In tutti i predetti casi, per la proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le separazioni devono essersi protratte ininterrottamente da almeno tre anni a far tempo dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale. L’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta”.
AI riguardo, con orientamento costante, questa Corte (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 6031 del 1998, 26165 del 2006 e 23510 del 2010) ha affermato: a) che la dichiarazione di divorzio non consegue automaticamente alla constatazione della presenza di una delle cause previste dalla L. n. 898 del 1970, art. 3, ma presuppone in ogni caso, attesi i riflessi pubblicistici riconosciuti dall’ordinamento all’istituto familiare, l’accertamento, da parte del giudice, della esistenza dell’essenziale condizione della concreta impossibilità di mantenere o ricostituire il consorzio familiare per effetto della definitività della rottura dell’unione spirituale e materiale tra i coniugi (accertamento di ampiezza ed approfondimento diversi, secondo le circostanze emergenti dagli atti e le deduzioni svolte in concreto dalle parti); b) che l’asserito venir meno dello stato di separazione, opposto da uno dei coniugi in presenza di una richiesta di divorzio avanzata dall’altro coniuge, ha pertanto, come suo indefettibile presupposto, l’avvenuta riconciliazione (ossia la ricostituzione del nucleo familiare nell’insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali), e va accertato attribuendo rilievo preminente alla concretezza degli atti e dei comportamenti posti in essere dai coniugi, valutati nella loro effettiva capacità dimostrativa della disponibilità alla ricostruzione del rapporto matrimoniale; c) in particolare, che l’eccezione di sopravvenuta riconciliazione, come espressamente previsto dalla disposizione richiamata, deve essere sollevata esclusivamente ad istanza di parte, senza che il giudice possa rilevarla d’ufficio, investendo essa aspetti strettamente inerenti ai rapporti tra i coniugi, in ordine ai quali è onere della parte convenuta eccepire, e conseguentemente provare, l’avvenuta riconciliazione.
La piana lettura degli ora richiamati principi di diritto – segnatamente dell’ultimo – mostra con evidenza, naturalmente mutatis mutandis, la loro ragionevole riferibilità anche alla fattispecie in esame: a ben vedere, nel senso della rilevabilità della “convivenza coniugale” soltanto ad istanza di parte convergono infatti, in modo decisivo, gli argomenti fondati sulla connessione molto stretta tra oggetto dell’eccezione e dimensioni “personalissime” dello svolgimento del rapporto matrimoniale.
B) Premesso che, secondo la speciale disciplina dell’Accordo, occorre distinguere tra due ipotesi, a seconda che la domanda di delibazione sia proposta “dalle parti”, oppure “da una di esse” (alinea dell’art. 8, n. 2, dell’Accordo), tutte le considerazioni che precedono rendono evidente che nella prima ipotesi – domanda di delibazione, per così dire, “congiunta” – non possono sussistere dubbi circa la tendenziale delibabilità, sotto tale profilo, della sentenza canonica di nullità, anche nel caso in cui già emergesse ex actis una situazione di “convivenza coniugale”, con i più volte sottolineati caratteri, potenzialmente idonea a costituire ostacolo alla delibazione: ciò, in ragione sia della affermata rilevabilità della “convivenza coniugale” soltanto a sèguito di tempestiva eccezione di parte, sia della prevalenza da dare alla consapevole, concorde manifestazione di volontà delle parti.
Resta salvo, ovviamente, il controllo del giudice in ordine alla sussistenza delle altre condizioni per la delibazione previste dall’art. 8, n. 2, lett. a – c), dell’Accordo e dall’art. 797 c.p.c..
A tal ultimo proposito, è utile ribadire (cfr., supra, n. 4.1.) che il procedimento giurisdizionale di delibazione è un ordinario giudizio di cognizione – sia pure legittimamente disegnato dal legislatore in unico grado di merito, essendo noto che, nel nostro ordinamento, non ha riconoscimento costituzionale il principio del doppio grado di cognizione nel merito (cfr., ex plurimis, con costante orientamento, le sentenze della Corte costituzionale nn. 22 del 1973 e 242 del 2011) -, che è disciplinato dalle già menzionate, speciali disposizioni dell’Accordo e de Protocollo addizionale e dalle norme interne ivi richiamate (art. 8, numero 2, dell’Accordo, punto 4, lettera b, del Protocollo addizionale e previgenti artt. 796 e 797 c.p.c.), dal codice di procedura civile – tendenzialmente, salvo il previo giudizio di compatibilita: dalle norme che regolano il rito dinanzi alla corte d’appello (artt. da 339 a 359 c.p.c.), tenuto anche conto del rinvio materiale alle “norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al tribunale”, di cui alFart. 359 cod. proc. civ., da applicare previo giudizio di “compatibilita” con le particolari natura e struttura del giudizio di delibazione -, nonchè dai principi giurisprudenziali enunciati in materia da questa Corte.
C) Nel caso in cui, invece, la domanda di delibazione sia proposta da uno soltanto dei coniugi, l’altro – che intenda opporsi alla domanda, eccependo il limite d’ordine pubblico costituito dalla “convivenza coniugale” con le evidenziate caratteristiche (cfr., supra, n. 4.1.) – ha l’onere, a pena di decadenza, ai sensi dell’art. 167 c.p.c., commi 1 e 2, (si veda l’art. 343 c.p.c., comma 1): i) di sollevare tale eccezione nella comparsa di risposta; 2) di allegare i fatti specifici e gli specifici comportamenti dei coniugi, successivi alla celebrazione del matrimonio, sui quali l’eccezione medesima si fonda, anche mediante la puntuale indicazione di atti del processo canonico e di pertinenti elementi che già emergano dalla sentenza delibanda;
3) di dedurre i mezzi di prova, anche presuntiva, idonei a dimostrare la sussistenza di detta “convivenza coniugale”, restando ovviamente salvi i diritti di prova della controparte ed i poteri di controllo del giudice della delibazione quanto alla rilevanza ed alla ammissibilità dei mezzi di prova richiesti.
L’eventuale, relativa istruzione probatoria – si ribadisce – ha da svolgersi, secondo le regole di un ordinario giudizio di cognizione, con particolare rigore, in considerazione sia della complessità degli accertamenti in fatto, sia del coinvolgimento di diritti, doveri e responsabilità fondamentali e personalissimi, sia del dovere di rispettare il divieto di “riesame del merito” della sentenza canonica, imposto al giudice della delibazione dal punto 4, lett. b), n. 3, del Protocollo addizionale.
D) Ribadito che l’esclusione del rilievo d’ufficio del limite d’ordine pubblico de quo vale anche nell’eventuale giudizio di legittimità promosso avverso la sentenza che decide sulla domanda di delibazione della pronuncia definitiva di nullità matrimoniale del Giudice ecclesiastico (cfr., supra, lett. A), e che la “convivenza coniugale” successiva alla celebrazione del matrimonio concordatario, opposta da un coniuge all’altro nel giudizio di delibazione, ha natura di “eccezione in senso stretto” (exceptio juris), va sottolineato in particolare sia che la relativa deduzione non può essere effettuata per la prima volta nel giudizio di legittimità (cfr., supra, lett. Q, sia che il relativo ricorso per cassazione deve essere, innanzitutto, adeguato alle peculiarità, sostanziali ed anche processuali (ad esempio, per ciò che attiene all’istruzione probatoria sulla sussistenza della convivenza coniugale), della fattispecie in esame, sia quanto all'”esposizione sommaria dei fatti di causa” ed alle “specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti (…) sui quali il ricorso si fonda” (art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6: cfr. al riguardo, ex plurimis, le sentenze delle Sezioni Unite, nn. 8077 e 5698 del 2012, 7161 del 2011), sia quanto al deposito degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda (art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4: cfr. al riguardo, ex plurimis, la sentenza delle Sezioni Unite, n. 22726 del 2011).
Ciò, senza dimenticare il principio di diritto recentemente enunciato da queste Sezioni Unite (cfr. le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014), secondo cui l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – nel testo sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, art. 1, comma 1, – introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciarle per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), con la conseguenza che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame ai elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
4.4. – Sulla base delle considerazioni che precedono, può enunciarsi il seguente, articolato principio di diritto:
“La convivenza “come coniugi” – intesa nei sensi di cui al su enunciato principio di diritto (cfr., supra, n. 3.9.) -, come situazione giuridica d’ordine pubblico ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, ed in quanto connotata da una “complessità fattuale” strettamente connessa all’esercizio di diritti, all’adempimento di doveri ed all’assunzione di responsabilità personalissimi di ciascuno dei coniugi, deve qualificarsi siccome eccezione in senso stretto (exceptio juris) opponi bile da un coniuge alla domanda di delibazione proposta dall’altro coniuge e, pertanto, non può essere eccepita dal pubblico ministero interveniente nel giudizio di delibazione nè rilevata d’ufficio dal giudice della delibazione o dal giudice di legittimità – dinanzi al quale, peraltro, non può neppure essere dedotta per la prima volta -, potendo invece essere eccepita esclusivamente, a pena di decadenza nella comparsa di risposta, dal coniuge convenuto in tale giudizio interessato a farla valere, il quale ha inoltre l’onere sia di allegare fatti e comportamenti dei coniugi specifici e rilevanti, idonei ad integrare detta situazione giuridica d’ordine pubblico, sia di dimostrarne la sussistenza in caso di contestazione mediante la deduzione di pertinenti mezzi di prova anche presuntiva.
Ne consegue che il giudice della delibazione può disporre un ‘apposita istruzione probatoria, tenendo conto sia della complessità dei relativi accertamenti in fatto, sia del coinvolgimento di diritti, doveri e responsabilità personalissimi dei coniugi, sia del dovere di osservare in ogni caso il divieto di “riesame del merito” della sentenza canonica, espressamente imposto al giudice della delibazione dal punto 4, lett. b), n. 3, del Protocollo addizionale all’Accordo, fermo restando comunque il controllo del giudice di legittimità secondo le speciali disposizioni dell’Accordo e del Protocollo addizionale, i normali parametri previsti dal codice di procedura civile ed i principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia”.
5. – in applicazione degli ora affermati principi di diritto, il ricorso in esame, complessivamente considerato, non merita accoglimento, presentando peraltro anche consistenti profili di inammissibilità.
5.1. – Al riguardo, deve sottolinearsi innanzitutto che dalla sentenza impugnata emerge che: a) la sentenza canonica, della quale è stata chiesta ed ottenuta dalla odierna controricorrente la dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana, ha pronunciato la nullità del matrimonio “per esclusione della indissolubilità del vincolo da parte della donna”; b) l’odierno ricorrente, nel costituirsi in giudizio, si è opposto alla domanda di delibazione, deducendo soltanto, in particolare, che l’accertata esclusione unilaterale dell’indissolubilità del matrimonio da parte della moglie non gli era stata mai resa nota; c) i Giudici a quibus hanno accolto la domanda di delibazione affermando, tra l’altro, che detta sentenza canonica non contiene disposizioni contrarie all’ordine pubblico interno – in quanto l’esclusione dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale da parte della controricorrente era stata “manifestata, secondo i giudici ecclesiastici, anche a terzi, in particolare al padre, alla madre, al fratello e all’amica M. M. e percepita dallo zio del convenuto, don P. G., secondo cui “in occasione dei colloqui in preparazione del matrimonio lei si dichiarò atea e si limitò ad una accettazione solo formale degli impegni del matrimonio”, perciò ragionevolmente.
conosciuta anche dal convenuto, attesa l’abitualità della esternazione da parte dell’attrice anche fuori dal contesto familiare” -, e che tale conclusione di merito, circa l’affermata conoscenza del ricorrente della esclusione, da parte della moglie, dell1 indissolubilità del vincolo matrimoniale, è conforme all’orientamento della Corte di cassazione sull’ammissibilità della delibazione nei casi in cui l’esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii sia conosciuta, o conoscibile secondo l’ordinaria diligenza, da parte dell’altro coniuge.
Tale specifica ratio decidendi è censurata dal ricorrente con il secondo motivo, che è infondato e, per alcuni versi, inammissibile.
Infondato, perchè – contrariamente a quanto dedotto dallo stesso ricorrente -, la Corte di Venezia ha applicato alla fattispecie il consolidato principio più volte affermato da questa Corte, secondo cui la dichiarazione di esecutività della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per esclusione, da parte di uno solo dei coniugi, di uno dei bona matrimonii, postula che la divergenza unilaterale tra volontà e dichiarazione sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero che sia stata da questo effettivamente conosciuta, o che non gli sia stata nota esclusivamente a causa della sua negligenza, in quanto, qualora le menzionate situazioni non ricorrano, la delibazione trova ostacolo nella contrarietà all’ordine pubblico italiano, nel cui ambito va ricompreso il principio fondamentale di tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole (cfr., ex plurimis e tra le ultime, la sentenza n. 3378 del 2012). Inammissibile invece – laddove il ricorrente critica la sentenza impugnata sotto il profilo dei vizi di motivazione -, perchè le censure svolte si risolvono sostanzialmente in critiche alla valutazione effettuata dai Giudici a quibus relativamente ai contenuti della prova testimoniale assunta nel giudizio di delibazione, essendo noto che il convincimento espresso dal giudice del merito sulla conoscenza o conoscibilità da parte del coniuge della riserva mentale unilaterale dell’altro costituisce, se motivato secondo un logico e corretto iter argomentativo – come nella specie -, statuizione insindacabile in sede di legittimità (cfr., ex plurimis, la stessa sentenza n. 3378 del 2012).
E’ soltanto con il primo motivo che il ricorrente critica la sentenza impugnata, deducendo – per la prima volta in questa sede – la contrarietà all’ordine pubblico interno ~ degli effetti riconosciuti dalla Corte di Venezia alla pronuncia canonica di nullità del matrimonio concordatario, contratto con la moglie circa dieci anni prima, elevando ad indici rivelatori di detta contrarietà all’ordine pubblico sia la convivenza protratta per l’intera durata del rapporto matrimoniale sia la nascita di una figlia, e richiamando a supporto della censura il principio enunciato con la più volte menzionata sentenza di questa Corte n. 1343 del 2011.
Questo motivo è inammissibile, per la decisiva ragione che la deduzione della “convivenza come coniugi” successiva alla celebrazione del matrimonio de quo, quale situazione giuridica ostativa alla stessa delibabilità della sentenza canonica, è stata effettuata per la prima volta – in palese contrasto con i su affermati principi di diritto (cfr., supra, n. 4.4.) – nel presente giudizio di legittimità: è lo stesso ricorrente, infatti, ad asserire che nel giudizio a quo si è opposto alla domanda di delibazione proposta dalla moglie, deducendo la contrarietà della sentenza canonica delibanda all’ordine pubblico italiano esclusivamente sotto il profilo della violazione del “principio inderogabile della tutela della buonafede e dell’affidamento incolpevole” (cfr. Ricorso, pag. 2), ciò a prescindere dalla estrema genericità di detta deduzione, non essendo certo sufficiente, in applicazione degli stessi principi, la mera allegazione – senza nel contempo specificare fatti e comportamenti dei coniugi successivi alla celebrazione del matrimonio – che “la durata del matrimonio, la nascita di un figlio e, comunque, la condotta tenuta dalla F. dopo la celebrazione del rito e durante la convivenza, costituiscono ostacolo alla delibazione della sentenza canonica da parte del giudice ordinario” (cfr. Ricorso, pag. 5).
5.2. – La circostanza che la presente decisione compone un contrasto di giurisprudenza, nonchè la sostanziale novità della maggior parte delle questioni trattate costituiscono gravi ed eccezionali ragioni, ai sensi dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., per compensare integralmente tra le parti le spese del presente grado del giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 3 dicembre 2013.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
sentenza 17 luglio 2014, n. 16379
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente Sezione –
Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione –
Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –
Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –
Dott. DI PALMA Salvatore – rel. Consigliere –
Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –
Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –
Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 12658/2011 proposto da:
T.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI RIPETTA 258, presso lo studio dell’avvocato DEL FAVERO LUCA, rappresentato e difeso dall’avvocato BRUNO ROCCO, per delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
F.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FONTANELLA BORGHESE 72, presso lo studio dell’avvocato VOLTAGGIO PAOLO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati ELISABETTA FRACCALANZA, BARTONE NICOLA, per delega in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 58/2011 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 11/01/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/12/2013 dal Consigliere Dott. SALVATORE DI PALMA;
uditi gli avvocati Rocco BRUNO, Nicola BARTONE, Elisabetta FRACCALANZA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso con eventuale enunciazione del principio di diritto ex art. 363 c.p.c., o rigetto.
Svolgimento del processo
1. – Con citazione del 29 gennaio 2010, F.F. convenne dinanzi alla Corte d’Appello di Venezia T.D., esponendo che: 1) aveva contratto matrimonio concordatario con il T. il (OMISSIS); 2) il matrimonio era stato dichiarato nullo dal Tribunale ecclesiastico regionale Triveneto – “per esclusione della indissolubilità del vincolo da parte della donna” – con sentenza del 22 gennaio 2009, confermata con decreto del Tribunale ecclesiastico regionale Lombardo di appello del 3 settembre 2009 e resa esecutiva con decreto del Supremo Tribunale della Segnatura apostolica del 9 dicembre 2009.
Tanto esposto, la F. chiese che la Corte d’Appello adita dichiarasse l’efficacia di detta sentenza canonica nella Repubblica Italiana.
Costituitosi, il T. si oppose alla domanda, deducendo in particolare che l’accertata esclusione unilaterale dell’indissolubilità del matrimonio da parte della moglie non gli era stata mai resa nota.
La Corte di Venezia, con sentenza dell’11 gennaio 2011, ha dichiarato l’efficacia nella Repubblica Italiana della predetta sentenza canonica, affermando, tra l’altro e in particolare, che:
a) tale sentenza canonica non contiene disposizioni contrarie all’ordine pubblico interno, in quanto l’esclusione dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale da parte della F. era stata “manifestata, secondo i giudici ecclesiastici, anche a terzi, in particolare al padre, alla madre, al fratello e all’amica M.M. e percepita dallo zio del convenuto, don P.G., secondo cui “in occasione dei colloqui in preparazione del matrimonio lei si dichiarò alea e si limitò ad una accettazione solo formale degli impegni del matrimonio”, perciò ragionevolmente conosciuta anche dal convenuto, attesa l’abitualità della esternazione da parte dell’attrice anche fuori dal contesto familiare”;
b) questa conclusione di merito, circa l’affermata conoscenza da parte del T. – della esclusione, da parte della moglie, dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale, è conforme all’orientamento della Corte di cassazione sull’ammissibilità della delibazione nei casi in cui l’esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii sia conosciuta, o conoscibile secondo l’ordinaria diligenza, da parte dell’altro coniuge (vengono richiamate le sentenze nn. 1822 del 2005 e 6128 del 1985).
2. – Avverso tale sentenza T.D. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi di censura.
Ha resistito, con controricorso illustrato da memoria, F. F..
3. – Assegnato il ricorso alla Prima Sezione, questa, con ordinanza interlocutoria n. 712/2013 del 14 gennaio 2013, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione dello stesso ricorso alle Sezioni Unite, in relazione al primo motivo, con il quale il ricorrente ha dedotto la contrarietà all’ordine pubblico interno degli effetti della predetta sentenza canonica, ciò in ragione del rilievo che la convivenza matrimoniale aveva avuto una durata di molti anni successivamente alla celebrazione del matrimonio ed era stata accompagnata dalla nascita di una figlia, e che una convivenza siffatta integra un principio di ordine pubblico ostativo alla delibazione, secondo l’orientamento espresso dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 1343 del 2011.
Al riguardo ed in particolare, la citata ordinanza interlocutoria ha, tra l’altro, testualmente osservato quanto segue:
“(…) La tematica introdotta dalle riferite opposte tesi difensive, non ancora contrastanti all’epoca della decisione assunta dalla Corte d’appello di Venezia, che ha dichiarato l’efficacia nel territorio dello Stato della sentenza di nullità pronunciata dal giudice ecclesiastico trascurando la disamina circa la portata ostativa ovvero l’irrilevanza della durata decennale del matrimonio celebrato tra le parti in causa ed allietato anche dalla nascita di una figlia, registra il riferito contrasto tra l’enunciato invocato dal ricorrente, espresso con la sentenza n. 1343/2011, ed il successivo recente arresto n. 8926 del 2012, evocato dalla controparte, palesemente espressivi di antitetica opzione esegetica. Afferma la sentenza n. 1343/2011 che la prolungata convivenza tra i coniugi rappresenta condizione ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario laddove si sia tradotta in un rapporto corrispondente alla durata del matrimonio o comunque ad un periodo di tempo considerevole dopo la celebrazione del matrimonio e la scadenza del termine per l’impugnativa del matrimonio-atto, in quanto siffatta situazione esprime la volontà di accettazione del rapporto proseguito, confliggente con l’esercizio della facoltà di rimetterlo in discussione adducendo, per quel che rileva in questa sede, riserva mentale risalente al tempo delle nozze, cioè un vizio del matrimonio – atto non più azionabile dopo la scadenza dei termini per l’impugnativa, e concretante incompatibilità ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario. La costruzione esegetica, che assume a dato dirimente la durata del matrimonio intesa quale convivenza prolungata dei coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio, richiamando espressamente l’arresto delle S.U. n. 19809 del 18 luglio 2008, rileva che l’ordine pubblico interno matrimoniale manifesta il “favor” per la validità del matrimonio, quale fonte del rapporto familiare incidente sulla persona e oggetto di rilievo e tutela costituzionali (Cass. S.U. 2008/19809) e, per l’effetto, nella cornice sistematica regolata secondo i dettami dell’art. 29 Cost., e della riforma del diritto di famiglia, attribuisce rilievo preminente al matrimonio – rapporto fondato sull’unione coniugale, a sua volta fondante il rapporto familiare. Le ragioni che, attenendo alla coscienza dei nubendi, rilevano per la legge canonica, non necessariamente concretano cause invalidanti del matrimonio per l’ordinamento civile e, pur se ravvisabili, restano sanate dal protrarsi del rapporto che ne è seguito. A questo orientamento si è sostanzialmente uniformata la sentenza n. 9844/2012 in un caso in cui la sentenza del tribunale ecclesiastico aveva dichiarato la nullità del matrimonio concordatario per difetto di consenso, assumendo tale vizio psichico a condizione d’inettitudine del soggetto ad intendere i diritti ed i doveri del matrimonio al momento della manifestazione del consenso, sostanzialmente conforme all’ipotesi di invalidità contemplata dall’art. 120 c.c., sostenendo all’esito che la durata ventennale del matrimonio prospettata dalla ricorrente come impeditiva della delibazione, secondo il principio dettato da Cass. 2011 n. 1343, non rilevava nella specie, essendosi la medesima ricorrente limitata a porre in evidenza solo detto elemento temporale, e non l’effettiva convivenza dei coniugi nello stesso periodo, che in ogni caso avrebbe dovuto essere dedotta e provata in sede di delibazione. Anche Cass. 2012 n. 1780 ha aderito al richiamato arresto, con la distinzione concettuale ad esso sottesa tra matrimonio – atto e matrimonio – rapporto, pur escludendo nella specie l’instaurazione di un matrimonio – rapporto duraturo e radicato. Se ne è invece consapevolmente discostata la sentenza n. 8926 del 2012 che, in fattispecie in cui si era accertato il vizio simulatorio di uno degli sposi, ha escluso che la convivenza dei coniugi successiva alla celebrazione del matrimonio, che pur nella specie considerata si era protratta per oltre trent’anni, “esprima norme fondamentali che disciplinano l’istituto del matrimonio e, pertanto, non è ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico”. L’arresto si colloca espressamente nel solco tracciato dal precedente delle S.U. n. 4700/1988 che aveva risolto analogo contrasto affermando che “Con riguardo alla sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per esclusione unilaterale di uno dei “bona matrimonii”, manifestata all’altro coniuge, la delibazione, nella disciplina di cui alla L. 27 maggio 1929, n. 810, art. 1, e L. 27 maggio 1929, n. 847, art. 17, (nel testo risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 18 del 1982), deve ritenersi consentita anche se detta nullità sia stata dichiarata su domanda proposta dopo il decorso di un anno dalla celebrazione, ovvero dopo il verificarsi della convivenza dei coniugi successivamente alla celebrazione stessa, in difformità dalla disposizione dettata dall’art. 123 c.c., comma 2, in tema d’impugnazione del matrimonio per simulazione, atteso che la norma, pur avendo carattere imperativo, non configura espressione di principi e regole fondamentali con le quali la Costituzione e le leggi dello Stato delineano l’istituto del matrimonio, e che, pertanto, la indicata difformità non pone la pronuncia ecclesiastica in contrasto con l’ordine pubblico italiano”. E, a lume di questa esegesi, conclude assumendo che la convivenza, pur esprimendo l’effettiva comunione spirituale e materiale creatasi tra i coniugi nonostante il vizio genetico riscontrato dal giudice ecclesiastico, non comporta contrasto tra i due ordinamenti, quello canonico che regola la validità del matrimonio-atto e quello interno che, a dispetto del riscontrato difetto, opta per la stabilità del matrimonio – rapporto trascorso il tempo ritenuto congruo dal legislatore. Ed invero, prosegue nella motivazione la sentenza n. 8926/2012, “considerata la natura dei rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, disciplinati da accordi il cui valore, nell’ambito del principio di bilateralità, è consacrato nell’art. 7 Cost., comma 2, che fornisce copertura costituzionale anche agli accordi successivi ai Patti Lateranensi, ivi espressamente indicati”, e pur nel vigore della L. 25 marzo 1985, n. 121, che ha dato esecuzione all’accordo di modificazioni ed al protocollo addizionale del 18 febbraio 1984 tra la Santa Sede e l’Italia, restando attribuita in via esclusiva al tribunale ecclesiastico la cognizione sull’invalidità del matrimonio concordatario, siccome disciplinato nel suo momento genetico dalla legge canonica, la Corte d’appello, chiamata in sede di delibazione ad attribuirne efficacia nel nostro territorio, è tenuta a “trovare un punto di equilibrio” nelle non poche ipotesi di divergenza tra il diritto canonico e quello civile. Di qui “la necessità di delimitare il concetto di “ordine pubblico interno” circoscrivendolo al caso (cfr. S. U. n. 5026/1982) in cui si ravvisi una contrarietà ai canoni essenziali cui secondo l’ordinamento interno è improntata la struttura dell’istituto matrimoniale, tra i quali non si annovera l’instaurazione del “matrimonio – rapporto” e la stabilità ad esso attribuita dalla previsione dell’art. 123 c.c., comma 2.
Affermata dai plurimi arresti citati nella motivazione della sentenza riferita (Cass. 10 maggio 2006 n. 10796, 7 aprile 2000 n. 4387, 7 aprile 1997 n. 2002, 17 giugno 1990 n. 6552 e 17 ottobre 1989 n. 4166), la tesi ivi propugnata si colloca in una cornice interpretativa del tutto contrastante con quella fondante la sentenza n. 1343/2011 che ha inteso far riferimento alla nozione di ordine pubblico predicata dalla sentenza delle sezioni unite del 18 luglio 2008 n. 19809, che tuttavia, in un caso di nullità basata su un vizio del consenso scaturente dall’ignoranza dell’infedeltà prematrimoniale di uno dei coniugi, e “nell’ambito della delineata distinzione fra cause di incompatibilità assolute e relative (essendo soltanto le prime ostative alla delibazione in considerazione del favor al riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale ai sensi del citato Protocollo addizionale)”, ha concluso per l’irrilevanza nel giudizio di legittimità della convivenza come causa ostativa alla delibazione, in quanto la relativa eccezione non era stata esaminata nè prospettata in sede di merito”.
Tanto premesso ed osservato, la predetta ordinanza interlocutoria, ha così concluso:
“La composizione del rilevato contrasto ad avviso di questo collegio deve essere rimessa alle sezioni unite della Cassazione, cui s’intende sottoporre la definizione anche delle ulteriori questioni originate dalle riferite opzioni interpretative, allo stato irrisolte, secondo il seguente ordine logico: 1. – se la protrazione ultrannuale della convivenza rappresenti condizione integrante violazione dell’ordine pubblico interno e per l’effetto sia ostativa alla dichiarazione d’efficacia della sentenza di nullità del matrimonio pronunciata dal giudice ecclesiastico, ed in presenza di quali vizi del matrimonio – atto operi, in tesi, tale preclusione. In questa cornice, in particolare, se il limite dell’ordine pubblico si riferisca alla convivenza da intendersi quale coabitazione materiale, cui fanno riferimento gli artt. 120 e 122 c.c., in caso di vizi del consenso, ovvero sia “significativa di un’instaurata affectio familiae, nel naturale rispetto dei diritti ed obblighi reciproci, per l’appunto, come tra (veri) coniugi (art. 143 c.c.), tale da dimostrare l’instaurazione di un matrimonio – rapporto duraturo e radicato nonostante il vizio genetico del matrimonio – atto” (Cass. n. 1780/2012), dovendo in tal senso intendersi la locuzione “abbiano convissuto come coniugi” di cui all’art. 123 c.c., comma 2, in caso di simulazione. E, in logica consecuzione; 2. – se, in caso affermativo, il contrasto tra l’indicata condizione e l’ordine pubblico interno sia verificabile d’ufficio dalla Corte d’appello, versandosi in un caso d’impedimento assoluto alla riconoscibilità della sentenza ecclesiastica (in tal senso Cass. citata n. 1780 del 2012), dal momento che l’ordine pubblico esprime valori di natura indeclinabile ed è per l’effetto indisponibile, ovvero sia rilevabile solo su eccezione della parte che si oppone alla delibazione; 3. – se, ammessa la rilevabilità d’ufficio, rientri nei poteri della Corte d’appello, la cui indagine è astretta entro il limite del compendio istruttorio formatosi nel giudizio ecclesiastico, disporre l’acquisizione di ulteriori elementi di verifica; 4. – se l’incompatibilità in discorso, laddove si ritenga rilevabile d’ufficio, sia riscontrabile anche dalla Corte di Cassazione se emerge dagli atti (secondo quanto è avvenuto in sede di pronuncia n. 1343/2011) e sia dunque scrutinabile senza necessità d’ulteriore istruttoria.(…)”.
4. – Assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, la controricorrente ha depositato ulteriore memoria.
5. – All’esito dell’odierna udienza di discussione, il Procuratore generale ha concluso, in via principale, per l’inammissibilità del ricorso – previa eventuale enunciazione del principio di diritto ai sensi dell’art. 363 c.p.c., ovvero, in subordine, per il suo rigetto.
Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo (con cui deduce: “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto – art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla L. n. 121 del 1985, art. 8, all’art. 123 c.c., e all’art. 29 Cost.”), il ricorrente critica la sentenza impugnata, deducendo la contrarietà all’ordine pubblico interno degli effetti riconosciuti dalla Corte di Venezia alla pronuncia d’annullamento del matrimonio concordatario, seppur celebrato con la F. dieci anni prima, elevandone ad indici rivelatori la convivenza protratta per l’intera durata del rapporto matrimoniale e la nascita di una figlia. Lo stesso ricorrente richiama a sostegno della censura il principio enunciato nella sentenza di questa Corte n. 1343 del 2011, secondo cui l’ordine pubblico interno matrimoniale evidenzia un palese favor per la validità del matrimonio quale fonte del rapporto familiare che, ove si sia protratto per lungo periodo di tempo, osta alla delibazione della pronuncia canonica di nullità, che investe l’atto.
Con il secondo motivo (con cui deduce: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., – Omessa e/o insufficiente motivazione – art. 360 c.p.c., n. 5. Violazione dell’art. 116 c.p.c., – Omessa e/o erronea valutazione degli elementi di prova – art. 360 c.p.c., n. 3), il ricorrente critica ancora la sentenza impugnata, segnatamente sotto il profilo dei vizi di motivazione, deducendo che i Giudici a quibus, nel desumere la conoscenza, da parte dello stesso ricorrente, della esclusione della indissolubilità del vincolo matrimoniale esclusivamente dalla sentenza canonica e dalle deposizioni testimoniali degli stretti congiunti della moglie, ha erroneamente valutato le prove e, comunque, ha insufficientemente motivato al riguardo.
2. – La controricorrente, preliminarmente, eccepisce il difetto di autosufficienza del ricorso e, quindi, la sua inammissibilità, palesata dall’omessa specificazione degli elementi in cui si è concretata la vicenda fattuale; deduce altresì la sua infondatezza, fondandola sull’inapplicabilità del principio di cui alla sentenza n. 1343 del 2011, siccome enunciato in una fattispecie nella quale il giudice ecclesiastico aveva escluso il bonum prolis, diversa perciò dal caso – quale quello di specie – di esclusione del vincolo dell’indissolubilità del matrimonio accertata dal tribunale ecclesiastico, e richiama a sua volta, con la prima e con la seconda memoria difensiva, il principio affermato da questa Corte con la sentenza n. 8926 del 2012, con cui è stato escluso che la convivenza fra i coniugi rappresenti condizione ostativa alla delibazione della sentenza di nullità del matrimonio canonico, ribadendo così un principio consolidato, contrastato unicamente dalla più volte citata sentenza n. 1343 del 2011.
2.1. – L’eccezione di inammissibilità del ricorso, per mancanza di autosufficienza, è palesemente infondata, perchè – contrariamente a quanto dedotto dalla controricorrente – il ricorso contiene tutti gli elementi, di fatto, necessari per la comprensione della fattispecie, e di diritto, posti a base delle censure mosse alla sentenza impugnata, della quale, in particolare, si individua esattamente la ratio decidendi che viene censurata.
3. – Le Sezioni Unite sono chiamate, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, a pronunciarsi sul contrasto determinatosi, nell’ambito della Prima Sezione, tra – da un lato – le sentenze nn. 1343 del 2011, 1780 e 9844 del 2012 e – dall’altro – la sentenza n. 8926 del 2012 (che, peraltro, ribadisce il consolidato orientamento di queste Sezioni Unite, inaugurato con le note sentenze nn. 4700, 4701, 4702 e 4703 del 1988), contrasto i cui termini essenziali sono esattamente ed esaurientemente esposti nella su riprodotta ordinanza di rimessione (cfr., supra, Svolgimento del processo, n. 3.).
3.1. – Va premesso che la fattispecie sottostante al ricorso in esame – per quanto ora rileva ai fini della pronuncia sul denunciato contrasto, fatto salvo quanto successivamente si dirà in sede di esame nel merito del ricorso medesimo (cfr., infra, n. 5.) – sta in ciò, che il matrimonio “concordatario” de quo, celebrato in data (OMISSIS) e caratterizzato anche dalla nascita di una figlia nel (OMISSIS), è stato dichiarato nullo dal Tribunale ecclesiastico regionale Triveneto con sentenza del 22 gennaio 2009, confermata con decreto del Tribunale ecclesiastico regionale Lombardo di appello del 3 settembre 2009 e resa esecutiva con decreto del Supremo Tribunale della Segnatura apostolica del 9 dicembre 2009, “per esclusione della indissolubilità del vincolo da parte della donna”. Della pronuncia canonica di nullità di questo matrimonio – che ha avuto, dunque, dalla sua celebrazione a tale pronuncia canonica definitiva, una durata di undici anni e sei mesi circa – l’odierna controricorrente ha chiesto ed ottenuto la dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana da parte della Corte d’Appello di Venezia con la sentenza impugnata.
3.2. – Va premesso, altresì, che alcune incertezze emergenti sia dalla motivazione della sentenza impugnata sia dagli scritti difensivi delle parti – circa la disciplina applicabile a tale fattispecie: se, cioè, la L. 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell’Accordo, con Protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), e/o la L. 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), nonchè circa la sussistenza o no della giurisdizione italiana a conoscere la fattispecie medesima – inducono il Collegio a chiarire, in limine, il quadro normativo di riferimento e gli orientamenti giurisprudenziali rilevanti per il superamento di tali incertezze, ribadendo peraltro, con alcune precisazioni ed integrazioni, principi già più volte espressi, esplicitamente od implicitamente, da questa Corte.
3.2.1. – Quanto alla disciplina legislativa applicabile dal Giudice italiano alla materia della delibazione delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio, non v’è alcun dubbio che tale materia è regolata esclusivamente dai menzionati Accordo e Protocollo addizionale del 18 febbraio 1984, resi esecutivi dalla legge n. 121 del 1985: in particolare dall’art. 8, paragrafo 2, dell’Accordo e dal punto 4 del Protocollo, nonchè dalle disposizioni della legge italiana cui essi rinviano, specificamente (rinvio “materiale” agli artt. 796 e 797 c.p.c., del 1940, di cui al punto 4, lett. b, del Protocollo) o genericamente (come fanno, ad esempio, l’art. 8, paragrafo 2, lett. b e c, dell’Accordo, e il punto 4, lett. b, n. 1, del Protocollo).
Nè potrebbe essere diversamente: sia perchè la stessa L. n. 218 del 1995, nell’art. 2, comma 1, stabilisce, conformemente ai principi del rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (art. 117 Cost., comma 1) e di specialità, che “Le disposizioni della presente legge non pregiudicano l’applicazione delle convenzioni internazionali in vigore per l’Italia”, sia, e soprattutto, perchè la nuova disciplina convenzionale (anche) della materia matrimoniale, originariamente dettata dall’art. 34 del citato Concordato del 1929 – essendo già compresa nell’oggetto dei Patti Lateranensì, costituendo quindi attuazione del “principio concordatario”, costituzionalizzato dall’art. 7 Cost., comma 2, ed esigendo perciò il rispetto dell’impegno alle modificazioni dei Patti sulla base di intese bilaterali (si vedano anche gli artt. 13, paragrafo 2, e 14 dell’Accordo), salva la possibilità di promozione del procedimento di revisione costituzionale, di cui all’art. 138 Cost., per l’eventuale modificazione unilaterale dei Patti, trova nell’Accordo e nel Protocollo addizionale del 1984, resi esecutivi appunto con la legge formale ordinaria n. 121 del 1985, la sua fonte esclusiva (cfr.
al riguardo, ex plurimis, la sentenza di queste Sezioni Unite n. 1824 del 1993, nonchè le sentenze nn. 8764 del 2003 e 24990 del 2010).
A conferma di ciò, del resto, possono menzionarsi, non soltanto l’art. 82 c.c., – successivo alla stipulazione dei Patti Lateranensi, ma anche: a) da un lato, il Regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il Regolamento (CE) n. 1347/2000, il quale, in deroga alla disciplina dettata in materia di riconoscimento (anche) delle decisioni di divorzio, di separazione personale o di annullamento di matrimonio (art. 22 che, alla lettera a, impedisce il riconoscimento, fra l’altro, se esso “è manifestamente contrario all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto”), fa esplicitamente salva l’applicazione del Concordato lateranense, come modificato dall’Accordo del 1984, al riconoscimento delle decisioni relative all’invalidità di un matrimonio (art. 63, paragrafo 3, lett. a); b) dall’altro, la sentenza n. 421 del 1993 della Corte costituzionale che – investita della questione di legittimità costituzionale della L. 27 maggio 1929, n. 810, art. 1, (Esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi e del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la Santa Sede e l’Italia, l’11 febbraio 1929), nella parte in cui da esecuzione all’art. 34, comma 4, del Concordato fra la Santa Sede e lo Stato italiano dell’11 febbraio 1929, sollevata in riferimento all’art. 7 Cost., comma 1, nel dichiarare inammissibile la questione per difetto di rilevanza nel giudizio a quo della disposizione censurata, ha affermato che “le modificazioni del Concordato espresse dall’Accordo del 1984 disciplinano l’intera materia e impediscono, quindi, di fare ricorso a testi normativi precedenti” (n. 4 del Considerato in diritto).
Tuttavia, non essendo stata data ulteriore e specifica attuazione con legge formale ordinaria ai nuovi Accordi del 1984, residuano margini di incertezza – che in questa sede però non rilevano immediatamente – circa l’attuale vigenza di alcune norme della L. 27 maggio 1929, n. 847, (Disposizioni per l’applicazione del Concordato dell’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia, nella parte relativa al matrimonio), come emerge chiaramente dalle osservazioni al riguardo fatte dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 329 del 2001, che ha ritenuto attualmente in vigore l’art. 18 di tale legge (cfr. n. 3.1. del Considerato in diritto; cfr. anche, nel medesimo senso, ex plurimis, le sentenze nn. 399 del 2010 e 17094 del 2013).
3.2.2. – Quanto, poi, alla giurisdizione del Giudice italiano nelle materie della nullità civile del matrimonio concordatario e della delibazione delle sentenze canoniche di nullità di tale matrimonio, è sufficiente ribadire – in continuità con i condivisi costanti orientamenti delle Sezioni Unite di questa Corte, costituenti ormai “diritto vivente” (cfr., ex plurimis, la sentenza n. 1824 del 1993 e l’ordinanza n. 14839 del 2011) – che:
a) l’Accordo (ed il Protocollo addizionale) del 1984, pur confermando, anche se implicitamente, la giurisdizione ecclesiastica sulle controversie in materia di nullità del matrimonio celebrato secondo le norme del diritto canonico (art. 8, paragrafo 2, dell’Accordo e punto 4 del Protocollo), non “riserva” più tale giurisdizione ai “tribunali e (…) dicasieri ecclesiastici” (art. 34, comma 4, del Concordato lateranense del 1929), nè più “riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, effetti civili” (art. 34, primo paragrafo), tali “riserva” e “riconoscimento” dovendo ritenersi certamente abrogati in forza dell’art. 13, paragrafo 1, secondo periodo, dell’Accordo medesimo, secondo cui le disposizioni del Concordato lateranense “non riprodotte come, appunto, l’art. 34 nel presente testo sono abrogate”;
b) conseguentemente, sulle controversie aventi ad oggetto la nullità del matrimonio concordatario, regolarmente trascritto nei registri dello stato civile italiani, promosse dinanzi sia al giudice ecclesiastico sia al giudice civile, “concorrono” autonomamente la giurisdizione italiana e la giurisdizione ecclesiastica, determinandosi il rapporto tra l’una e l’altra in base al criterio della giurisdizione preventivamente adita;
c) a seguito: prima, nella vigenza dell’art. 34 del Concordato lateranense, della fondamentale sentenza della Corte costituzionale n. 18 del 1982 – che, tra l’altro, dichiarò l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 1 Cost., comma 2, art. 7 Cost., comma 1, e art. 24 Cost., comma 1, (anche) “della L. 27 maggio 1929, n. 810, art. 1 (…), limitatamente all’esecuzione data all’art. 34, comma 6, del Concordato, e della L. 27 maggio 1929, n. 847, art. 17, comma 2, (…), nella parte in cui le norme suddette non prevedono che alla Corte d’appello, all’atto di rendere esecutiva la sentenza del tribunale ecclesiastico, che pronuncia la nullità del matrimonio, spetta accertare che nel procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti, e che la sentenza medesima non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano”; nonchè della stessa L. n. 810 del 1929, art. 1, “limitatamente all’esecuzione data all’art. 34, commi 4, 5 e 6, del Concordato”, e la L. n. 847 del 1929, art. 17, “nella parte in cui le suddette norme prevedono che la Corte d’appello possa rendere esecutivo agli effetti civili il provvedimento ecclesiastico, col quale è accordata la dispensa dal matrimonio rato e non consumato, e ordinare l’annotazione nei registri dello stato civile a margine dell’atto di matrimonio”, e, poi, dell’entrata in vigore dell’Accordo e del Protocollo addizionale del 1984, non può più dubitarsi dell’attribuzione allo Stato italiano della piena ed effettiva giurisdizione, intesa quale indefettibile manifestazione della sua sovranità, in ordine al giudizio di delibazione delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio, ogni questione vertendo, semmai – come si vedrà più oltre, soltanto sui cosiddetti “limiti interni” all’esercizio di tale giurisdizione, secondo la legge italiana interpretata anche alla luce dell’Accordo di Villa Madama.
3.3. – Tanto premesso, la stessa ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite ha ben evidenziato che la principale questione di diritto, decisa in modo difforme dalle su menzionate sentenze della Prima Sezione, consiste nello stabilire: – se la sentenza canonica di nullità del matrimonio, pronunciata dal tribunale ecclesiastico, possa essere dichiarata efficace nella Repubblica italiana – oppure no, per violazione dell’ordine pubblico interno -, nel caso di convivenza tra i coniugi protrattasi per un certo periodo di tempo (che nell’ordinanza di rimessione viene individuato in un periodo superiore all’anno), e quali siano i vizi del “matrimonio – atto”, posti a base della pronunciata nullità canonica, eventualmente ostativi a detta dichiarazione d’efficacia; – se, in particolare, “il limite dell’ordine pubblico si riferisca alla convivenza da intendersi quale coabitazione materiale, cui fanno riferimento gli artt. 120 e 122 c.c., in caso di vizi del consenso, ovvero sia “significativa di un’instaurata affectio familiae, nel naturale rispetto dei diritti ed obblighi reciproci, per l’appunto, come tra (veri) coniugi (art. 143 c.c.), tale da dimostrare l’instaurazione di un matrimonio – rapporto duraturo e radicato nonostante il vizio genetico del matrimonio – atto” (Cass. n. 1780/2012), dovendo in tal senso intendersi la locuzione “abbiano convissuto come coniugi” di cui all’art. 123 c.c., comma 2, in caso di simulazione”.
3.3.1. – La corretta risposta a tali quesiti richiede la preliminare individuazione del quadro normativo di riferimento rilevante, costituito – come già affermato (cfr., supra, n. 3.2.1.) -, dalle pertinenti disposizioni dell’Accordo e del Protocollo addizionale del 1984, nonchè dalle norme di diritto interno ivi richiamate, ed inoltre da due fondamentali pronunce della Corte costituzionale le quali, ancorchè risalenti nel tempo, conservano intatto il loro valore ermeneutico quanto ai principi ivi affermati: le sentenze n. 18 del 1982 (già menzionata dianzi: cfr., supra, n. 3.2.2., lett. c) e n. 203 del 1989.
L’art. 8, dell’Accordo – dopo aver statuito, nel primo periodo del numero 1, che “Sono riconosciuti gli effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico, a condizione che l’atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni nella casa comunale” -, nel n. 2, lett. c), stabilisce: “2. Le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, che siano munite del decreto di esecutività del superiore organo ecclesiastico di controllo, sono, su domanda delle parti o di una di esse, dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con sentenza della corte d’appello competente, quando questa accerti:(…) c) che ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere”.
A sua volta, il Protocollo addizionale, in riferimento all’art. 8, n. 2, dell’Accordo, nel punto 4, alla lett. 6), precisa: “(…) ai fini dell’applicazione degli artt. 796 e 797 del codice italiano di procedura civile, si dovrà tener conto della specificità dell’ordinamento canonico dal quale è regolato il vincolo matrimoniale, che in esso ha avuto origine”. La stessa lett. b) del punto 4 prosegue, disponendo: “In particolare: 1) si dovrà tener conto che i richiami fatti dalla legge italiana alla legge del luogo in cui si è svolto il giudizio si intendono fatti al diritto canonico; 2) si considera sentenza passata in giudicato la sentenza che sia divenuta esecutiva secondo il diritto canonico; 3) si intende che in ogni caso non si procederà al riesame del merito”.
Infine, il richiamato art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, (cfr., supra, n. 3.2.1.) dispone(va): “La corte d’appello dichiara con sentenza l’efficacia nella Repubblica della sentenza straniera quando accerta:
(…) 7) che la sentenza non contiene disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano”.
Con la già citata sentenza n. 18 del 1982, la Corte costituzionale – nel dichiarare, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 1 Cost., comma 2, art. 7, comma 1, e art. 24 Cost., comma 1, “della L. 27 maggio 1929, n. 810, art. 1 (…), limitatamente all’esecuzione data all’art. 34, comma 6, del Concordato, e della L. 27 maggio 1929, n. 847, art. 17, comma 2, (…), nella parte in cui le norme suddette non prevedono che alla Corte d’appello, all’atto di rendere esecutiva la sentenza del tribunale ecclesiastico, che pronuncia la nullità del matrimonio, spetta accertare che nel procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti, e che la sentenza medesima non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano” – ha, tra l’altro, affermato:
a) “Le norme denunciate, interpretate come dianzi esposto nel senso, cioè, che la pronuncia di esecutività della corte d’appello sarebbe contraddistinta da una sorta di “automaticità”, incidono profondamente e radicalmente sui poteri che in via generale sono attribuiti al giudice, in correlazione con i prescritti accertamenti, allorchè sia chiamato a dichiarare l’efficacia nell’ordinamento dello Stato italiano di sentenze emesse in ordinamenti a questo estranei. Ed invero, nello speciale procedimento da esse disciplinato, la mutilazione e la vanificazione dei cennati poteri del giudice italiano, la preclusione di qualsiasi sindacato che esorbiti dall’accertamento della propria competenza e dalla semplice constatazione che la sentenza di nullità sia anche accompagnata dal decreto del tribunale della Segnatura apostolica e sia stata pronunciata nei confronti di matrimonio canonico trascritto agli effetti civili, degradano la funzione del procedimento stesso ad un controllo meramente formale. Così strutturato, nella sua concreta applicazione lo speciale procedimento di delibazione elude due fondamentali esigenze, che il giudice italiano nell’ordinario giudizio di delibazione è tenuto a soddisfare, prima di dischiudere ingresso nel nostro ordinamento a sentenze emanate da organi giurisdizionali ad esso estranei: l’effettivo controllo che nel procedimento, dal quale è scaturita la sentenza, siano stati rispettati gli elementi essenziali del diritto di agire e resistere a difesa dei propri diritti, e la tutela dell’ordine pubblico italiano onde impedire l’attuazione nel nostro ordinamento delle disposizioni contenute nella sentenza medesima, che siano adesso contrarie”;
b) “Sia l’una che l’altra esigenza si ricollegano e muovono da principi, ai quali si ispirano i parametri costituzionali invocati dai giudici a quibus. Il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti – strettamente connesso ed in parte coincidente con il diritto alla tutela giurisdizionale cui si è fatto dianzi riferimento -trova la sua base soprattutto nell’art. 24 Cost.. La inderogabile tutela dell’ordine pubblico, e cioè delle regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società, è imposta soprattutto a presidio della sovranità dello Stato, quale affermata nell’art. 1, comma 2, e ribadita nell’art. 7 Cost., comma 1. Entrambi questi principi vanno ascritti nel novero dei “principi supremi dell’ordinamento costituzionale”, e pertanto ad essi non possono opporre resistenza le denunciate norme, pur assistite dalla menzionata copertura costituzionale, nella parte in cui si pongono in contrasto con i principi medesimi: nella parte, cioè, in cui non dispongono che il giudice italiano, nello speciale procedimento da esse disciplinato, sia tenuto a quegli accertamenti, e sia all’uopo munito dei relativi poteri, volti ad assicurare il rispetto delle fondamentali esigenze dianzi indicate” (n. 5. del Considerato in diritto; cfr. anche l’ordinanza n. 138 del 1982).
Con la sentenza n. 203 del 1989, la stessa Corte costituzionale – chiamata a pronunciarsi, in riferimento agli artt. 2, 3 e 19 Cost., sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, n. 2, dell’Accordo e del punto 5, lett. b), numero 2, del Protocollo addizionale, nel dubbio che tali disposizioni causassero discriminazione in danno degli studenti non avvalenti si dell’insegnamento della religione cattolica, ove le stesse non potessero interpretarsi nel senso dell’insegnamento religioso come insegnamento meramente facoltativo -, dopo aver premesso che, nella materia in discussione, “gli artt. 3 e 19 vengono in evidenza come valori di libertà religiosa nella duplice specificazione di divieto:
a) che i cittadini siano discriminati per motivi di religione; b) che il pluralismo religioso limiti la libertà negativa di non professare alcuna religione”, ha affermato: “i valori richiamati concorrono, con altri (artt. 7, 8 e 20 Cost.), a strutturare il principio supremo della laicità dello Stato, che è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica. Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost., implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale. Il Protocollo addizionale alla L. n. 121 del 1985, di ratifica ed esecuzione dell’Accordo tra la Repubblica italiana e la Santa Sede esordisce, in riferimento all’art. 1, prescrivendo che “Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”, con chiara allusione all’art. 1 del Trattato del 1929 che stabiliva: “L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’art. 1 dello Statuto del regno del 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato”. La scelta confessionale dello Statuto albertino, ribadita nel Trattato lateranense del 1929, viene così anche formalmente abbandonata nel Protocollo addizionale all’Accordo del 1985, riaffermandosi anche in un rapporto bilaterale la qualità di Stato laico della Repubblica italiana” (nn. 3. e 4. del Considerato in diritto; cfr. anche, ex plurimis, la sentenza n. 334 del 1996, laddove la Corte ha, più in generale, affermato che la “distinzione dell'”ordine” delle questioni civili da quello dell’esperienza religiosa…. caratterizza nell’essenziale il fondamentale o “supremo” principio costituzionale di laicità o non confessionalità dello Stato (…e) significa che la religione e gli obblighi morali che ne derivano non possono essere imposti come mezzo al fine dello Stato”: n. 3.2. del Considerato in diritto; cfr. anche l’ordinanza di queste Sezioni Unite n. 14839 del 2011, cit.).
3.4. – Essendo questo ora delineato il quadro normativo di riferimento rilevante, deve osservarsi che, tra le molteplici ragioni che stanno al fondo del denunciato contrasto, v’è certamente quella fondata sulla tesi per cui, pur non potendosi negare la possibilità di distinguere e la stessa distinzione, sul piano giuridico, tra “matrimonio – atto” e “matrimonio – rapporto” – al secondo dei quali, peraltro, nessuno dubita debba essere ricondotta la situazione giuridica “convivenza tra i coniugi” o “come coniugi”, successiva alla celebrazione del “matrimonio – atto” -, se ne contestano tuttavia il fondamento costituzionale e legislativo e la correlativa tutela, con la conseguenza che detta situazione giuridica di “convivenza”, anche se protrattasi per un certo tempo dopo la celebrazione del matrimonio, non sarebbe idonea, di per sè, ad integrare una “norma” di ordine pubblico interno ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana della sentenza canonica di nullità del matrimonio. Tale questione è decisiva per la composizione del contrasto.
Al riguardo in particolare, con la già menzionata sentenza n. 4700 del 1988, queste Sezioni Unite hanno, tra l’altro, affermato che “(…) la convivenza fra i coniugi, intervenuta successivamente alla celebrazione del matrimonio, ostativa all’impugnazione del matrimonio civile ai sensi dell’art. 123 c.c., comma 2, seppure si pone come una norma imperativa interna, non costituisce espressione di principi o di regole fondamentali con le quali la Costituzione e le leggi dello Stato delineano l’istituto del matrimonio (…)”. E proprio tale affermazione è stata recentemente ribadita dalla su menzionata sentenza della Prima Sezione n. 8926 del 2012 – oggetto del contrasto (cfr., supra, n. 3.) -, laddove si riportano altri condivisi passi della stessa pronuncia delle Sezioni Unite: “Si afferma, quindi, anche all’esito di una disamina dei rapporti fra il giudizio di divorzio e quello relativo alla nullità matrimoniale, che “la limitata portata della convivenza come coniugi” e “l’inesistenza nelle norme costituzionali di un principio chiaramente evincibile circa la prevalenza del matrimonio – rapporto sul matrimonio – atto, anche se viziato”, impediscono la praticabilità di un’interpretazione adeguatrice, per la quale in ogni caso di matrimonio nullo per vizi del consenso l’impugnazione dell’atto sarebbe comunque impedita da detta convivenza come coniugi, che finirebbe col comportare “una sostanziale modifica dell’ordinamento”.
A tali orientamenti, peraltro, si erano già contrapposte queste stesse Sezioni Unite con la sentenza n. 19809 del 2008 (sia pure, incidentalmente, in una fattispecie particolare – diversa da quella del ricorso in esame – in cui è stata confermata la decisione della corte d’appello che aveva ritenuto non delibabile, per contrarietà assoluta con l’ordine pubblico, una sentenza canonica che, nella formazione della volontà dei nubendi, aveva dato rilievo all’errore soggettivo in cui era incorso un coniuge per dolo dell’altro, il quale aveva negato una relazione prematrimoniale con terze persone), laddove hanno affermato: “L’incidenza inderogabile, nel nostro diritto vivente, della forma e della “manifestazione” del consenso da un canto comporta la tipicità con l’oggettività e il carattere esterno delle cause che incidono sulla formazione di esso, perchè possa considerarsi viziata o mancante la volontà e d’altro canto giustificano lo speciale rilievo del “rapporto” coniugale, che, nato dall’atto, incide con la sua realizzazione tipica costituita dalla convivenza o coabitazione spesso per un certo periodo di tempo, come fatto convalidante la volontà espressa all’atto della celebrazione e ostativo, per l’ordine pubblico italiano, a far rilevare l’invalidità del consenso del matrimonio in sede giurisdizionale. La riforma del diritto di famiglia ha collegato al decorso di un tempo in genere maggiore di quello in precedenza ritenuto dalla legge ostativo all’annullamento, il rilievo del matrimonio rapporto, riconosciuto in precedenza ma assunto ora a valore cogente, per lo stretto nesso tra esso e il matrimonio atto, sancito nella Costituzione (art. 29)”(n. 3.1. della motivazione in diritto).
3.5. – La distinzione tra “matrimonio – atto” e “matrimonio – rapporto” e la situazione giuridica “convivenza tra i coniugi” o “come coniugi”, da ricondurre senza dubbio alcuno al “matrimonio – rapporto”, hanno, ad avviso del Collegio – contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza di queste Sezioni Unite n. 4700 del 1988 e dalle successive conformi pronunce -, un nitido e solido fondamento nella Costituzione, nelle Carte Europee dei diritti e nella legislazione italiana. Fondamento che, peraltro, ha radici in dati di immediata esperienza umana e giuridica universale.
Infatti, già l’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 10 dicembre 1948, ed espressamente richiamata nei preamboli sia della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia dalla L. 4 agosto 1955, n. 848, sia del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia dalla L. 25 ottobre 1977, n. 881) – dopo aver affermato che “Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione” – stabilisce che “Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto del suo scioglimento” (paragrafo 1), precisando altresì che “Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi” (paragrafo 2). Dalla piana lettura di queste disposizioni emerge chiaramente non solo la più volte richiamata distinzione tra “matrimonio – atto” (cui si riferiscono il paragrafo 2 e l’espressione “riguardo al matrimonio” del paragrafo 1) e “matrimonio – rapporto” (cui si riferisce l’espressione “durante il matrimonio” dello stesso paragrafo 1), ma anche l’autonoma valorizzazione del rapporto matrimoniale sotto il profilo dell’eguaglianza dei diritti dei coniugi.
Ancora più precisamente dispone l’art. 23, paragrafo 4, del citato Patto internazionale sui diritti civili e politici – secondo il quale “Gli Stati parti del presente Patto devono prendere misure idonee a garantire la parità di diritti e di responsabilità dei coniugi riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e al momento del suo scioglimento. In caso di scioglimento deve essere assicurata ai figli la protezione necessaria” -, laddove pone opportunamente l’accento, “durante il matrimonio” e “al momento del suo scioglimento”, sulle “responsabilità” dei coniugi nei rapporti reciproci e verso i figli.
Analoghe disposizioni sono dettate anche dall’art. 5, primo periodo, del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, concernente l’estensione della lista dei diritti civili e politici, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984 e reso esecutivo dalla L. 9 aprile 1990, n. 98, secondo il quale “I coniugi godranno dell’uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civilistico tra loro e nelle loro relazioni con i loro figli, in caso di matrimonio, durante il matrimonio e dopo la fine del matrimonio stesso”.
La nostra Costituzione distingue nitidamente il “matrimonio – atto” – cui senza dubbio si riferisce l’art. 29, comma 1, laddove stabilisce che la Repubblica riconosce i diritti della famiglia “fondata sul matrimonio” – dal “matrimonio – rapporto”, cui certamente si riferiscono sia lo stesso l’art. 29, comma 1, laddove definisce la famiglia con l’espressione fortemente evocativa “società naturale”, sia il secondo comma dello stesso art. 29, laddove “Il matrimonio (…) ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi” evoca chiaramente lo svolgimento del rapporto e della vita matrimoniali, sia infine l’art. 30, comma 1, nella parte in cui fissa le principali responsabilità genitoriali nei confronti dei figli, e 31, comma 1, laddove stabilisce che “La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi (…)”.
La stessa distinzione emerge in modo chiarissimo anche da molteplici disposizioni del Codice civile e di leggi ordinarie, fra le quali è centrale l’art. 143 c.c., (nel testo sostituito dalla L. 19 maggio 1975, art. 24, sulla riforma del diritto di famiglia) che, nel primo comma (“Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gi stessi diritti e assumono i medesimi doveri”), si riferisce certamente al “matrimonio – atto” come “fonte” di eguali diritti e doveri dei coniugi, mentre, nel secondo (“Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione”) e nel terzo comma (“Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”), il riferimento è sicuramente al “matrimonio – rapporto”, cioè allo svolgimento del rapporto coniugale e della “vita familiare” (art. 144 c.c.) in tutte le sue dimensioni, morali e materiali, rilevanti sul piano giuridico. Ciò, senza dimenticare i “doveri verso i figli” imposti ad entrambi i coniugi dall’art. 147 c.c., (nel testo sostituito dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 3), secondo cui “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare ed assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’art. 315 – bis inserito dalla L. 10 dicembre 2012, n. 219 art. 1, comma 8” dove, ancora una volta, il riferimento è sicuramente al “matrimonio – rapporto”, allorquando sia caratterizzato dalla generazione di figli e dalle relative responsabilità genitoriali.
E’ indispensabile sottolineare, poi, che le menzionate disposizioni, costituzionali ed ordinarie, sul “matrimonio – rapporto” debbono essere correttamente interpretate in conformità con i principi fondamentali affermati dall’art. 2 Cost.: “La Costituzione non giustifica una concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti (…). E proprio da tale ultima disposizione l’art. 2 Cost., appunto, conformemente a quello che è stato definito il principio personalistico che essa proclama, risulta che il valore delle “formazioni sociali”, tra le quali eminentemente la famiglia, è nel fine a esse assegnato, di permettere e anzi promuovere lo svolgimento della personalità degli esseri umani” (così la Corte costituzionale nella sentenza n. 494 del 2002, n. 6.1. del Considerato in diritto). Del resto, il richiamo di tali principi fondamentali è comune alle menzionate sentenze della Prima Sezione (nn. 1343 del 2011 e 9844 del 2012) che si contrappongono all’orientamento seguito dalle sentenze delle Sezioni Unite n. 4700 del 1988 e della Prima Sezione n. 8926 del 2012.
Questo quadro normativo di base mostra in modo molto chiaro non soltanto che la distinzione tra “matrimonio – atto” e “matrimonio – rapporto” – diversamente da quanto ritenuto dall’orientamento espresso con la citata sentenza delle Sezioni Unite n. 4700 del 1988 e dalle successive sentenze che l’hanno ribadito – ha nitido e solido fondamento costituzionale e legislativo, ma anche che la relazione tra il matrimonio come “atto” ed il matrimonio come “rapporto” deve porsi in termini non già di “prevalenza” (cfr. la sentenza n. 8926 del 2012 cit.), cioè di pretesa superiorità assiologica, dell’uno rispetto all’altro (che sembra alludere in qualche modo alla natura “sacramentale” del matrimonio cattolico), bensì di distinzione appunto: nel senso, cioè, che questi due aspetti, o dimensioni, dell’istituto giuridico “matrimonio” hanno ragioni, disciplina e tutela distinte – come del resto emerge dalla stessa sistematica del Codice civile (rispettivamente, Capi III e IV del medesimo Titolo VI del Libro I) – e devono, quindi, essere distintamente considerati, anche – ed è ciò che specificamente rileva in questa sede – per l’individuazione dei principi e delle regole fondamentali che, connotando nell’essenziale ciascuno di essi, sono astrattamente idonei ad integrare norme di ordine pubblico interno che, come tali, possono essere ostative anche alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio concordatario.
In definitiva, il “matrimonio – rapporto”, il quale ha certamente origine nel “matrimonio – atto”, può ritenersi un’espressione sintetica comprensiva di molteplici aspetti e dimensioni dello svolgimento della vita matrimoniale e familiare – che si traducono, sul piano rilevante per il diritto, in diritti, doveri, responsabilità, caratterizzandosi così, secondo il paradigma dell’art. 2 Cost., come il “contenitore”, per così dire, di una pluralità di “diritti inviolabili”, di “doveri inderogabili”, di “responsabilità”, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti dei componenti della famiglia, sia come individui sia nelle relazioni reciprochi.
3.6. – E un elemento essenziale del “matrimonio – rapporto” è certamente costituito dalla “convivenza” dei coniugi o “come coniugi” che, nell’attuale specifico significato giuridico di tale espressione, connota il rapporto matrimoniale in modo determinante.
Per intendere l’attuale significato giuridico della nozione di “convivenza” dei coniugi, non è certo risolutiva la sola disciplina dettata dal codice civile. In questo coesistono, infatti, espressioni che fanno riferimento sia alla “coabitazione” dei coniugi (cfr., ad esempio, l’art. 143, comma 2, art. 119, comma 2, art. 120, comma 2) – termine, di natura sicuramente tralatizia presente fin dal codice civile del 1865, che, letteralmente inteso, rimanda al fatto di abitare insieme nella stessa casa familiare – sia alla “convivenza” degli stessi (cfr., ad esempio, l’art. 120, comma 2, art. 151 comma 1, art. 232, comma 2).
Quanto all’espressione “coabitazione” in particolare, se si tiene conto del diritto di ciascuno dei coniugi, in forza dell’art. 45 c.c., comma 1, di stabilire il proprio domicilio nel luogo corrispondente alla sede principale dei propri affari o interessi – luogo che può anche non coincidere, per i motivi più vari (come, ad esempio, per inderogabili esigenze di lavoro), con quello ove è stata stabilita la “residenza della famiglia” (art. 144 e art. 146, commi 1 e 2) -, non può sicuramente escludersi il diritto dei coniugi di concordare liberamente forme non tradizionali di rapporto matrimoniale – non caratterizzate, cioè, (anche) dalla mera “coabitazione”, letteralmente intesa -, dalle quali sia tuttavia possibile inferire, secondo le concrete circostanze, una effettiva convivenza degli stessi (cfr. la significativa affermazione della Corte EDU, Grande Camera, sentenza 7 novembre 2013, Vallianatos ed altri contro Grecia, n. 84, secondo cui “non vi è solo un modo o una scelta per condurre la propria vita familiare o privata”, garantite dall’art. 8, paragrafo 1, della CEDU).
Per individuare più precisamente il significato e i contenuti attuali della nozione di “convivenza” – da preferire rispetto a quella di “coartazione”, per la sua indiscutibile, maggiore comprensività semantica -, è allora indispensabile fare riferimento innanzitutto alla Costituzione, ed anche alle carte Europee dei diritti che, com’è noto, vincolano, sia pure con diversa intensità, l’interprete: in particolare, all’art. 8, paragrafo 1, della CEDU – secondo cui “Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare(…)” – ed all’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, secondo cui “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare(…)” (cosiddetta “Carta di Nizza” che, com’è noto, “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”: art. 6, paragrafo 1, TUE).
La Corte costituzionale ha già da tempo affermato che “la garanzia della “convivenza del nucleo familiare” si radica “nelle norme costituzionali che assicurano protezione alla famiglia e in particolare, nell’ambito di questa, ai figli minori””, e che “”il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, e perciò di tenerli con sè, e il diritto dei genitori e dei figli minori ad una vita comune nel segno dell’unità della famiglia, sono(…) diritti fondamentali della persona” (cfr. le sentenze n. 28 del 1995, n. 4. del Considerato in diritto, n. 203 del 1997, n. 4.
del Considerato in diritto, n. 376 del 2000, n. 6. del Considerato in diritto).
E più recentemente – ma nella medesima prospettiva – il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di norme che arrecano “un irragionevole pregiudizio ai rapporti familiari, che dovrebbero ricevere una protezione privilegiata ai sensi degli artt. 29, 30 e 31 Cost., e che la Repubblica è vincolata a sostenere, anche con specifiche agevolazioni e provvidenze, in base alle suddette previsioni costituzionali” (così, la sentenza n. 202 del 2013, n. 4.4. del Considerato in diritto). In questa stessa sentenza – con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 2, 3, 29, 30 e 31, nonchè dell’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 8 della CBDU, “del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 5, (…), nella parte in cui prevede che la valutazione discrezionale in esso stabilita si applichi solo allo straniero che “ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare” o al “familiare ricongiunto”, e non anche allo straniero “che abbia legami familiari nel territorio dello Stato”” -, la Corte ha istituito un raffronto (come, del resto, già fatto in generale altre volte: cfr., ex plurimis, la sentenza n. 264 del 2012, nn. da 4. a 4.2. del Considerato in diritto) tra la tutela garantita dalle su menzionate norme della Costituzione e quella garantita dall’art. 8, paragrafo 1, della CEDU e dall’art. 7 della Carta di Nizza. In particolare, la Corte – nel rammentare che “La Corte di Strasburgo ha (…) sempre affermato (ex plurimis pronuncia 7 aprile 2009, Cherif e altri c. Italia) (…) che, quando nel Paese dove lo straniero intende soggiornare vivono i membri stretti della sua famiglia, occorre bilanciare in modo proporzionato il diritto alla vita familiare del ricorrente e dei suoi congiunti con il bene giuridico della pubblica sicurezza e con l’esigenza di prevenire minacce all’ordine pubblico, ex art. 8, paragrafo 1, della CEDU”, e che “La ragionevolezza e la proporzione del bilanciamento richiesto dall’ari 8 della CEDU implicano, secondo la Corte Europea, (…) la possibilità di valutare una serie di elementi desumibili dall’attenta osservazione in concreto di ciascun caso, quali, ad esempio, (…) la situazione familiare del ricorrente, e segnatamente, all’occorrenza, la durata del suo matrimonio ed altri fattori che testimonino l’effettività di una vita familiare in seno alla coppia” – ha affermato che “Una simile attenzione alla situazione concreta dello straniero e dei suoi congiunti, garantita dall’art. 8 della CEDU, come applicato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, esprime un livello di tutela dei rapporti familiari equivalente, per guanto rileva nel caso in esame, alla prolezione accordata alla famiglia nel nostro ordinamento costituzionale” (n. 5. del Considerato in diritto).
Sotto altri profili e in fattispecie diverse, la stessa Corte costituzionale ha comunque osservato che “(…) l’istituto del matrimonio civile, come previsto nel vigente ordinamento italiano, si riferisce soltanto all’unione stabile tra un uomo e una donna(…)”, e che peraltro nella nozione di “formazione sociale”, di cui all’art. 2 Cost., “è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso” (sentenza n. 138 del 2010, nn. 6. e 8. del Considerato in diritto; si veda anche la recente sentenza n. 170 del 2014, nn. 5.5. e 5.6. del Considerato in diritto).
A sua volta, la Corte EDU ha, innanzitutto, affermato più volte che:
a) “se l’art. 8 ha essenzialmente per oggetto la tutela dell’individuo dalle ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, esso non si limita ad ordinare allo Stato di astenersi da tali ingerenze;
a tale obbligo negativo possono aggiungersi obblighi positivi attinenti ad un effettivo rispetto della vita privata o familiare (i quali) possono implicare l’adozione di misure finalizzate al rispetto della vita familiare, incluse le relazioni reciproche fra individui, e la predisposizione di strumenti giuridici adeguati e sufficienti ad assicurare i legittimi diritti degli interessati, nonchè il rispetto delle decisioni giudiziarie ovvero di misure specifiche appropriate” (cfr., ex plurimis, la sentenza, Seconda Sezione, 29 gennaio 2013, Lombardo contro Italia, n. 80, e la sentenza della Grande Camera 3 novembre 2011, S. H. ed altri contro Austria, n. 87); b) “la nozione di famiglia in base a questa disposizione l’art. 8 non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio e può comprendere altri legami “familiari” di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo del matrimonio…” con una “stabile relazione di fatto” idonea ad instaurare una “relazione durevole” fra i conviventi (cfr., ex plurimis, la sentenza della Grande Camera 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria, n. 91 e segg.); c) “la questione dell’esistenza o dell’assenza di una “vita familiare” è anzitutto una questione di fatto, che dipende dall’esistenza di legami personali stretti” (cfr., ex plurimis, la sentenza 27 aprile 2010 Moretti e Benedetti contro Italia, n. 44).
Quanto, in particolare, alla coppia sposata, “(…) l’expression “vie familiale” implique normalement la cohabitation, L’article 12 (della CEDU, che garantisce “il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia” le confirme car le droit de fonder une famille ne se concoit guere sans celui de vivre ensemble” (Grande Camera, sentenza 28 maggio 1985, Abdulaziz, Cabales et Balkandali contro Regno Unito, n. 62), anche se – come già sottolineato – “non vi è solo un modo o una scelta per condurre la propria vita familiare o privata” garantite dall’art. 8, paragrafo 1, della CEDU (cfr. la già citata sentenza della Grande Camera 7 novembre 2013, Vallianatos ed altri contro Grecia, n. 84).
Infine, occorre sottolineare che, secondo il suo consolidato orientamento, la Corte di giustizia dell’Unione Europea afferma che “l’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (…), relativo al diritto al rispetto alla vita privata e familiare, contiene diritti corrispondenti a quelli garantiti dall’art. 8, n. 1, della CEDU e che pertanto occorre attribuire all’art. 7 della Carta lo stesso significato e la stessa portata attribuiti all’art. 8, n. 1, della CEDU, nell’interpretazione datane dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo” (così, ex plurimis e fra le ultime, la sentenza della Grande Sezione 15 novembre 2011, causa C- 256/11).
Dall’analisi della richiamata giurisprudenza emerge, quindi, che la Corte EDU individua come “vita familiare”, garantita dall’art. 8, paragrafo 1, della CEDU, quella connotata – nell’ambito del, o fuori dal, matrimonio – da una coabitazione o da una convivenza (nozioni che, in tale giurisprudenza, che peraltro utilizza in prevalenza la seconda espressione, tendono sostanzialmente a coincidere) “stabili” e comunque “non transitorie”, o da rapporti affettivi “significativi e duraturi” (i menzionati “legami personali stretti” o “legami familiari”), o ancora dalla presenza di figli concepiti secondo un “progetto procreativo comune”.
Resta così confermato, anche alla luce delle significative convergenze della giurisprudenza costituzionale, della Corte EDU e della Corte di giustizia UE’, che la “convivenza” – e, dunque, non la sola e mera “coabitazione” – dei coniugi o “come coniugi” – cioè, la consuetudine di vita comune, il “vivere insieme” stabilmente e con continuità nel corso del tempo o per un tempo significativo tale da costituire “legami familiari”, nei sensi dianzi specificati – integra un aspetto essenziale e costitutivo del “matrimonio – rapporto”, caratterizzandosi al pari di questo, secondo il paradigma dell’art. 2 Cost., come manifestazione di una pluralità di “diritti inviolabili”, di “doveri inderogabili”, di “responsabilità” anche genitoriali in presenza di figli, di “aspettative legittime” e di “legittimi affidamenti” degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari. Essa perciò – ribadendo al riguardo, con la Corte costituzionale (cfr., supra, n. 3.3.1., la sentenza n. 18 del 1982), che “La inderogabile tutela dell’ordine pubblico…. è imposta soprattutto a presidio della sovranità dello Stato, quale affermata nel comma secondo dell’ari.
1, e ribadita nell’art. 7 Cost., art. 5, comma 5″, e che le norme d’ordine pubblico si individuano nelle “regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società” – connota nell’essenziale, al pari di altri aspetti o dimensioni del “matrimonio – rapporto” che qui non rilevano, lo stesso istituto matrimoniale delineato dalla Costituzione e dalle leggi che lo disciplinano ed è quindi costitutiva di una situazione giuridica che, in quanto regolata da disposizioni costituzionali, convenzionali ed ordinarie, è perciò tutelata da norme di “ordine pubblico italiano”, secondo il disposto di cui all’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7.
3.7. – Proprio in ragione di queste stesse caratteristiche, la nozione di “convivenza coniugale” richiede tuttavia – ai fini che in questa sede rilevano – un’ulteriore, duplice specificazione per la sua corretta individuazione sul piano giuridico. Tali specificazioni riguardano: l'”esteriorità” – o, più precisamente, la sua “riconoscibilità esteriore” – e la determinazione, secondo ragionevolezza, del periodo di tempo necessario perchè essa possa qualificarsi “stabile”.
3.7.1. – Quanto alla prima specificazione, concernente l'”esteriorità” della convivenza coniugale, è sufficiente osservare – rilevando sul piano giuridico, quantomeno in linea generale e tendenziale, fatti e comportamenti, e restando invece irrilevanti tutti gli aspetti del cosiddetto “foro interno” (cfr., ad esempio, la fattispecie di cui all’art. 237 c.c., nel testo modificato dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 12, comma 1, relativa ai “Fatti costitutivi del possesso di stato di figlio”) – che la convivenza coniugale con i predetti caratteri deve essere esteriormente riconoscibile attraverso fatti e comportamenti che vi corrispondano in modo non equivoco e, perciò, essere anche dimostrabile in giudizio, da parte dell’interessato, mediante idonei mezzi di prova, ivi comprese le presunzioni semplici assistite dai noti requisiti di cui all’art. 2729 c.c., comma 1, (l’esempio più vicino è quello prefigurato dall’art. 157 c.c., relativo alla cessazione degli effetti della separazione, e quindi alla ripresa di una convivenza – non purchessia ma – con dette caratteristiche, che esige comportamenti non equivoci incompatibili con lo stato di separazione:
cfr. al riguardo, ex plurimis, le sentenze nn. 12314 del 2007 e 28655 del 2013; v. altresì, infra, nn. 4.1. e 4.3.).
3.7.2. – Quanto alla seconda specificazione, concernente la “stabilità” della convivenza, v’è da osservare, innanzitutto, che tale qualità – pur concordemente evocata, come già detto, dalla giurisprudenza costituzionale e delle Corti Europee quale connotato che la caratterizza nell’ambito del, o fuori dal, matrimonio – non è temporalmente determinata. Questa mancanza viene in genere giustificata, per i rapporti extramatrimoniali, perchè in tali rapporti sono normalmente decisive le circostanze del caso concreto, e, per i rapporti matrimoniali, in base al rilievo che detta stabilità deriva (o dovrebbe derivare) immediatamente dalla stessa tendenziale stabilità del vincolo formale contratto dai coniugi.
Tuttavia – agli specifici fini che rilevano in questa sede: la composizione del denunciato contrasto di giurisprudenza -, appare indispensabile individuare, secondo diritto e ragionevolezza, il periodo di tempo dalla celebrazione del matrimonio, trascorso il quale dalla convivenza coniugale con dette caratteristiche può legittimamente inferirsi anche una piena ed effettiva “accettazione del rapporto matrimoniale”, tale da implicare anche la sopravvenuta irrilevanza giuridica dei vizi genetici eventualmente inficianti l'”atto” di matrimonio, che si considerano perciò “sanati” dall’accettazione del rapporto.
E’ proprio questa – il favor matrimonii, conseguente alla consapevole, piena ed effettiva assunzione e prosecuzione del rapporto matrimoniale -, in sostanza, la ratio sottesa a quelle norme del codice civile che sanciscono la decadenza dalle azioni di annullamento del matrimonio (art. 119, comma 2, art. 120, comma 2, art. 122, comma 4), allorquando, venute meno le cause del vizio dell’atto (revoca dell’interdizione, recupero della “capacità naturale”, cessazione della violenza morale, scoperta dell’errore), “vi è stata coabitazione per un anno”. Norme queste, relativamente alle quali è significativo notare – nel senso della valorizzazione del fatto della “coabitazione successiva” – il progressivo ampliamento del termine di decadenza da parte del legislatore: da quello di un mese del codice civile del 1865 a quello di tre mesi del codice del 1942, fino all’attuale termine di un anno stabilito dalla riforma del diritto di famiglia del 1975.
E la medesima ratio sta anche alla base dell’art. 123 – concernente gli accordi simulatori degli sposi relativi al contraendo matrimonio -, il quale, al secondo comma, stabilisce che “L’azione di annullamento non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matrimonio ovvero nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”. La differenza di tale fattispecie rispetto alle precedenti sta in ciò, che – trattandosi di accordi simulatori convenuti da entrambi gli “sposi” prima del matrimonio, ed esclusivamente “tra gli stessi”, senza coinvolgimento di terzi – la decadenza dall’azione di annullamento per ciascuno dei coniugi è individuata o nel decorso del termine di un anno dalla “celebrazione del matrimonio”, oppure – sine die – “nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”: ciò, in quanto il legislatore ha ritenuto che il tempo di un anno dalla celebrazione del matrimonio o la “convivenza come coniugi” dopo tale data siano fatti idonei a far legittimamente presumere il sopravvenuto consenso degli stessi sull’inefficacia di detti accordi. L’elemento comune sta, invece, nella valorizzazione – espressa più nitidamente nell’art. 123, comma 2, alla luce delle considerazioni che precedono – della capacità “sanante” dei vizi genetici (accordi simulatori) dell’atto matrimoniale, attribuita proprio alla “convivenza come coniugi”.
3.7.3. – Ciò posto, resta da individuare – proprio alla luce delle più volte ricordate norme costituzionali e convenzionali – la ragionevole durata della convivenza coniugale, decorrente dalla data di celebrazione del matrimonio, idonea a far legittimamente presumere la raggiunta stabilità del rapporto matrimoniale.
Al riguardo, il Collegio ritiene di poter prendere a riferimento – in ragione, come si vedrà, delle strette connessioni analogiche tra le fattispecie, secondo il canone ermeneutico di cui all’art. 12, comma 2, primo periodo, delle disposizioni sulla legge in generale (“Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe”) – la L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 6, commi 1 e 4, (Diritto del minore ad una famiglia), nel testo sostituito dalla L. 28 marzo 2001, n. 149, art. 6, comma 1, (Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonchè al titolo 8 del libro primo del codice civile), secondo i quali: “1. L’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto(….). 4. Il requisito della stabilità del rapporto di cui al comma 1 può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto” (cfr. anche la stessa L. n. 184 del 1983, art. 29 – bis, comma 1, che richiede per gli adottanti, ai fini dell’adozione internazionale, le medesime condizioni soggettive di cui all’art. 6).
Il testo originario della L. n. 184 del 1983, art. 6, comma 1, prevedeva: “L’adozione è permessa ai coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni tra i quali non sussista separazione personale neppure di fatto e che siano idonei ad educare, istruire ed in grado di mantenere i minori che intendono adottare”.
La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità, in riferimento all’art. 2 Cost., di tale disposizione originaria – nella parte (rimasta sostanzialmente immutata) in cui dispone(va) che, ai fini dell’idoneità ad adottare, i coniugi aspiranti siano uniti in matrimonio da almeno tre anni, in un caso in cui tali coniugi vantavano una convivenza prematrimoniale di dieci anni, con la sentenza n. 281 del 1994, nel dichiarare non fondata tale questione, ha affermato, tra l’altro, che la norma censurata “è coerente col principio, riconosciuto da questa Corte (sentenze n. 89/1993; n. 310/1989; n. 404/1988; nn. 198 e 237 del 1986; n. 11/1981; n. 45/1980), secondo cui l’istituto dell’adozione è finalizzato alla tutela prevalente dell’interesse del minore. Tale principio comporta, fra l’altro, che, ai fini della complessa opera di selezione dei soggetti idonei a svolgere il delicatissimo compito di educare ed accogliere un bambino abbandonato, costituisce criterio fondamentale quello che la doppia figura genitoriale sia unita dal “vincolo giuridico che garantisce stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività di diritti e doveri del nucleo in cui il minore sarà accolto”(sentenza n. 310 del 1989)”; ha inoltre sostanzialmente avallato “la scelta adottata dal legislatore italiano, che, al pari di numerosi legislatori Europei, intende il matrimonio, a tal fine, non solo come “atto costitutivo” ma anche come “rapporto giuridico “, vale a dire come vincolo rafforzato da un periodo di esperienza matrimoniale, in cui sia perdurante la volontà di vivere insieme in un nucleo caratterizzato da diritti e doveri”; ed ha precisato infine che “il criterio dei tre anni successivi alle nozze si configura come requisito minimo presuntivo a dimostrazione della stabilità del rapporto matrimoniale(…)” (n. 2. del Considerato in diritto; da notare che l’introduzione del comma 4 dell’art. 6 ad opera della L. n. 149 del 2001, art. 6, comma 1, deriva proprio dalle osservazioni svolte dalla Corte, nel n. 4. del Considerato in diritto, favorevoli alla prolungata convivenza prematrimoniale, stabile e continuativa, come requisito legittimante all’adozione).
Dalla piana lettura del su riprodotto vigente testo della L. n. 184 del 1983, art. 6, commi 1 e 4, e delle affermazioni della Corte costituzionale ora riportate risulta del tutto evidente, naturalmente mutatis mutandis, la loro ragionevole riferibilità anche alla fattispecie in esame: a ben vedere, convergono infatti in tal senso tutti gli argomenti fondati sia sulla distinzione tra “matrimonio – atto” e “matrimonio – rapporto”, sia sugli elementi essenziali del rapporto matrimoniale come sintesi di diritti, di doveri e di responsabilità, sia sulla valorizzazione della convivenza coniugale con le individuate caratteristiche, segnatamente di “stabilità” e di “continuità”, sia e soprattutto – per quanto ora specificamente rileva – sul “criterio dei tre anni successivi alle nozze” quale “requisito minimo presuntivo a dimostrazione della stabilità del rapporto matrimoniale”.
Tutte le considerazioni che precedono consentono, perciò, di affermare in modo compiuto che la convivenza dei coniugi, connotata dai più volte sottolineati caratteri e protrattasi per almeno tre anni dopo la celebrazione del matrimonio, in quanto costitutiva di una situazione giuridica disciplinata e tutelata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di “ordine pubblico italiano”, secondo il disposto di cui all’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, osta alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio concordatario.
3.7.4. – Al termine dell’analisi delle disposizioni passate in rassegna, deve in ogni caso sottolinearsi che il fondamento del significato della “convivenza coniugale”, da intendere nei sensi su precisati, e della particolare tutela ad essa assicurata sta immediatamente ed esclusivamente – non già nelle menzionate disposizioni del codice civile e della legge ordinaria, ma – nelle norme della Costituzione e delle Convenzioni Europee dianzi esaminate ed interpretate alla luce della giurisprudenza costituzionale e delle Corti Europee, sicchè dette disposizioni “ordinarie”, da interpretare in senso costituzionalmente e convenzionalmente conforme, confermano e rafforzano tutte le conclusioni raggiunte.
3.7.5. – Come correttamente richiesto con l’ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite, si tratta ora di stabilire se tale limite alla delibazione dipenda, oppure no, dalla natura del vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dalla sentenza canonica: in altri termini, se il giudice della delibazione, ai fini dell’applicazione del limite medesimo, debba distinguere, oppure no, tra detti vizi genetici comportanti la nullità del matrimonio, accertati e dichiarati secondo il diritto canonico.
La risposta negativa al quesito si impone per la decisiva ragione che all’affermazione della convivenza coniugale, successiva al matrimonio “concordatario” regolarmente trascritto e con i caratteri dianzi individuati, quale “limite generale” d’ordine pubblico italiano alla delibazione delle sentenze di nullità matrimoniale pronunciate dai tribunali ecclesiastici, consegue necessariamente, ai fini dell’applicazione di tale limite generale, l’irrilevanza nell'”ordine civile” di qualsiasi vizio genetico del matrimonio canonico, tutte le volte che esso sia stato accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico nell'”ordine canonico” nonostante la sussistenza dell’elemento essenziale della convivenza coniugale: in tutti questi casi, infatti, si manifesta chiaramente la radicale collisione di detti vizi genetici del matrimonio canonico con l’individuato limite d’ordine pubblico.
Peraltro – diversamente opinando -, la risposta affermativa a detto quesito implicherebbe una inammissibile invasione del giudice italiano nella giurisdizione ecclesiastica in materia di nullità del matrimonio, riservata dall’Accordo esclusivamente ai tribunali ecclesiastici nell'”ordine canonico” (art. 8, n. 2): in particolare, il giudice italiano, al fine di decidere sulla domanda di delibazione sotto il profilo dell’applicabilità del predetto limite generale d’ordine pubblico, dovrebbe, previamente ed inevitabilmente, procedere ad una interpretazione delle singole norme del codice di diritto canonico disciplinanti le fattispecie di nullità ivi previste, distinguendo fra di esse e stabilendo eventualmente una gerarchia fra le stesse, valicando così inammissibilmente i confini della giurisdizione nell'”ordine civile”, a sè riservata dalle disposizioni dell’Accordo.
3.8. – Le conclusioni dianzi raggiunte richiedono tuttavia – tenuto conto, in particolare, degli argomenti svolti dalla difesa della controricorrente – qualche ulteriore osservazione sull’ordine pubblico quale limite alla delibabilità di dette sentenze canoniche, sul principio di laicità dello Stato e sulla interpretazione delle pertinenti disposizioni dell’Accordo di Villa Madama.
3.8.1. – Al riguardo, è indispensabile innanzitutto ribadire nuovamente i principi affermati con le fondamentali sentenze della Corte costituzionale n. 18 del 1982 e n. 203 del 1989 (cfr., supra, n. 3.3.1.).
La difesa della controricorrente in particolare, con la memoria di cui all’art. 378 c.p.c., insiste molto sui rilievi che una pronuncia di questa Corte nel senso da essa non auspicato determinerebbe sia una ingiusta discriminazione in danno del civis fidelis – il quale “subirebbe l’assurda discrasia di essere, come cristiano, non più coniuge per la Chiesa cattolica e invece restare, come cittadino, coniuge per lo Stato” (pag. 13) – sia, più in generale, un vero e proprio vulnus all’Accordo del 1984.
Circa tali rilievi, può immediatamente osservarsi: per un verso, che il principio fondamentale di laicità, o non confessionalità, dello Stato comporta che “Qualunque atto di significato religioso, fosse pure il più doveroso dal punto di vista di una religione e delle sue istituzioni, rappresenta sempre per lo Stato esercizio della libertà dei propri cittadini”, e che qualsiasi intervento dello Stato su atti o fatti aventi significato religioso “è escluso comunque, in conseguenza dell’appartenenza della religione a una dimensione che non è quella dello Stato e del suo ordinamento giuridico, al quale spetta soltanto il compito di garantire le condizioni che favoriscano l’espansione della libertà di tutti e, in questo ambito, della libertà di religione” (Corte costituzionale, sentenza n. 334 del 1996 cit., n. 3.1. del Considerato in diritto); per altro verso, che la denunciata “scissione” di effetti, conseguente alla sentenza di nullità matrimoniale pronunciata nell’ordinamento canonico e non delibata, perchè non delibabile, nell’ordinamento italiano, è conseguenza legittima, per tutti i cives fideles, della distinzione – separazione tra i due ordinamenti, scolpita nell’art. 7 Cost., comma 1, e “riaffermata” nell’art. 1 dello stesso Accordo. Deve inoltre rilevarsi che la risoluzione del denunciato “conflitto personale” del civis fidelis nel senso auspicato dalla controricorrente postulerebbe necessariamente, nonostante la pronuncia della Corte costituzionale n. 18 del 1982, la delibazione “automatica” di qualsiasi sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, con conseguente “eliminazione”, in palese violazione dell’art. 1, comma 2, e art. 7 Cost., comma 1, della giurisdizione del giudice italiano in materia.
Del resto, rientra nella stessa logica del sistema consensualmente accettato con l’Accordo la possibilità che determinate sentenze di nullità matrimoniale pronunciate dai tribunali ecclesiastici non siano delibate, in particolare, per contrarietà con l’ordine pubblico italiano. Ciò è già accaduto più volte, ad esempio, per quelle sentenze ecclesiastiche dichiarative della nullità del matrimonio concordatario per esclusione, da parte di un coniuge soltanto, di uno dei bona matrimonii: in tali casi, infatti, questa Corte ha costantemente affermato che la divergenza unilaterale tra volontà e dichiarazione postula che essa sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero che sia stata da questo effettivamente conosciuta, o ancora che non l’abbia conosciuta esclusivamente a causa della sua negligenza, in quanto, qualora tali situazioni non ricorrano, la delibazione è impedita dalla contrarietà con l’ordine pubblico italiano, nel cui ambito va ricompreso il principio fondamentale della tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 24047 del 2006 e 3378 del 2012).
3.8.2. – I principi fondamentali, dianzi richiamati e ribaditi, e gli argomenti che li supportano conservano validità e valore ermeneutico intatti anche nella vigenza degli Accordi di Villa Madama, come chiaramente affermato dalla citata pronuncia costituzionale n. 203 del 1989 (cfr., supra, n. 3.3.1.)., con la conseguenza che le disposizioni di tali Accordi debbono essere interpretate innanzitutto in conformità con tali principi fondamentali. E’ opportuno quindi riesaminare, in tale prospettiva, alcuni punti critici dello specifico quadro normativo di riferimento della fattispecie.
Quanto, in particolare, all’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, l’inequivoca formulazione letterale di tale norma del codice di rito civile, cui materialmente rinvia il punto 4, lett. b), del Protocollo addizionale, nonchè i principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 18 del 1982 non consentono alcun dubbio nè circa il parametro da applicare – l'”ordine pubblico italiano” appunto, non già l’ordine pubblico internazionale, come invece viene adombrato con riferimento all’inapplicabile la citata L. n. 218 del 1995, art. 64, lett. g), (cfr., supra, n. 3.2.1., nonchè la sentenza n. 17349 del 2002 che, tuttavia, definisce l’ordine pubblico internazionale quello costituito dai soli principi fondamentali e caratterizzanti l’atteggiamento etico – giuridico dell’ordinamento in un determinato periodo storico), nè circa il contenuto di esso, costituito, si ribadisce, dalle “regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società, la cui “inderogabile tutela” è imposta soprattutto a presidio della sovranità dello Stato, quale affermata nell’art. 1, comma 2, e ribadita nell’art. 7 Cost., comma 1, (cfr. al riguardo, ex plurimis, le sentenze di queste Sezioni Unite nn. 19809 e 14199 del 2008). E tutte le precedenti considerazioni sui caratteri della convivenza “come coniugi confermano che questa connota nell’essenziale l’istituto del matrimonio civile italiano ed è, quindi, costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie certamente qualificabili siccome di ordine pubblico.
Non è, poi, certamente d’ostacolo alla piena ed effettiva applicazione dell’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, l’ambiguo “canone ermeneutico”, enunciato dalla disposizione del Protocollo addizionale di cui al punto 4, lett. b) (“ai fini dell’applicazione degli artt. 796 e 797 del codice italiano di procedura civile, si dovrà tener conto della specificità dell’ordinamento canonico dal quale è regolato il vincolo matrimoniale, che in esso ha avuto origine(….”), chiaramente rivolto al giudice della delibazione.
Tale disposizione – di significato equivoco, se isolatamente considerata – fa riferimento alla “specificità” dell’ordinamento canonico, da intendersi – parrebbe – in stretta correlazione con il fatto che il matrimonio “concordatario”, contratto secondo le norme del diritto canonico, per ciò stesso “ha avuto origine” in tale ordinamento e conserva quindi la natura di “sacramento” (C.J.C., can. 1055), sicchè è al matrimonio canonico – sacramento che vengono, ciononostante, consensualmente “riconosciuti gli effetti civili” (art. 8, paragrafo 1, dell’Accordo). Ma, anche ad ammettere, per mera ipotesi, che sia questo il “vero” significato della disposizione – o meglio, di quella che è soltanto una “premessa” della disposizione – resterebbero pur sempre dubbie le conseguenze di tale “specificità (….) ai fini dell’applicazione degli artt. 796 e 797 del codice italiano di procedura civile”, dovendosi escludere, in limine, che essa alluda tout court al carattere “originario” dell’ordinamento giuridico canonico, che ne implicherebbe l'”esclusività” anche in termini di giurisdizione, perchè un’interpretazione siffatta colliderebbe radicalmente sia con l’art. 7 Cost., comma 1, che afferma la sovranità, oltrechè della Chiesa cattolica, anche dello Stato, sia con lo stesso art. 1 dell’Accordo, con cui le Parti “riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani” e si “impegnan(o) al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti”.
Deve ritenersi allora, secondo un’interpretazione conforme alla Costituzione ed all’Accordo, che a detta disposizione non può darsi altro significato che quello di fungere da mera premessa generale, esplicativa delle ragioni per le quali vengono indicate, “In particolare”, le tre prescrizioni (relative alla competenza, al giudicato e al divieto di riesame del merito della sentenza canonica, in deroga, rispettivamente, all’art. 796 c.p.c., comma 1, art. 797 c.p.c., comma 1, nn. 1 e 4, e art. 798 c.p.c.) vincolanti il giudice della delibazione: tali prescrizioni infatti – costituenti le uniche limitazioni, consensualmente accettate dalle Parti, al pieno ed effettivo esercizio della giurisdizione (e, quindi, all’esercizio della sovranità dello Stato italiano) da parte del giudice della delibazione (cfr., supra, n. 3.2.2., lett. c) – sono tutte riconducigli alla premessa “specificità” dell’ordinamento canonico per il fatto che “il vincolo matrimoniale (…) in esso ha avuto origine”). Di qui, la conseguenza – fatte salve le tre predette eccezioni -del pieno ed effettivo esercizio della giurisdizione da parte del giudice della delibazione, quanto in particolare all’esercizio del potere di controllo della sentenza canonica di nullità del matrimonio sotto il profilo della sua eventuale contrarietà con l’ordine pubblico italiano.
3.9. – A composizione del denunciato contrasto di giurisprudenza (cfr., supra, n. 3.3.), deve pertanto enunciarsi il seguente, articolato principio di diritto:
“La convivenza “come coniugi” deve intendersi ~ secondo la Costituzione (artt. 2, 3, 29, 30 e 31), le Carte Europee dei diritti (art. 8, paragrafo 1, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), come interpretate dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, ed il Codice civile – quale elemento essenziale del “matrimonio – rapporto”, che si manifesta come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, ed esteriormente riconoscibile attraverso corrispondenti, specifici fatti e comportamenti dei coniugi, e quale fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità anche genitoriali in presenza di figli, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari.
In tal modo intesa, la convivenza “come coniugi”, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio “concordatario” regolarmente trascritto, connotando nell’essenziale l’istituto del matrimonio nell’ordinamento italiano, è costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di “ordine pubblico italiano” e, pertanto, anche in applicazione dell’art. 7 Cost., comma 1, e del principio supremo di laicità dello Stato, è ostativa – ai sensi dell’Accordo, con Protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, reso esecutivo dalla L. 25 marzo 1985, n. 121, (in particolare, dell’art. 8, n. 2, lett. c, dell’Accordo e del punto 4, lett. b, del Protocollo addizionale), e dell’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, – alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, per qualsiasi vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico nell'”ordine canonico” nonostante la sussistenza di detta convivenza coniugale”.
4. – L’affermazione di tale principio di diritto incide ovviamente, sotto il relativo profilo, anche sulla struttura, sull’oggetto e sullo svolgimento del giudizio di delibazione dinanzi alla competente corte d’appello, quale delineato dall’art. 8, numero 2, dell’Accordo, dal punto 4, lett. b), del Protocollo addizionale e dai previgenti artt. 796 e 797 c.p.c..
Al riguardo, l’ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite, pone correttamente le seguenti ulteriori questioni: “(…) 2. – se(….) il contrasto tra l’indicata condizione la convivenza coniugale, nei sensi dianzi indicati e l’ordine pubblico interno sia verificabile d’ufficio dalla Corte d’appello, versandosi in un caso d’impedimento assoluto alla riconoscibilità della sentenza ecclesiastica (in tal senso Cass. citata n. 1780 del 2012), dal momento che l’ordine pubblico esprime valori di natura indeclinabile ed è per l’effetto indisponibile, ovvero sia rilevabile solo su eccezione della parte che si oppone alla delibazione; 3. – se, ammessa la rilevabilità d’ufficio, rientri nei poteri della Corte d’appello, la cui indagine è astretta entro il limite del compendio istruttorio formatosi nel giudizio ecclesiastico, disporre l’acquisizione di ulteriori elementi di verifica; 4. – se l’incompatibilità in discorso, laddove si ritenga rilevabile d’ufficio, sia riscontrabile anche dalla Corte di Cassazione se emerge dagli atti (secondo guanto è avvenuto in sede di pronuncia n. 1343/2011) e sia dunque scrutinabile senza necessità d’ulteriore istruttoria (….)”. La risposta puntuale a tali ulteriori quesiti richiede lo svolgimento di alcune considerazioni preliminari.
4.1. – Innanzitutto, va ribadito che la convivenza coniugale successiva alla celebrazione del matrimonio concordatario – come in precedenza individuata e specificata (cfr., supra, nn. da 3.7. a 3.7.4.) -, per valere quale limite generale d’ordine pubblico alla delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, deve essere caratterizzata anche, come già detto, da “fatti e comportamenti” dei coniugi corrispondenti ad una “consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo”, dalla sua “riconoscibilità esteriore”, nonchè dalla sua durata per almeno tre anni dalla data della celebrazione del matrimonio; ciò, senza dimenticare che tali “dati oggettivi” sono strettamente connessi ad “una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità anche geni tonali in presenza di figli, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari”. E’ dunque evidente che, in una fattispecie siffatta, il limite d’ordine pubblico ostativo alla delibazione non scaturisce immediatamente da una precisa disposizione (come, ad esempio, la “libertà di stato”: art. 86 c.c.; punto 4, lett. a, n. 2, del Protocollo addizionale), ma deve trarsi da una situazione giuridica complessa – la convivenza coniugale, appunto – caratterizzata essenzialmente da circostanze oggettive esteriormente riconoscibili e, quindi, allegabili e dimostrabili in giudizio.
In secondo luogo, dal momento che l’Accordo, con norma speciale (alinea dell’art. 8, n. 2), stabilisce che le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici sono dichiarate efficaci nella Repubblica italiana dalla competente corte d’appello “su domanda delle parti o di una di esse”, ne consegue con certezza sia che il procedimento di delibazione non ha conservato natura officiosa (come, invece, nel previgente sistema delineato dall’art. 34, comma 6, del Concordato lateranense e citata L. n. 847 del 1929, art. 17: cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 2787 del 1995 e 22514 del 2004), sia che tale procedimento giurisdizionale è un ordinario giudizio di cognizione, sia pure svolto in unico grado di merito, nel quale valgono ovviamente, tra gli altri, i fondamentali principi della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (artt. 99 e 112 c.p.c.; cfr. anche, del resto, l’art. 796 c.p.c., comma 1).
E’ noto, poi, che in linea di principio, per costante orientamento di questa Corte, la contrarietà di un atto all’ordine pubblico, sostanziale o processuale, attenendo a materie “indisponibili” dalle parti perchè involgenti aspetti che trascendono interessi esclusivamente individuali, è questione rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, salvo il dovere del giudice di promuovere su di essa il previo contraddittorio tra le parti (art. 101 c.p.c., comma 2, e art. 384 c.p.c., comma 3). Tuttavia, le già rilevate, indubbie peculiarità della fattispecie d’ordine pubblico “convivenza coniugale” – fondata su fatti specifici e rilevanti (come, ad esempio, la durata della convivenza post-matrimoniale, l’esistenza di figli, la continuità del rapporto matrimoniale, età), nonchè su comportamenti dei coniugi altrettanto specifici e rilevanti -, unitamente all’applicazione dei ricordati principi della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, richiedono che tali fatti e comportamenti: o emergano già dagli atti del giudizio di delibazione, oppure siano allegati, e in ogni caso dimostrati dalla parte interessata – se contestati dall’altra -, mediante la deduzione di idonei mezzi di prova, anche presuntiva (cfr., supra, n. 3.7.1.)” ed anche mediante il richiamo degli atti del processo canonico e della stessa sentenza delibanda, se ivi già risultano parzialmente o compiutamente.
A tal ultimo proposito e salve le ulteriori specificazioni, deve immediatamente affermarsi che sia tali oneri di allegazione, di deduzione e di prova gravanti sulla parte interessata a far valere detto limite d’ordine pubblico, sia l’eventuale svolgimento della relativa istruzione probatoria non costituiscono violazioni del divieto di “riesame del merito” della sentenza canonica, imposto al giudice della delibazione dal punto 4, lett. b), n. 3, del Protocollo addizionale. Infatti – nell’ambito del giudizio di delibazione in cui sia stata dedotto il predetto limite d’ordine pubblico -, l’oggetto specifico ed esclusivo dei relativi accertamenti è costituito dalla verifica della sussistenza, o no, della “convivenza coniugale”.
Oggetto questo, rispetto al quale l’insindacabile accertamento contenuto nel “giudicato canonico” (punto 4, lett. b, n. 2, del Protocollo addizionale), costituito dalle ragioni di fatto e di diritto della nullità del matrimonio, accertata e dichiarata appunto secondo il diritto canonico, è e deve restare del tutto estraneo ed irrilevante. Al riguardo, è appena il caso di sottolineare che è dovere del giudice della delibazione valutare l’ammissibilità e la rilevanza delle circostanze allegate e delle prove eventualmente dedotte dalle parti, nel rispetto della netta distinzione tra gli oggetti dei due processi ora rimarcata e, comunque, del suddetto divieto stabilito dall’Accordo, fermo restando in ogni caso il sindacato di legittimità sul punto esercitabile da questa Corte (cfr., ex plurimis e da ultima, la sentenza n. 24967 del 2013).
Del resto, principi analoghi sono già stati affermati più volte da questa Corte in riferimento sia a casi di diniego della delibazione, in cui rileva tout court la convivenza coniugale successiva alla celebrazione del matrimonio (sentenza n. 9844 del 2012), sia a casi di diniego della delibazione per esclusione, da parte di un coniuge, di uno dei bona matrimonii (sentenza n. 3378 del 2012), ovvero per apposizione di una condizione al vincolo matrimoniale viziante il consenso di uno dei coniugi (sentenza n. 12738 del 2011): casi nei quali, appunto, il giudice italiano può e deve accertare la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità dell’esclusione o della condizione anzidette da parte dell’altro coniuge con piena autonomia, trattandosi di profili estranei, in quanto irrilevanti, al processo canonico. E sono proprio queste, in definitiva, le medesime ragioni che giustificano – fermi i predetti oneri di allegazione, di deduzione e di prova gravanti sulla parte interessata ed i corrispondenti poteri di controllo del giudice della delibazione e di questa Corte – anche l’acquisizione di elementi probatori dagli atti del processo canonico e dalla stessa sentenza delibanda.
E’ certamente vero che, nei casi da ultimo menzionati, questa Corte, nell’ammettere detti accertamenti da parte del giudice della delibazione con piena autonomia rispetto al giudice ecclesiastico, ha nel contempo affermato che la relativa indagine ha da svolgersi con esclusivo riferimento alla pronuncia delibanda ed agli atti del processo canonico eventualmente acquisiti e non deve essere integrata da alcuna attività istruttoria (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 3339 del 2003 e 12738 del 2011 cit.), ma è altrettanto vero che nelle più volte sottolineate peculiarità della fattispecie “convivenza coniugale”, fatta valere come limite generale d’ordine pubblico alla delibazione, è certamente compresa, anche sotto il profilo in esame, un’indubbia “complessità fattuale” – molto maggiore di quella rilevabile negli altri casi, anche se parimenti non coinvolta negli accertamenti della sentenza canonica -, che giustifica ampiamente lo svolgimento di un’apposita istruzione probatoria, da compiersi tuttavia, come pure già rimarcato, con particolare attenzione, tenuto conto che i relativi accertamenti, da un lato, attengono al’attuazione di un principio d’ordine pubblico italiano oggetto di rilievo e tutela anche costituzionali e, dall’altro, esigono comunque l’osservanza dei patti stipulati dalla Repubblica italiana e dalla Santa Sede con l’Accordo del 1984.
4.2. – Va svolta, inoltre, qualche ulteriore considerazione preliminare circa l’intervento obbligatorio del pubblico ministero in tali giudizi di delibazione.
E’ noto che, secondo l’art. 796 c.p.c., comma 3, – richiamato dal punto 4, lett. b), del Protocollo addizionale e da questo non derogato sul punto -, nel giudizio di delibazione “L’intervento del pubblico ministero è sempre necessario”; ciò, coerentemente con quanto dispone l’art. 70, comma 1, n. 2, dello stesso codice di rito, che prevede l’intervento obbligatorio del pubblico ministero a pena di nullità, tra le altre, “nelle cause matrimoniali” (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 9085 e 19277 del 2003).
E’ altresì noto che il pubblico ministero, ai sensi dell’art. 72 c.p.c., comma 1, “nelle cause che avrebbe potuto proporre ha gli stessi poteri che competono alle parti e li esercita nelle forme che la legge stabilisce per queste ultime”, mentre, ai sensi dello stesso art. 72, comma 2, “Negli altri casi di intervento previsti dall’art. 70…. può produrre documenti, dedurre prove, prendere conclusioni nei limiti delle domande proposte dalle parti”, essendo peraltro attribuito allo stesso organo requirente il potere di proporre impugnazione, tra le altre, contro le sentenze “che dichiarino l’efficacia o l’inefficacia di sentenze straniere relative a cause matrimoniali” (art. 72, comma 4: cfr. le sentenze, delle Sezioni Unite n. 27145 del 2008, nonchè nn. 6739 del 1983, 332 del 1984, 773 del 1985), salvo in ogni caso il potere, attribuito all’organo medesimo, di impugnazione per revocazione nei casi di cui all’art. 397 c.p.c..
Esclusa quindi nettamente, ai sensi dell’Accordo, la promovibilità di tali giudizi di delibazione da parte del pubblico ministero, in questi giudizi spetta tuttavia allo stesso organo requirente l’eventuale esercizio dei poteri processuali previsti dal menzionato art. 72 c.p.c., comma 2, (“produrre documenti, dedurre prove, prendere conclusioni”), soltanto però “nei limiti delle domande proposte dalle parti”.
Al riguardo, deve ribadirsi che il parametro di legittimità dell’esercizio di tali poteri da parte del pubblico ministero, malgrado la dimensione pubblicistica sottesa al suo intervento, è costituito, in definitiva, dalle causae petendi e dai petita fatti valere dalle parti nonchè dalle eccezioni dalle stesse sollevate, che delimitano l’oggetto del giudizio (cfr., tra le poche che hanno affrontato il tema, le sentenze nn. 8862 del 1993, e 2621 del 1970, pronunciata a sezioni unite).
4.3. – Sulla base di tutte le considerazioni che precedono, può rispondersi puntualmente alle suddette questioni poste con l’ordinanza di rimessione (cfr., supra, n. 4).
A) Quanto al potere della corte d’appello e della Corte di cassazione di rilevare – d’ufficio, oppure soltanto su eccezione di parte – la “convivenza coniugale” quale situazione giuridica che, con le individuate caratteristiche, osta alla delibazione, deve innanzitutto sottolinearsi che, nelle fattispecie in esame, l’oggetto del giudizio è costituito, da un lato, dalla domanda di dichiarazione d’efficacia nella Repubblica italiana della sentenza ecclesiastica di nullità di matrimonio, dall’altro, dalla “questione” della delibabilità di tale sentenza, sotto il profilo del limite generale d’ordine pubblico rappresentato da detta situazione giuridica.
Si tratta, allora, di stabilire se la “convivenza coniugale” successiva alla celebrazione del matrimonio concordatario, opposta da un coniuge all’altro nel giudizio di delibazione, abbia, o no, i caratteri delle “eccezioni in senso stretto” (exceptiones juris) rilevabili, com’è noto, soltanto ad istanza di parte: tali eccezioni vengono identificate ormai, secondo diritto vivente, o in quelle per le quali la legge riserva espressamente il potere di rilevazione alla parte, ovvero in quelle nelle quali il fatto che integra l’eccezione corrisponde all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio da parte del titolare, comportando quindi, per avere efficacia modificativa, impeditiva od estintiva di un rapporto giuridico, il tramite di una manifestazione di volontà della parte (cfr., ex plurimis, la sentenza di queste Sezioni Unite n. 15661 del 2005, nonchè l’ordinanza interlocutoria delle stesse Sezioni Unite n. 10531 del 2013 e la sentenza n. 18602 del 2013). La risposta affermativa a tale quesito si impone per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, perchè la convivenza coniugale, come delineata nel su enunciato principio di diritto – in particolare “come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, ed esteriormente riconoscibile attraverso corrispondenti fatti e comportamenti dei coniugi, e come fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità anche genitoriali in presenza di figli, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio “concordatario” regolarmente trascritto” -, è perciò connotata non soltanto, come già sottolineato, da un’indubbia “complessità fattuale” (cfr., supra, n. 4.1.), ma anche dalla connessione molto stretta di tale complessità con l’esercizio di diritti, con l’adempimento di doveri e con l’assunzione di responsabilità personalissimi di ciascuno dei coniugi, con la conseguenza che essa può essere eccepita soltanto dal coniuge che, quale partecipe esclusivo del rapporto matrimoniale, intende farla valere come situazione giuridica impeditiva della delibazione richiesta (rectius:
come situazione giuridica che, quale limite generale d’ordine pubblico, è idonea ad impedire la dichiarazione di efficacia, nell’ordinamento italiano, della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico).
In secondo luogo, perchè la fattispecie processuale in esame è riconducibile per analogia – secondo il già applicato canone ermeneutico di cui all’art. 12 disp. gen., comma 2, primo periodo, (cfr., supra, n. 3.7.3.) – a quella prefigurata dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 3, comma 1, n. 2, lett. b), primo capoverso, ultimo periodo, nel testo sostituito dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 5, (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), secondo cui “In tutti i predetti casi, per la proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le separazioni devono essersi protratte ininterrottamente da almeno tre anni a far tempo dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale. L’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta”.
AI riguardo, con orientamento costante, questa Corte (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 6031 del 1998, 26165 del 2006 e 23510 del 2010) ha affermato: a) che la dichiarazione di divorzio non consegue automaticamente alla constatazione della presenza di una delle cause previste dalla L. n. 898 del 1970, art. 3, ma presuppone in ogni caso, attesi i riflessi pubblicistici riconosciuti dall’ordinamento all’istituto familiare, l’accertamento, da parte del giudice, della esistenza dell’essenziale condizione della concreta impossibilità di mantenere o ricostituire il consorzio familiare per effetto della definitività della rottura dell’unione spirituale e materiale tra i coniugi (accertamento di ampiezza ed approfondimento diversi, secondo le circostanze emergenti dagli atti e le deduzioni svolte in concreto dalle parti); b) che l’asserito venir meno dello stato di separazione, opposto da uno dei coniugi in presenza di una richiesta di divorzio avanzata dall’altro coniuge, ha pertanto, come suo indefettibile presupposto, l’avvenuta riconciliazione (ossia la ricostituzione del nucleo familiare nell’insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali), e va accertato attribuendo rilievo preminente alla concretezza degli atti e dei comportamenti posti in essere dai coniugi, valutati nella loro effettiva capacità dimostrativa della disponibilità alla ricostruzione del rapporto matrimoniale; c) in particolare, che l’eccezione di sopravvenuta riconciliazione, come espressamente previsto dalla disposizione richiamata, deve essere sollevata esclusivamente ad istanza di parte, senza che il giudice possa rilevarla d’ufficio, investendo essa aspetti strettamente inerenti ai rapporti tra i coniugi, in ordine ai quali è onere della parte convenuta eccepire, e conseguentemente provare, l’avvenuta riconciliazione.
La piana lettura degli ora richiamati principi di diritto – segnatamente dell’ultimo – mostra con evidenza, naturalmente mutatis mutandis, la loro ragionevole riferibilità anche alla fattispecie in esame: a ben vedere, nel senso della rilevabilità della “convivenza coniugale” soltanto ad istanza di parte convergono infatti, in modo decisivo, gli argomenti fondati sulla connessione molto stretta tra oggetto dell’eccezione e dimensioni “personalissime” dello svolgimento del rapporto matrimoniale.
B) Premesso che, secondo la speciale disciplina dell’Accordo, occorre distinguere tra due ipotesi, a seconda che la domanda di delibazione sia proposta “dalle parti”, oppure “da una di esse” (alinea dell’art. 8, n. 2, dell’Accordo), tutte le considerazioni che precedono rendono evidente che nella prima ipotesi – domanda di delibazione, per così dire, “congiunta” – non possono sussistere dubbi circa la tendenziale delibabilità, sotto tale profilo, della sentenza canonica di nullità, anche nel caso in cui già emergesse ex actis una situazione di “convivenza coniugale”, con i più volte sottolineati caratteri, potenzialmente idonea a costituire ostacolo alla delibazione: ciò, in ragione sia della affermata rilevabilità della “convivenza coniugale” soltanto a sèguito di tempestiva eccezione di parte, sia della prevalenza da dare alla consapevole, concorde manifestazione di volontà delle parti.
Resta salvo, ovviamente, il controllo del giudice in ordine alla sussistenza delle altre condizioni per la delibazione previste dall’art. 8, n. 2, lett. a – c), dell’Accordo e dall’art. 797 c.p.c..
A tal ultimo proposito, è utile ribadire (cfr., supra, n. 4.1.) che il procedimento giurisdizionale di delibazione è un ordinario giudizio di cognizione – sia pure legittimamente disegnato dal legislatore in unico grado di merito, essendo noto che, nel nostro ordinamento, non ha riconoscimento costituzionale il principio del doppio grado di cognizione nel merito (cfr., ex plurimis, con costante orientamento, le sentenze della Corte costituzionale nn. 22 del 1973 e 242 del 2011) -, che è disciplinato dalle già menzionate, speciali disposizioni dell’Accordo e de Protocollo addizionale e dalle norme interne ivi richiamate (art. 8, numero 2, dell’Accordo, punto 4, lettera b, del Protocollo addizionale e previgenti artt. 796 e 797 c.p.c.), dal codice di procedura civile – tendenzialmente, salvo il previo giudizio di compatibilita: dalle norme che regolano il rito dinanzi alla corte d’appello (artt. da 339 a 359 c.p.c.), tenuto anche conto del rinvio materiale alle “norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al tribunale”, di cui alFart. 359 cod. proc. civ., da applicare previo giudizio di “compatibilita” con le particolari natura e struttura del giudizio di delibazione -, nonchè dai principi giurisprudenziali enunciati in materia da questa Corte.
C) Nel caso in cui, invece, la domanda di delibazione sia proposta da uno soltanto dei coniugi, l’altro – che intenda opporsi alla domanda, eccependo il limite d’ordine pubblico costituito dalla “convivenza coniugale” con le evidenziate caratteristiche (cfr., supra, n. 4.1.) – ha l’onere, a pena di decadenza, ai sensi dell’art. 167 c.p.c., commi 1 e 2, (si veda l’art. 343 c.p.c., comma 1): i) di sollevare tale eccezione nella comparsa di risposta; 2) di allegare i fatti specifici e gli specifici comportamenti dei coniugi, successivi alla celebrazione del matrimonio, sui quali l’eccezione medesima si fonda, anche mediante la puntuale indicazione di atti del processo canonico e di pertinenti elementi che già emergano dalla sentenza delibanda;
3) di dedurre i mezzi di prova, anche presuntiva, idonei a dimostrare la sussistenza di detta “convivenza coniugale”, restando ovviamente salvi i diritti di prova della controparte ed i poteri di controllo del giudice della delibazione quanto alla rilevanza ed alla ammissibilità dei mezzi di prova richiesti.
L’eventuale, relativa istruzione probatoria – si ribadisce – ha da svolgersi, secondo le regole di un ordinario giudizio di cognizione, con particolare rigore, in considerazione sia della complessità degli accertamenti in fatto, sia del coinvolgimento di diritti, doveri e responsabilità fondamentali e personalissimi, sia del dovere di rispettare il divieto di “riesame del merito” della sentenza canonica, imposto al giudice della delibazione dal punto 4, lett. b), n. 3, del Protocollo addizionale.
D) Ribadito che l’esclusione del rilievo d’ufficio del limite d’ordine pubblico de quo vale anche nell’eventuale giudizio di legittimità promosso avverso la sentenza che decide sulla domanda di delibazione della pronuncia definitiva di nullità matrimoniale del Giudice ecclesiastico (cfr., supra, lett. A), e che la “convivenza coniugale” successiva alla celebrazione del matrimonio concordatario, opposta da un coniuge all’altro nel giudizio di delibazione, ha natura di “eccezione in senso stretto” (exceptio juris), va sottolineato in particolare sia che la relativa deduzione non può essere effettuata per la prima volta nel giudizio di legittimità (cfr., supra, lett. Q, sia che il relativo ricorso per cassazione deve essere, innanzitutto, adeguato alle peculiarità, sostanziali ed anche processuali (ad esempio, per ciò che attiene all’istruzione probatoria sulla sussistenza della convivenza coniugale), della fattispecie in esame, sia quanto all'”esposizione sommaria dei fatti di causa” ed alle “specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti (…) sui quali il ricorso si fonda” (art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6: cfr. al riguardo, ex plurimis, le sentenze delle Sezioni Unite, nn. 8077 e 5698 del 2012, 7161 del 2011), sia quanto al deposito degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda (art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4: cfr. al riguardo, ex plurimis, la sentenza delle Sezioni Unite, n. 22726 del 2011).
Ciò, senza dimenticare il principio di diritto recentemente enunciato da queste Sezioni Unite (cfr. le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014), secondo cui l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – nel testo sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, art. 1, comma 1, – introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciarle per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), con la conseguenza che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame ai elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
4.4. – Sulla base delle considerazioni che precedono, può enunciarsi il seguente, articolato principio di diritto:
“La convivenza “come coniugi” – intesa nei sensi di cui al su enunciato principio di diritto (cfr., supra, n. 3.9.) -, come situazione giuridica d’ordine pubblico ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, ed in quanto connotata da una “complessità fattuale” strettamente connessa all’esercizio di diritti, all’adempimento di doveri ed all’assunzione di responsabilità personalissimi di ciascuno dei coniugi, deve qualificarsi siccome eccezione in senso stretto (exceptio juris) opponi bile da un coniuge alla domanda di delibazione proposta dall’altro coniuge e, pertanto, non può essere eccepita dal pubblico ministero interveniente nel giudizio di delibazione nè rilevata d’ufficio dal giudice della delibazione o dal giudice di legittimità – dinanzi al quale, peraltro, non può neppure essere dedotta per la prima volta -, potendo invece essere eccepita esclusivamente, a pena di decadenza nella comparsa di risposta, dal coniuge convenuto in tale giudizio interessato a farla valere, il quale ha inoltre l’onere sia di allegare fatti e comportamenti dei coniugi specifici e rilevanti, idonei ad integrare detta situazione giuridica d’ordine pubblico, sia di dimostrarne la sussistenza in caso di contestazione mediante la deduzione di pertinenti mezzi di prova anche presuntiva.
Ne consegue che il giudice della delibazione può disporre un ‘apposita istruzione probatoria, tenendo conto sia della complessità dei relativi accertamenti in fatto, sia del coinvolgimento di diritti, doveri e responsabilità personalissimi dei coniugi, sia del dovere di osservare in ogni caso il divieto di “riesame del merito” della sentenza canonica, espressamente imposto al giudice della delibazione dal punto 4, lett. b), n. 3, del Protocollo addizionale all’Accordo, fermo restando comunque il controllo del giudice di legittimità secondo le speciali disposizioni dell’Accordo e del Protocollo addizionale, i normali parametri previsti dal codice di procedura civile ed i principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia”.
5. – in applicazione degli ora affermati principi di diritto, il ricorso in esame, complessivamente considerato, non merita accoglimento, presentando peraltro anche consistenti profili di inammissibilità.
5.1. – Al riguardo, deve sottolinearsi innanzitutto che dalla sentenza impugnata emerge che: a) la sentenza canonica, della quale è stata chiesta ed ottenuta dalla odierna controricorrente la dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana, ha pronunciato la nullità del matrimonio “per esclusione della indissolubilità del vincolo da parte della donna”; b) l’odierno ricorrente, nel costituirsi in giudizio, si è opposto alla domanda di delibazione, deducendo soltanto, in particolare, che l’accertata esclusione unilaterale dell’indissolubilità del matrimonio da parte della moglie non gli era stata mai resa nota; c) i Giudici a quibus hanno accolto la domanda di delibazione affermando, tra l’altro, che detta sentenza canonica non contiene disposizioni contrarie all’ordine pubblico interno – in quanto l’esclusione dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale da parte della controricorrente era stata “manifestata, secondo i giudici ecclesiastici, anche a terzi, in particolare al padre, alla madre, al fratello e all’amica M. M. e percepita dallo zio del convenuto, don P. G., secondo cui “in occasione dei colloqui in preparazione del matrimonio lei si dichiarò atea e si limitò ad una accettazione solo formale degli impegni del matrimonio”, perciò ragionevolmente.
conosciuta anche dal convenuto, attesa l’abitualità della esternazione da parte dell’attrice anche fuori dal contesto familiare” -, e che tale conclusione di merito, circa l’affermata conoscenza del ricorrente della esclusione, da parte della moglie, dell1 indissolubilità del vincolo matrimoniale, è conforme all’orientamento della Corte di cassazione sull’ammissibilità della delibazione nei casi in cui l’esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii sia conosciuta, o conoscibile secondo l’ordinaria diligenza, da parte dell’altro coniuge.
Tale specifica ratio decidendi è censurata dal ricorrente con il secondo motivo, che è infondato e, per alcuni versi, inammissibile.
Infondato, perchè – contrariamente a quanto dedotto dallo stesso ricorrente -, la Corte di Venezia ha applicato alla fattispecie il consolidato principio più volte affermato da questa Corte, secondo cui la dichiarazione di esecutività della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per esclusione, da parte di uno solo dei coniugi, di uno dei bona matrimonii, postula che la divergenza unilaterale tra volontà e dichiarazione sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero che sia stata da questo effettivamente conosciuta, o che non gli sia stata nota esclusivamente a causa della sua negligenza, in quanto, qualora le menzionate situazioni non ricorrano, la delibazione trova ostacolo nella contrarietà all’ordine pubblico italiano, nel cui ambito va ricompreso il principio fondamentale di tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole (cfr., ex plurimis e tra le ultime, la sentenza n. 3378 del 2012). Inammissibile invece – laddove il ricorrente critica la sentenza impugnata sotto il profilo dei vizi di motivazione -, perchè le censure svolte si risolvono sostanzialmente in critiche alla valutazione effettuata dai Giudici a quibus relativamente ai contenuti della prova testimoniale assunta nel giudizio di delibazione, essendo noto che il convincimento espresso dal giudice del merito sulla conoscenza o conoscibilità da parte del coniuge della riserva mentale unilaterale dell’altro costituisce, se motivato secondo un logico e corretto iter argomentativo – come nella specie -, statuizione insindacabile in sede di legittimità (cfr., ex plurimis, la stessa sentenza n. 3378 del 2012).
E’ soltanto con il primo motivo che il ricorrente critica la sentenza impugnata, deducendo – per la prima volta in questa sede – la contrarietà all’ordine pubblico interno ~ degli effetti riconosciuti dalla Corte di Venezia alla pronuncia canonica di nullità del matrimonio concordatario, contratto con la moglie circa dieci anni prima, elevando ad indici rivelatori di detta contrarietà all’ordine pubblico sia la convivenza protratta per l’intera durata del rapporto matrimoniale sia la nascita di una figlia, e richiamando a supporto della censura il principio enunciato con la più volte menzionata sentenza di questa Corte n. 1343 del 2011.
Questo motivo è inammissibile, per la decisiva ragione che la deduzione della “convivenza come coniugi” successiva alla celebrazione del matrimonio de quo, quale situazione giuridica ostativa alla stessa delibabilità della sentenza canonica, è stata effettuata per la prima volta – in palese contrasto con i su affermati principi di diritto (cfr., supra, n. 4.4.) – nel presente giudizio di legittimità: è lo stesso ricorrente, infatti, ad asserire che nel giudizio a quo si è opposto alla domanda di delibazione proposta dalla moglie, deducendo la contrarietà della sentenza canonica delibanda all’ordine pubblico italiano esclusivamente sotto il profilo della violazione del “principio inderogabile della tutela della buonafede e dell’affidamento incolpevole” (cfr. Ricorso, pag. 2), ciò a prescindere dalla estrema genericità di detta deduzione, non essendo certo sufficiente, in applicazione degli stessi principi, la mera allegazione – senza nel contempo specificare fatti e comportamenti dei coniugi successivi alla celebrazione del matrimonio – che “la durata del matrimonio, la nascita di un figlio e, comunque, la condotta tenuta dalla F. dopo la celebrazione del rito e durante la convivenza, costituiscono ostacolo alla delibazione della sentenza canonica da parte del giudice ordinario” (cfr. Ricorso, pag. 5).
5.2. – La circostanza che la presente decisione compone un contrasto di giurisprudenza, nonchè la sostanziale novità della maggior parte delle questioni trattate costituiscono gravi ed eccezionali ragioni, ai sensi dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., per compensare integralmente tra le parti le spese del presente grado del giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 3 dicembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2014.