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6. come evidenziato dal P.G., assume rilievo verificare se – con riferimento ai magistrati di questa Corte – l’individuazione del Tribunale di Perugia quale giudice competente ai sensi dell’art. 4, primo comma, della legge n. 117/1988, sia l’effetto di una interpretazione analogica, vietata, come indirettamente affermato dall’orientamento tradizionale della Corte di cassazione, oppure di una interpretazione estensiva, consentita, come sembrerebbe aver affermato la Corte di cassazione con le già richiamate ordinanze della Sesta sezione civile;
al riguardo il P.G. ha posto in risalto che la distinzione tra interpretazione realmente analogica e, dunque, vietata ed interpretativa estensiva, come tale consentita, presenta indubbie difficoltà che dipendono dalla sostanziale identità strutturale esistente tra i due procedimenti interpretativi, pur se presupposto indefettibile dell’analogia è la lacuna di disciplina, nel senso che la fattispecie concreta non corrisponde a quella astratta prevista della legge, sussistendo tra le due un rapporto di non identità e che, come chiarito dalla dottrina, si ha interpretazione estensiva fino a che l’interprete, nel qualificare il dato reale, si muove all’interno dell’uso linguistico del termine, sia pure nella sua massima estensione, mentre l’interpretazione analogica oltrepassa tale limite, sicché può ben dirsi che se l’interpretazione estensiva è pur sempre collegata al senso delle parole normativamente espresse, l’interpretazione analogica presuppone che l’ipotesi concreta non sia in alcun modo riconducibile all’ambito semantico della norma, ma risulti “affine” ad un caso da essa contemplato sulla base di una similitudine sufficiente a postulare l’esigenza di ricorrere ad una medesima disciplina (il c.d. requisito della eadem ratio);
in sede di interpretazione dell’art. 4, primo comma, legge n. 117 del 1988, o meglio dell’art. 11 cod. proc. pen., richiamato con rinvio recettizio dalla prima norma, e dell’art. 1 disp. coord. e att. cod. proc. pen., che individua in concreto il giudice competente ai sensi della norma del codice di rito penale, osserva il P.G. che la deroga di competenza di cui all’art. 11 c.p.p. è anzitutto parametrata alla regola della “competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d’appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto”, laddove, invece, i magistrati della Corte di cassazione non esercitano le funzioni in alcun distretto di Corte d’appello, essendo questa Corte un ufficio giudiziario avente competenza nazionale;
pertanto, sempre ad avviso del P.G., un conto è affermare che il termine lessicale “distretto” possa essere interpretato come riferibile anche a realtà territoriali diverse e non sempre coincidenti, come quelle ove operano i tribunali amministrativi regionali, come enunciato da Cass., sez. un., 16 marzo 2010, n. 6307, altro conto è affermare che quel medesimo termine possa essere interpretato come riferibile alla realtà comprensiva dell’intero territorio nazionale, come enunciato (con un mero obiter dictum in riferimento ai magistrati della Corte di cassazione) dalle ordinanze della Sesta sezione civile della Corte di cassazione 16 maggio 2012, n. 10224, 5 giugno 2012, n. 8997 e 11 gennaio 2013, n. 668 e, quindi, dalla ordinanza impugnata;
nel primo caso, infatti, l’assunto sarebbe – secondo il P.G. – il risultato di una interpretazione estensiva della norma, ispirata al ragionevole principio secondo il quale, non solo ai magistrati ordinari, ma anche ai magistrati appartenenti a magistrature speciali, che operano in realtà territoriali limitate e più o meno coincidenti con quelle distrettuali, si applica la deroga di competenza di cui all’art. 11 cod. proc. pen.; nel secondo caso, l’assunto sembrerebbe essere il risultato di una interpretazione analogica, che si spinge oltre il limite del significato linguistico del termine “distretto” ed è determinata dalla conclamata necessità di applicare la stessa deroga di competenza in forza della eadem ratio che l’ha ispirata;
né, secondo il P.G., sembrerebbe convincente – al fine di qualificare come estensiva una interpretazione della norma ispirata a casi analoghi l’osservazione secondo cui il termine “distretto… appartiene alla descrizione del criterio di collegamento e vale a delimitare un ambito territoriale di competenza dell’ufficio giudiziario in modo identico… in quanto ciò che viene in rilievo non è l’ambito territoriale di competenza dell’ufficio giudiziario, ma la sua sede”; ed invero, l’art. 1 del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271 (“Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale”), così come modificato dall’art. 6 della legge 2 dicembre 1998, n. 420, dispone che “agli effetti di quanto stabilito dall’art. 11 del codice, il distretto di corte d’appello nel cui capoluogo ha sede il giudice competente è determinato sulla base della tabella A allegata alle presenti norme”, ma tale tabella (da ultimo modificata dall’art. 1 della legge 24 luglio 2003, n. 199) stabilisce gli spostamenti di competenza per i relativi procedimenti da ogni singolo distretto che sarebbe competente secondo le regole ordinarie ad ogni singolo distretto competente secondo la norma speciale e tra questi spostamenti di competenza non è compreso quello relativo a magistrati appartenenti ad un ufficio giudiziario non compreso tra quelli specificati nella tabella medesima, in quanto avente competenza nazionale, sicché non sarebbe evincibile in alcun modo, né “dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”, né “dalla intenzione del legislatore” (art. 12 preleggi), che l’art. 11 cod. proc. pen. comprenda, nella deroga alla ordinaria competenza territoriale, anche i processi (o procedimenti) riguardanti i magistrati della Corte di cassazione e, nel dubbio, non potrebbe farsi riferimento al criterio analogico per lo specifico divieto di cui all’art. 14 preleggi;
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