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In sostanza, non vi e’ traccia di pagamenti fatti dalla societa’ ai propri fornitori dopo l’anno 2000.
Quanto alla situazione economica della societa’ al momento in cui il (OMISSIS) ha dismesso la carica di amministratore e venduto le proprie quote al (OMISSIS), va osservato che pur non risultando particolari tensioni finanziarie dai bilanci, costituisce un dato incontrovertibile (risultante dall’esame dell’istanza di fallimento allegata dal ricorrente) che il debito di cui all’istanza di fallimento vantato da una lavoratrice, della relativamente modesta entita’ di circa Euro 5.000,00 – e che ha fatto fallire la (OMISSIS) s.r.l. – risaliva al marzo 2005, oltre un anno e mezzo prima quindi che il ricorrente dismettesse la carica di amministratore.
Essendo la societa’ rimasta inattiva dopo il cambio di gestione e di proprieta’ – come ricostruito dai giudici di merito – e non essendo stati contestati all’ultimo amministratore atti di distrazione, e’ evidente che la societa’ si trovava in una situazione di illiquidita’ quando ancora il (OMISSIS) rivestiva la carica di amministratore.
Peraltro, che le distrazioni per l’importo di circa 55.00,00 Euro (secondo il tasso di conversione Euro/Lira) perpetrate dal ricorrente, pur risalenti nel tempo, abbiano avuto concrete ripercussioni negative sulla conservazione del patrimonio sociale, costituente la garanzia per i creditori, emerge inesorabilmente dal rilievo che, come sopra evidenziato, la societa’ e’ fallita per non essere stata in grado di pagare il modesto credito di circa 5.000,00 e, l’ammontare complessivo del passivo, al momento dell’apertura del fallimento, era pari a circa 37 mila Euro (essendo stato comunicato al curatore il decreto di revoca delle provvidenze pubbliche ex L. n. 488 del 1992 solo circa due anni dopo la dichiarazione di fallimento).
In conclusione, l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui dopo i prelievi indebiti la societa’ e’ stata svuotata ed e’ rimasta di fatto inattiva non ha affatto travisato le emergenze processuali risultanti dall’istruttoria dibattimentale.
3. Il terzo motivo e’ infondato.
Va preliminarmente osservato che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, la bancarotta “riparata” si configura, determinando l’insussistenza dell’elemento materiale del reato, quando la sottrazione dei beni venga annullata da un’attivita’ di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell’impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento (Sez. 5, Sentenza n. 4790 del 20/10/2015, Rv. 266025).
Presupposto necessario per l’applicabilita’ di tale istituto e’ quindi che le somme versate dall’amministratore nelle casse sociali abbiano effettivamente avuto quella funzione di reintegrazione del patrimonio della societa’ precedentemente pregiudicato dagli indebiti prelievi, con un’attivita’ di segno contrario, non rilevando certo i versamenti fatti dall’amministratore ad altro titolo.
Non hanno quindi alcuna valenza “in termini restitutori” i versamenti effettuati dall’amministratore – come nel caso di specie – a titolo di finanziamento in futuro aumento di capitale, o per altre causali non specificate.
E’ evidente, peraltro, che essendo l’amministratore artefice della gestione sociale, proprio in relazione alla funzione dallo stesso svolta, sono consueti suoi versamenti nel conto corrente bancario intestato alla societa’. Ne consegue che, in presenza di una pluralita’ di versamenti dallo stesso effettuati nel conto corrente sociale, e’ onere dell’amministratore stesso che si fosse reso precedentemente responsabile di atti di distrazione (in considerazione della posizione di garanzia che grava sullo stesso al cospetto del patrimonio sociale) provare l’esatta corrispondenza dei versamenti dallo stesso compiuti con gli atti distrattivi precedentemente perpetrati, e quindi la loro natura di “atti di segno contrario”.
4. Il sesto motivo e’ infondato.
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