La legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per i reati ambientali spetta non soltanto al Ministero dell’Ambiente, ai sensi dei D.Igs. 152 del 2006, artt. 311, comma 1, ma anche all’Ente pubblico territoriale ed ai soggetti provati, precisando però che per costoro siffatta legittimazione deve ritenersi limitata ai casi in cui per effetto della condotta illecita essi abbiano subito un ordinario danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c.
In altri termini, il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, in sé considerato come lesione dell’interesse pubblico alla integrità e salubrità dell’ambiente, è previsto e disciplinato soltanto dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 311, sicché il titolare della pretesa risarcitoria per tale tipo di danno è esclusivamente lo Stato, in persona del Ministro dell’ambiente; tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli Enti pubblici territoriali e le Regioni, possono invece agire, in forza dell’art. 2043 c. c., per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che abbiano dato prova di aver subito dalla medesima condotta lesiva dell’ambiente conseguente alla lesione di altri loro diritti particolari, diversi dall’interesse pubblico e generale alla tutela dell’ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale, così come possono agire per il risarcimento dei danno non patrimoniale avente tuttavia le medesime caratteristiche del precedente quanto alla estraneità al danno ambientale di natura pubblica
Suprema Corte di Cassazione
sezione III penale
sentenza 29 agosto 2016, n. 35610
Ritenuto in fatto
B.E.O. ricorre, tramite difensore di fiducia, per la cassazione della suindicata sentenza della Corte di Appello di Milano che ha confermato, per quanto qui interessa, la sentenza emessa in data 16/7/2013 dal Tribunale di Milano – Sezione Distaccata di Cassano d’Adda, cha ha ritenuto l’odierno ricorrente responsabile del reato previsto dall’art. 256, comma. 3, D. Lgs. n. 152/2006, perché, in zona sottoposta a vincolo paesistico, effettuava, in mancanza della prescritta autorizzazione, un’attività di raccolta di rifiuti speciali pericolosi (circa 50 mc.) costituti da contenitori di fito-farmaci non bonificati, all’interno dei quali permanevano residui di polveri e di liquidi colorati o lattiginosi, plastica, cartoni e filtri olio e, concesse le attenuanti generiche prevalenti rispetto alla contestata aggravante, lo ha condannato alla pena di mesi 4 di reclusione ed euro 2.000,00 di ammenda, con i doppi benefici di legge, nonchè al risarcimento del danno in favore della Provincia di Milano, costituitasi parte civile (accertato in Vignate il 26/1/2010).
Con un primo motivo di ricorso deduce inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 168 bis c.p. e 464 bis c.p.p., illogicità e contraddittorietà della motivazione, per avere la Corte di Appello respinto la richiesta di accedere all’istituto della messa in prova avanzata dall’imputato all’udienza del 28/1/2015, con una giustificazione, quella che attiene alla ritenuta tardività della richiesta, del tutto inconferente.
Con un secondo motivo di ricorso deduce violazione ed erronea interpretazione degli artt. 220 disp. att. c.p.p. e 357 c.p.p. nonché dell’art. 491 c.p.p., difetto di motivazione in ordine alla mancata declaratoria di nullità dell’attività d’indagine svolta dalla Polizia della Provincia di Milano, atteso che già alla prima udienza dibattimentale, svoltasi davanti al Tribunale di Milano – Sezione Distaccata di Cassano d’Adda, la difesa dell’imputato aveva immediatamente eccepito la nullità della procedura seguita dalla Polizia Provinciale nella raccolta della fonti di prova e I’ inutilizzabilità degli atti contenuti nel fascicolo delle investigazioni. Evidenzia che la Corte di Appello ha respinto la riproposta eccezione di nullità sostenendo che nel verbale di sequestro probatorio dei 26/1/2010, ritualmente assunto ai sensi dell’art. 354 c.p.p., si indica chiaramente che nella Tenuta Trentzasenio, gestita dalla Azienda Agricola della quale l’imputato è legale rappresentante, era stata realizzata “una discarica di rifiuti speciali costituti da contenitori di farmaci non bonificati: rifiuti pericolosi CER 02.01.08″ e che dell’attività di rilievo fotografico eseguita dagli operanti non v’è alcuna verbalizzazione nonostante la Polizia Provinciale abbia svolto attività investigative qualificabili come attività giudiziaria con conseguente applicazione delle regole del codice di rito (artt. 220 disp. att. c.p.p. e 357 c.p.p.) a nulla rilevando la presenza, in data 26/1/2010, del B. e del suo difensore, alle operazioni del sequestro probatorio.
Con un terzo motivo di ricorso deduce difetto di motivazione della impugnata sentenza in punto di valutazione della deposizione del consulente tecnico della difesa, Ing. V., quanto alla pericolosità dei fito-farmaci, della quale la Corte di Appello ha del tutto omesso di considerare il contenuto. Evidenzia la difesa del ricorrente che una verifica della pericolosità dei materiali rinvenuti dalla Polizia Provinciale non è mai stata effettuata pur essendo stata sollevata la questione con i motivi di gravame e che il consulente tecnico aveva rilevato l’imprecisa attribuzione dei codici CER ai materiali rinvenuti presso la stalla nonché la mancata analisi dei residui presenti nei contenitori.
Con un quarto motivo di ricorso deduce violazione di legge, in particolare, degli artt. 597, 598 604 e 605 c.p.p., in relazione alla mancanza assoluta di motivazione della sentenza di primo grado in punto di affermazione della penale responsabilità dell’imputato per il reato di cui al capo d) della rubrica, concernente il danneggiamento della vegetazione arborea, cui la Corte di Appello non poteva porre rimedio e comunque a cui non ha posto rimedio essendosi limitata a rilevare che il Tribunale sarebbe incorso in un refuso e che il B. è stato assolto dalla relativa imputazione, come correttamente riportato nel dispositivo.
Con un quinto motivo di ricorso deduce difetto assoluto di motivazione in ordine al riconoscimento del danno in favore della parte civile avendo la Corte di Appello confermato la condanna generica del B., disposta in primo grado, sul rilievo della potenziale lesività del fatto-reato rispetto ai fini istituzionali dell’ente territoriale e della conseguente turbativa dei suo operato, pur essendo stato lamentato dalla Provincia di Milano genericamente un pregiudizio delle funzioni di tutela ambientale da essa svolte. Evidenzia la difesa dei ricorrente che l’unico titolare della pretesa risarcitoria è semmai lo Stato.
Con memoria difensiva dell’1/6/2016 il ricorrente insiste sulla” applicabilità della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. e, quindi, nell’accoglimento del motivo aggiunto.
Considerato in diritto
Il quinto motivo di ricorso merita accoglimento ed impone a questa Corte di legittimità di rilevare l’estinzione del reato previsto e punito dall’art. 256, comma. 3, D. Lgs. n. 152/2006, contestato all’imputato al capo a) della rubrica, intervenuta dopo la impugnata sentenza di appello, che deve essere annullata, con rinvio al competente giudice civile, nei soli limiti delle statuizioni civili, come meglio di seguito precisato, mentre gli altri motivi di doglianza sono palesemente infondati,
Prendendo le mosse dall’esame dei motivi di impugnazione, secondo l’ordine seguito dal ricorrente, deve anzitutto osservarsi la manifesta infondatezza della censura concernente il diniego della richiesta, avanzata all’udienza dei 28/1/2015, di accedere all’istituto della messa in prova perché nel giudizio di appello l’imputato non può chiedere la sospensione del procedimento con la messa alla prova di cui all’art. 168-bis c. p. attesa l’incompatibilità dei nuovo istituto con il sistema delle impugnazioni e la mancanza di una specifica disciplina transitoria (Sez. 4, n. 43009, del 30/9/2015, Zoni, Rv. 265331).
Questa Corte, nella richiamata sentenza n. 43009/2015, ha precisato che, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 263 del 2011, la mancata applicazione della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova nei giudizi di impugnazione pendenti alla data della sua entrata in vigore, non implica alcuna lesione del principio di retroattività della “lex mitior” da riferirsi esclusivamente alle disposizioni che definiscono i reati e le pene. Manifestamente infondato è il secondo motivo di ricorso con il quale il B. deduce la violazione degli artt. 357 c.p.p. e 220 Disp. Att. c.p.p., in relazione alla mancata verbalizzazione da parte della P.G. degli accertamenti svolti, essendo stata riportata nel documento soltanto l’esecuzione dei sequestro dei sito, con la conseguenza che le fotografie scattate durante gli accertamenti svolti in precedenza non potevano essere utilizzate. Sul punto è appena il caso di osservare che il verbale di sequestro, sul cui contenuto non vengono poste dalla difesa dei ricorrente ulteriori questioni, indica il motivo dei provvedimento (art. 355 c.p.p.) e che le fotografie, in quanto documenti, possono essere acquisite ed utilizzate a fini probatori, ai sensi dell’art. 234 c.p.p., per cui non è pertinente il riferimento alle regole dettate in materia di attività ispettive e di vigilanza di natura amministrativa, per l’ipotesi di emersione di indizi di reato, a cui segue l’obbligo di osservare le disposizioni del codice di rito per il compimento degli atti necessari all’assicurazione delle fonti di prova ed alla raccolta degli elementi informativi necessari per l’applicazione della legge penale (Sez. 3, n. 27118 del 5/3/2015, Clerici, v. 264021).
Manifestamente infondato è anche il terzo motivo di ricorso con il quale si deduce l’omessa motivazione sulle questioni, poste dati’ Ing. V., consulente tecnico della difesa, della pericolosità dei fito-farmaci rinvenuti nei contenitori in sequestro, della non corretta attribuzione dei codici CER ai predetti materiali e della mancata analisi dei residui presenti nei contenitori medesimi.
Dalla lettura della impugnata sentenza emerge tuttavia che il consulente tecnico non aveva contestato l’elenco redatto dagli accertatori ed aveva anzi riconosciuto che quelli che vengono definiti come erbicidi, con riferimento alle sostanze chimiche in essi contenute, costituiscono sostanze pericolose, e così correttamente sono classificate, ed ancora, che lo stesso imputato L ha ammesso la circostanza che i materiali contenuti nei contenitori sequestrati per il 30% sono classificati come rifiuti pericolosi e che con tale qualificazione sono stati successivamente smaltiti e, infine, che il verbale di sequestro attribuisce ad essi il corretto codice CER (Codici CER Pericolosi: 02.01.08* rifiuti agrochimici contenenti sostanze pericolose). L’assunto del ricorrente, pur astrattamente corretto nella parte in cui deduce che, ai fini della classificazione, occorre valutare distintamente tutti i materiali rinvenuti, non coglie in concreto nel segno, sia perché, come già detto, non è contestato che sul luogo furono rinvenute sostanze pericolose, sia perché gli stessi contenitori costituiscono imballaggi, aventi codice a specchio (15.01.10* imballaggi contenenti residui di sostanze pericolose o contaminati da tali sostanze) e son quindi da qualificare come pericolosi, essendo pacifico che contenessero sostanze pericolose.
L’inammissibilità del quarto motivo di ricorso discende, invece, dalla carenza dì interesse all’impugnazione essendo stato assolto il prevenuto dal reato di cui all’art. 181 D.Lgs. n. 42 de 2004, contestato al capo d) della rubrica – e non al capo c) come per mero errore riportato nella sentenza di primo grado – con la formula perché il fatto non sussiste. Sul punto l’odierno ricorrente non ha sviluppato alcun argomento a sostegno della doglianza e neppure ha sollecitato una diversa formula assolutoria, non potendo neppure fondatamente dubitarsi che il giudice di appello possa decidere nel merito integrando – se del caso – la motivazione della sentenza gravata (Sez. 3, n. 48975 del 19/6/2014, G.K., Rv. 261149, in fattispecie relativa a sentenza nulla per mancanza di motivazione). Né miglior sorte merita il motivo di ricorso formulato nella memoria dell’1/6/2016 con cui, richiamata la previsione normativa della nuova causa di non punibilità di cui ali’ art. 131-bis c. p. (art. 1, comma 2, D.Lgs. 16 marzo 2015 n. 28), il B. pone la questione della sua applicabilità nel giudizio di legittimità, atteso che il giudizio di merito si era già concluso al momento dell’entrata in vigore della nuova norma sostanziale.
Come autorevolmente osservano le Sezioni Unite, nella sentenza n. 13682/2016, “la valutazione sulla particolare tenuità del fatto richiede l’analisi e la considerazione della condotta, delle conseguenze del reato e dei grado della colpevolezza, quindi di ponderazioni che sono parte ineliminabile del giudizio di merito. Esse, in quanto tali, sono necessariamente (esplicitamente o implicitamente) espresse in motivazione. Conseguentemente l’apprezzamento dei giudice di legittimità, che riguarda non la valutazione di merito della ricorrenza delle condizioni di legge ma il giudizio di applicazione della legge (quindi l’accertamento se la fattispecie concreta è collocata entro il modello legale espresso dai nuovo istituto) è reso possibile attraverso quanto dalla motivazione il giudice dei merito risulta avere accertato e valutato in fatto. Pertanto, nei casi in cui la sentenza impugnata sia anteriore alla novella, l’applicazione dell’istituto nel giudizio di legittimità è possibile, anche d’ufficio ed pure nel caso di ricorso originariamente inammissibile, quando dalla motivazione della sentenza di merito risultino già apprezzati, espressamente o “in guisa implicita”, come esistenti tutti i presupposti di fatto che la norma sostanziale prevede”.
Nel caso in esame, né nella motivazione della sentenza di primo, né in quella della sentenza di secondo grado, si rinviene alcun apprezzamento a sostegno della particolare tenuità dei fatto e, del resto, anche se il reato permanente, caratterizzato dalla persistenza – ma non dalla reiterazione della condotta – non è riconducibile nell’alveo del comportamento abituale che preclude l’applicazione di cui ail’art. 131-bis c. p. (Sez. 3, n. 47039 del 8/10/2015, P.M. in proc. Derossi, Rv. 265448, in fattispecie relativa a reati edilizi e paesaggistici), non può sottovalutarsi che la condotta attribuita al prevenuto aveva determinato l’accumulo incontrollato di rifiuti pericolosi, nella stalla della Azienda Agricola, su di una superficie con estensione “di circa 50 metri cubi, per una lunghezza di 25 metri, una larghezza di quattro ed un’altezza di mezzo metro”, tutt’altro che minimale.
Passando all’esame del quinto motivo di ricorso, il B. censura, sotto il profilo motivazionale, la sentenza della Corte di Appello nella parte in cui ha confermato la condanna generica al risarcimento dei danni disposta dal giudice di primo grado in favore della Provincia di Milano, “trattandosi di fatto potenzialmente lesivo dei diritto correttamente vantato e azionato dalla Provincia, sotto il profilo della frustrazione dei propri fini istituzionali e della turbativa dei suo operato”.
La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito che la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per i reati ambientali spetta non soltanto al Ministero dell’Ambiente, ai sensi dei D.Igs. 152 del 2006, artt. 311, comma 1, ma anche all’Ente pubblico territoriale ed ai soggetti provati, precisando però che per costoro siffatta legittimazione deve ritenersi limitata ai casi in cui per effetto della condotta illecita essi abbiano subito un ordinario danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. (Sez. 3, n. 24677 del 9/7/2014, Busolin e altri, Rv. 264114, cfr. sentenza n. 126 del 2016 della Corte Costituzionale, che ha ribadito la configurabilità di un interesse differenziato in capo agli enti locali a seguito di un evento di inquinamento qualificabile come danno ambientale).
In altri termini, il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, in sé considerato come lesione dell’interesse pubblico alla integrità e salubrità dell’ambiente, è previsto e disciplinato soltanto dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 311, sicché il titolare della pretesa risarcitoria per tale tipo di danno è esclusivamente lo Stato, in persona del Ministro dell’ambiente; tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli Enti pubblici territoriali e le Regioni, possono invece agire, in forza dell’art. 2043 c. c., per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che abbiano dato prova di aver subito dalla medesima condotta lesiva dell’ambiente conseguente alla lesione di altri loro diritti particolari, diversi dall’interesse pubblico e generale alla tutela dell’ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale, così come possono agire per il risarcimento dei danno non patrimoniale avente tuttavia le medesime caratteristiche del precedente quanto alla estraneità al danno ambientale di natura pubblica (Sez. 3, n. 19439 dei 17/1/2012, Miottí, Rv. 252909). Orbene, nel procedere all’accertamento in punto di responsabilità risarcitoria il Giudice d’appello avrebbe dovuto verificare, sulla scorta delle allegazioni di parte e rispondendo alle puntuali censure contenute nell’atto di gravame, in cosa consistesse il lamentato pregiudizio potenziale all’attività istituzionale da detto soggetto pubblico svolta per la valorizzazione e la tutela dei territorio in conseguenza del fatto lesivo, sia pure nei limiti dell’apprezzamento che caratterizza una pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale (Sez. 3, n. 36350 del 23/372015, Bertini e altri, Rv. 265637). Tale accertamento è, invece, mancato atteso che la Corte territoriale si è trincerata dietro una formula stereotipata, ed affatto generica, con cui ha confermato la decisione di primo grado e per questa ragione la sentenza andrebbe annullata con rinvio ad altra sezione della medesima Corte, per un riesame della questione e l’adozione di un idoneo apparato motivazionale. Ma la prosecuzione del processo è incompatibile con l’obbligo di immediata declaratoria della causa estintiva del reato contestato all’imputato che, appunto, si è estinto per prescrizione in quanto il relativo termine massimo risulta irrimediabilmente maturato il 2/3/2015, computando anche il periodo di sospensione per rinvio dell’udienza dal 23/5/2013 al 27/6/2013 (art. 159 c.p.), non ricorrendo i presupposti legittimanti, a norma dell’art. 129, comma 2, c.p.p., la pronuncia di una sentenza assolutoria.
Si impone allora la declaratoria della causa estintiva e l’annullamento della sentenza impugnata anche quanto al capo contenente le statuizioni civili relative all’azione risarcitoria esercitata dalla Provincia di Milano nei confronti del B., con conseguente rinvio, ai sensi dell’art. 622 c.p.p., al giudice civile competente per valore in grado di appello.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione e rinvia al giudice civile competente per valore in grado di appello quanto alle statuizioni civili.
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