Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 4 dicembre 2015, n. 24755
Ritenuto in fatto
1. – M.S., M.L.B. e M.M. – nella qualità di eredi legittimane del comune padre Ma.Sc., il quale, con testamento olografo, aveva lasciato ai suoi figli maschi la proprietà di tutti i suoi beni mobili e immobili e alla moglie l’usufrutto generale sugli stessi – convennero in giudizio, innanzi al Tribunale di Vicenza, i loro fratelli M.C., M.I. e M.L. e la comune madre B.M.E., chiedendo la riduzione delle disposizioni testamentarie del cuius e la reintegrazione di esse attrici nella loro quota di riserva, con la condanna dei convenuti alla corresponsione della quota dei frutti ad esse spettanti.
Nella resistenza dei convenuti, l’adito Tribunale determinò il valore del compendio ereditario e il valore della quota spettante a ciascuna delle attrici riservatane con riferimento al momento dell’apertura della successione, dichiarò proporzionalmente ridotte le disposizioni testamentarie del de cuius e dichiarò inammissibile – in quanto tardivamente proposta in sede di precisazione delle conclusioni – la domanda di divisione dei beni ereditari.
2. – Con sentenza dell’11.6.2009, la Corte di Appello di Venezia rigettò l’appello principale proposto dalle attrici e gli appelli incidentali proposti dai convenuti M.C., M.I. e M.L. e confermò le predette statuizioni della pronuncia di primo grado.
3. – Per la cassazione della sentenza di appello ricorrono M.S., M.L.B. e M.M. sulla base di quattro motivi.
Resistono con controricorso M.C., M.I., anche nella qualità di eredi della comune madre B.M.E. , nel frattempo deceduta.
M.L. , intimato in proprio e quale erede di B.M.E., e M.F., intimata solo nella qualità di erede della B. , non hanno svolto attività difensiva.
Le ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
Considerato in diritto
1. – Col primo motivo di ricorso, si deduce l’omessa e insufficiente motivazione della sentenza impugnata, con riferimento alla quantificazione del valore globale dell’asse ereditario al momento dell’apertura della successione e al valore della quota di legittima spettante a ciascuna delle attrici sotto un duplice profilo: quello dell’avvenuta decurtazione del valore dei beni conseguente al rapporto di affitto gravante sugli stessi; e quello della mancata riduzione dell’usufrutto assegnato al coniuge superstite, nonostante che esso risultasse eccedente la quota disponibile.
In particolare, con riferimento al primo profilo, si deduce che i giudici di merito avrebbero errato a decurtare il valore stimato dei beni immobili costituenti l’asse ereditario nella misura del 25% per la ritenuta esistenza di un contratto di affitto dei detti beni (costituiti da fondi agricoli), stipulato tra la comune madre B.M.E. (quale concedente) e il convenuto M.L. (quale affittuario); ciò in quanto non vi sarebbe prova di tale contratto di affitto e il contratto di affitto prodotto solo in appello dai convenuti sarebbe ininfluente, perché stipulato solo nell’anno 1995, ben otto anni dopo l’apertura della successione. Con riferimento al secondo profilo, si lamenta la carenza assoluta di motivazione in ordine alle deduzioni contenute nell’atto di appello, con le quali si lamentava che le attrici, seppur reintegrate nella loro quota di riserva sulla nuda proprietà dei beni relitti, non erano state reintegrate nella loro quota di riserva spettante sull’usufrutto assegnato alla madre, che era eccedente la quota disponibile e che doveva, pertanto, essere ridotto.
Il primo profilo della censura non può trovare accoglimento.
Dalla relazione del C.T.U., richiamata dalla parte resistente, risulta che il contratto di affitto in favore di M.L. , del quale si è tenuto conto ai fini della stima del valore dell’asse ereditario, era stato stipulato in data 1.7.1981 tra il de cuius (quale concedente) e M.L. (quale affittuario). Pertanto, ai fini della determinazione del valore dell’asse ereditario, si è tenuto conto di tale contratto preesistente alla morte del de cuius, e non del successivo contratto menzionato da parte ricorrente; e ciò trova conferma nel fatto che, nella sentenza di primo grado, il Tribunale ha fatto riferimento ad un contratto di affitto esistente all’epoca dell’apertura della successione, evidentemente diverso da quello – stipulato tra B.M.E. e M.L. – prodotto nel successivo giudizio di appello; contratto quest’ultimo che, pertanto, non risulta essere stato posto a base delle conformi statuizioni sul punto dei giudici di primo e di secondo grado. Non è dubbio, invero, che la Corte di Appello, nel ribadire l’esistenza di un contratto di affitto, ha inteso fare riferimento al contratto accertato dal primo giudice e risultante dalla C.T.U., e non al successivo contratto prodotto nel giudizio di gravame.
Sotto tale profilo, peraltro, la censura non supera neppure il vaglio di ammissibilità per difetto di autosufficienza, nella misura in cui non sono state trascritte nel ricorso le risultanze istruttorie complete relative al contratto di affitto, cosicché non si consente alla Corte una più approfondita verifica del denunciato vizio di motivazione.
È fondato, invece, il secondo profilo della censura.
A fronte della precisa censura mossa con l’atto di appello, la Corte territoriale ha omesso del tutto di motivare circa le ragioni per le quali la riduzione, da disporsi a seguito dell’accertata lesione delle quote di legittima spettanti alle attrici, non ha investito, oltre alla nuda proprietà degli immobili, anche l’usufrutto assegnato alla comune madre, che risultava eccedente la quota disponibile (secondo le risultanze della C.T.U., riportate nel ricorso, il valore dell’usufrutto era pari ad lire 199.360.00, mentre il valore della disponile ammontava a lire 91.000.000).
Sul punto, pertanto, la sentenza impugnata va cassata, perché il giudice di rinvio esamini la censura de qua e decida di conseguenza.
2. – Gli altri motivi di ricorso possono essere esaminati unitariamente.
Col secondo motivo, si deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., con riferimento a tre profili: alla omessa reintegrazione delle quote di legittima in natura; alla omessa pronuncia sulla domanda accessoria per i frutti; e all’omesso ordine di trascrizione della richiesta sentenza attributiva della quota di titolarità sui beni relitti.
Col terzo motivo di ricorso, si lamenta poi il vizio di motivazione della sentenza impugnata con riferimento alla ritenuta mancata proposizione di domanda di attribuzione pro quota in natura – a titolo di legittima – della proprietà dei beni relitti; si deduce, in particolare, che la Corte territoriale erroneamente avrebbe negato alle attrici l’attribuzione di una quota di comproprietà dei beni relitti per il fatto che le stesse non avevano chiesto la divisione dei beni ereditari, una cosa essendo l’azione di reintegrazione della quota di legittima, altra cosa la domanda di divisione dell’eredità.
Col quarto motivo di ricorso, infine, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 537 – 542 – 554 – 558 – 561 – 734 – 735 cod. civ., ancora con riferimento al diniego della reintegrazione delle quote di legittima in natura. Si deduce che la Corte territoriale avrebbe errato nel negare alle legittimane la proprietà pro quota dei beni relitti sul presupposto che il testatore aveva espresso la volontà di attribuire tali beni ai soli figli maschi, così operando una divisione testamentaria dei suoi beni. Così opinando, la Corte di merito non avrebbe considerato che una siffatta divisione testamentaria – ove fosse ravvisabile – sarebbe nulla per il disposto dell’art. 735 cod. civ., per non avere il testatore compreso in essa le posizioni dei legittimari; né l’asse ereditario comprendeva somme di denaro in contante, che potevano essere attribuite alle legittimarie in luogo dei beni immobili relitti.
Le questioni sottoposte con le censure in esame vanno esaminate, nei paragrafi che seguono, secondo il seguente ordine logico:
a) omessa reintegrazione delle quote di legittima in natura, con attribuzione di quote di comproprietà dei beni relitti, in generale e sotto il profilo della mancata proposizione della domanda;
b) omessa reintegrazione delle quote di legittima in natura, con attribuzione di quote di comproprietà dei beni relitti, sotto il profilo della osservanza della volontà del de cuius quale manifestata col testamento;
c) omessa pronuncia sulla domanda relativa ai frutti;
d) omesso ordine di trascrizione della quota di proprietà dei beni ereditari spettanti alle attrici.
2.1. – Va innanzitutto esaminata la doglianza con la quale si lamenta che la Corte di Appello, nell’accogliere la domanda di reintegrazione delle quote di legittima, non abbia attribuito alle attrici tali quote in natura, riconoscendo loro una quota di comproprietà dei beni relitti. Secondo le ricorrenti, l’argomento contenuto nella motivazione della sentenza impugnata, secondo cui le attrici non avrebbero titolo per ottenere l’attribuzione delle loro quote in natura per il fatto di non avere chiesto la divisione dell’asse ereditario (tale domanda, in realtà, è stata ritenuta inammissibile per essere stata proposta tardivamente), sarebbe del tutto erroneo, perché l’azione di reintegrazione di legittima è autonoma rispetto alla domanda di divisione dell’eredità.
La censura è fondata.
Va premesso che, a tutela dell’interesse generale alla solidarietà familiare, l’ordinamento giuridico prevede – con disposizioni che hanno carattere inderogabile – che i più stretti congiunti del de cuius hanno il diritto di ottenere, anche contro la volontà del defunto e in contrasto con gli atti di disposizioni dallo stesso posti in essere, una quota di valore del patrimonio ereditario e dei beni donati in vita dal defunto stesso (c.d. diritto di legittima o di riserva). La legge configura così una “successione necessaria”, in forza della quale le disposizione del defunto lesive della “quota di legittima”, pur non essendo invalide (mille o annullabili), sono tuttavia soggette a riduzione, sono cioè suscettibili – su domanda del legittimario leso (c.d. azione di riduzione) – di essere private della loro efficacia giuridica nella misura necessaria e sufficiente a reintegrare il diritto del legittimario. In tal senso, l’azione di riduzione (art. 557 cod. civ.) si distingue dalle azioni dirette ad impugnare il testamento o le donazioni per vizi di volontà o di forma e si configura propriamente come un’azione a carattere costitutivo, con la quale il legittimario, leso nel suo diritto di legittima dalle disposizioni testamentarie o dagli atti di donazione posti in essere dal de cuius, può ottenere la pronuncia di inefficacia, nei suoi confronti, delle disposizioni del defunto lesive della sua quota di riserva.
Il legittimario, quando sia stato interamente pretermesso dal testatore, non ha la posizione di chiamato all’eredità; tuttavia, egli, a seguito dell’esercizio dell’azione di riduzione, acquista la qualità di erede, conseguendo perciò una quota dell’eredità, la cui misura muta – secondo le previsioni di legge – a seconda del numero dei legittimari e della vicinanza del loro legame familiare col defunto.
Dal carattere inderogabile delle disposizioni sulla successione c.d. necessaria deriva che l’azione di riduzione è irrinunciabile finché la successione non è ancora aperta, incorrendo una tale rinuncia nella violazione del divieto posto dagli artt. 458 e 557 cod. civ.; l’azione di riduzione è invece rinunciabile dal legittimario dopo l’apertura della successione.
La legge non riserva ai legittimari tutta l’eredità, ma riserva loro solo una quota o frazione di essa (c.d. quota non disponibile o di riserva), consentendo che la restante parte (c.d. quota disponibile) possa mantenere la destinazione voluta dal de cuius.
Come questa Corte suprema ha più volte chiarito, la quota disponibile da parte del de cuius e, specularmente, la quota di riserva spettante al legittimario vanno calcolate (art. 556 cod. civ.) procedendo, anzitutto, alla formazione della massa di tutti i beni che appartenevano al defunto al tempo della sua morte (c.d. relictum) e alla determinazione del loro valore con riferimento al momento dell’apertura della successione; indi detraendo dal relictum i debiti del defunto, da valutare con riferimento alla stessa data, in modo da ottenere il c.d. attivo netto; provvedendo successivamente alla c.d. riunione fittizia, ad una riunione cioè meramente contabile, tra attivo netto e i beni di cui sia stato disposto a titolo di donazione (c.d. donatum), dovendosi a tal fine stimare i beni immobili e mobili donati secondo il valore che avevano al tempo dell’apertura della successione (artt. 747 e 750 cod. civ.) e il denaro donato secondo il suo valore nominale (art. 751 cod. civ.); calcolando poi la quota disponibile e la quota indisponibile sulla massa risultante dalla somma tra il valore del relictum al netto ed il valore del donatum; imputando, infine, le liberalità fatte al legittimario (art. 564, comma 2, cod. civ.), con conseguente diminuzione, in concreto, della quota ad esso spettante (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 27352 del 23/12/2014, Rv. 633774; Sez. 2, Sentenza n. 12919 del 24/07/2012, Rv. 623475; Sez. 2, Sentenza n. 11873 del 01/12/1993, Rv. 484561).
Orbene, ciò premesso, va osservato che le attrici, con la domanda introduttiva, chiesero di essere reintegrate nelle quote di legittima loro spettanti.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v’è ragione di discostarsi, la reintegrazione della quota di legittima, conseguente l’esercizio dell’azione di riduzione, deve essere effettuata con beni in natura (salvi i casi eccezionalmente previsti dall’art. 560 secondo e terzo comma cod. proc. civ. per la riduzione dei legati e delle donazioni), senza che si possa procedere alla imputazione del valore dei beni, che è facoltà prevista per la sola collazione nel diverso ambito della divisione ereditaria (Sez. 2, Sentenza n. 4698 del 12/05/1999, Rv. 526231; analogamente, Sez. 2, Sentenza n. 10564 del 19/05/2005, Rv. 582480; Sez. 2, Sentenza n. 1079 del 16/04/1970, Rv. 346628).
Tale principio trova fondamento giuridico nella natura della legittima, che è una quota di eredità, cosicché la riduzione delle disposizioni testamentarie o delle donazioni poste in essere dal de cuius attribuisce al legittimario la qualità di erede. Il legittimario, pertanto, ha diritto di ricevere la sua quota di eredità in natura e non può essere obbligato a ricevere la reintegrazione della sua quota in denaro.
Peraltro, quando – come nel caso di specie – la riduzione riguarda le disposizioni a titolo universale con le quali sono stati nominati eredi testamentari, il legittimario interamente pretermesso acquista, con la riduzione, la qualità di erede pro quota, che lo rende partecipe della comunione ereditaria. La partecipazione alla comunione ereditaria da parte del legittimario è limitata alla quota astratta o frazione prevista dalla legge, in particolare dagli artt. 537 e segg. cod. civ. (la metà; un terzo; un quarto; etc.).
Pertanto, il giudice, nell’accogliere la domanda di riduzione, è tenuto a dichiarare quali siano i beni ereditari e quale sia la quota astratta di partecipazione alla proprietà degli stessi che spetta a ciascun legittimario, divenuto erede necessario.
Diversa e distinta dall’azione di riduzione è l’azione di divisione ereditaria.
E invero, mentre l’azione di riduzione tende, indipendentemente dalla divisione dell’asse ereditario, al soddisfacimento dei diritti dei legittimari nei limiti in cui tali diritti siano stati lesi dalle disposizioni testamentarie, l’azione di divisione tende allo scioglimento della comunione ereditaria già esistente.
L’esercizio dell’azione di divisione ereditaria ha, dunque, come condizione imprescindibile l’esistenza di una comunione tra gli aventi diritto alla eredità, la quale non sussiste necessariamente nella situazione tutelabile con l’azione di reintegrazione della quota di legittima. Tanto è vero che il legittimario pretermesso dal testatore, escluso – in quanto tale – dalla comunione ereditaria, non è legittimato a chiedere la divisione se non dopo avere sperimentato con successo l’azione di riduzione delle disposizioni lesive della sua quota di riserva ed essere così divenuto partecipe della comunione dei beni ereditari (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 35 del 05/01/1967, Rv. 325650).
Dall’autonomia e dalla diversità delle due azioni deriva che le stesse possono essere esercitate sia cumulativamente nello stesso processo sia separatamente l’una dall’altra; senza che, in ogni caso, la domanda di riduzione possa ritenersi implicitamente proposta con la domanda di divisione né che la domanda di divisione possa ritenersi implicitamente proposta con la domanda di riduzione (cfr., Sez. 2, Sentenza n. 20143 del 03/09/2013, Rv. 627603; Sez. 2, Sentenza n. 1408 del 23/01/2007, Rv. 595739; Sez. 2, Sentenza n. 866 del 12/02/1981, Rv. 411363; Sez. 2, Sentenza n. 3500 del 22/10/1975, Rv. 377675).
Ha errato pertanto la Corte territoriale nell’affermare (p. 15 della sentenza impugnata) che “le appellanti non hanno mai chiesto la divisione dell’asse ereditario, ma solo la quantificazione della quota loro spettante, per cui, in questa fase processuale, non hanno alcun diritto per chiedere l’attribuzione della loro quota in natura”; ha errato sotto due profili.
In primo luogo, perché le attrici, con la domanda introduttiva, avevano chiesto di essere reintegrate nelle quote di legittima loro spettanti e ciò era sufficiente per dichiararle eredi necessarie del de cuius e partecipi della comunione dei beni ereditari nei limiti delle quote per esse previste dalla legge.
In secondo luogo, perché, alla stregua della rilevata autonomia e diversità dell’azione di divisione ereditaria rispetto all’azione di riduzione, la mancata valida proposizione della domanda di divisione da parte delle attrici non poteva pregiudicare il loro diritto di conseguire in natura le loro quote di legittima, ma avrebbe dovuto avere il solo effetto di determinare il protrarsi della comunione ereditaria. In altre parole, la mancata proposizione della domanda di divisione dei beni ereditali non avrebbe potuto spiegare alcun effetto sulla domanda di riduzione e di reintegrazione delle quote di legittima spettanti alle attrici.
Ha errato, pertanto, la Corte di Appello di Venezia a riconoscere alle attrici solo un credito meramente pecuniario nei confronti dei convenuti; così come errò il Tribunale nel quantificare in una somma di denaro l’ammontare della quota spettante a ciascuna delle attrici riservatarie.
Se è vero infatti che la quantificazione in denaro del valore della quota di legittima spettante al riservatario serve strumentalmente – ai fini dell’accertamento della fondatezza dell’azione di riduzione – a valutare la sussistenza della lesione della quota di riserva e l’estensione della stessa, è pari menti vero che, ultimata tale valutazione, il giudice – nell’accogliere l’azione di riduzione – deve poi limitarsi a dichiarare quali siano i beni ereditari e quale sia la quota astratta di partecipazione alla proprietà degli stessi spettante a ciascun legittimario.
2.2. – Parimenti fondata è la censura di cui al quarto motivo di ricorso, con la quale si deduce l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel negare alle legittimarie la proprietà pro quota dei beni relitti sul presupposto che il testatore aveva espresso la volontà di attribuire tali beni ai soli figli maschi, così operando una divisione testamentaria dei suoi beni ai sensi dell’art. 734 cod. civ..
Secondo la Corte di Appello di Venezia, “essendo volontà del de cuius che i terreni rimanessero nell’esclusiva disponibilità dei tre figli maschi, è evidente come lo stesso avesse già operato la divisione dei suoi beni, liquidando in vita le figlie in denaro, onde a queste spetta il solo credito pecuniario nei confronti dell’eredità ex art. 734 c.c.” (p. 15 della sentenza impugnata).
Con ciò la Corte territoriale è incorsa nella denunciata violazione dell’art. 735 cod. civ., che prevede la nullità della divisione nella quale il testatore non abbia compreso le posizioni dei legittimari; né l’asse ereditario comprendeva, tra i diversi beni, somme di denaro in contante, che potevano essere attribuite alle legittimane in luogo dei beni immobili relitti.
Trattasi di una nullità che costituisce corollario del carattere inderogabile delle disposizioni in tema di reintegrazione della quota di legittima; essa può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse ed è rilevabile d’ufficio dal giudice (art. 1421 cod. civ.).
Sul punto, va ribadito il principio dettato da questa Corte secondo cui il principio di intangibilità della legittima comporta che i diritti del legittimario debbano essere soddisfatti con beni o denaro provenienti dall’asse ereditario, con la conseguenza che l’eventuale divisione operata dal testatore contenente la disposizione per la quale le ragioni ereditarie di un riservatario debbano essere soddisfatte dagli eredi tra cui è divisa l’eredità mediante corresponsione di somma di denaro non compresa nel relictum è affetta da nullità ex art. 735, primo comma, cod. civ. (Sez. 2, Sentenza n. 3694 del 12/03/2003, Rv. 561111; Sez. 2, Sentenza n. 16698 del 11/08/2015, Rv. 636171; Sez. 2, Sentenza n. 3599 del 23/03/1992, Rv. 476411).
Né la Corte territoriale avrebbe potuto riconoscere validità alla scrittura privata stipulata il 16.3.1975 tra il de cuius – ancora in vita – e le sue figlie (odierne attrici), con la quale queste ultime accettarono una somma di denaro “a tacitazione completa della futura eredità”: sia perché, ai sensi dell’art. 557 comma 2 cod. civ., l’azione di riduzione è irrinunciabile finché il donante è in vita; sia perché l’art. 458 cod. civ. (sotto la rubrica “Divieto di patti successori”) dichiara espressamente nullo ogni atto col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta o rinunzia ai medesimi.
In definitiva, è priva di ogni fondamento giuridico la ratio decidendi alternativa individuata dalla Corte territoriale per giustificare la mancata attribuzione alle attrici delle loro quote di legittima in natura; conseguentemente, la sentenza impugnata va cassata anche sotto il profilo della riconosciuta validità della divisione testamentaria disposta dal de cuius ai sensi dell’art. 734 cod. civ..
2.3. – Conseguente alla ritenuta fondatezza delle censure dianzi esaminate – e all’accoglimento del ricorso relativamente alle medesime – è l’assorbimento della censura di cui al secondo motivo di ricorso, con la quale si lamenta l’omessa pronuncia sulla domanda accessoria relativa ai frutti.
Il mancato riconoscimento dei frutti era coerente – nel percorso logico seguito dai giudici di merito – con la mancata attribuzione dei beni in natura alle attrici legittimane e col riconoscimento ad esse di un mero diritto di credito. Una volta però riconosciuto che alle attrici spetta l’attribuzione delle loro quote di legittima in natura, va riconosciuta loro anche la corresponsione dei frutti dei beni ereditari dal momento dell’apertura della successione e nella misura corrispondente alle quote astratte di eredità a ciascuna di esse spettanti su tali beni.
Sul punto, va ribadito il principio dettato da questa Corte, secondo cui al legittimario cui venga restituito un immobile per reintegrare la quota di legittima spetta, a norma dell’art. 561 cod. civ., anche il diritto ai frutti quali accessori del bene, in relazione al suo mancato godimento (Sez. 2, Sentenza n. 7478 del 05/06/2000, Rv. 537243).
2.4. – Parimenti assorbita nell’accoglimento delle censure esaminate nei paragrafi 2.1. e 2.2., è la doglianza di cui al secondo motivo di ricorso, con la quale si lamenta il mancato ordine di trascrizione delle quote di proprietà dei beni ereditari spettanti alle attrici.
Sul punto, è comunque il caso di osservare che, se al legittimario spetta l’attribuzione della sua quota di legittima in natura (in particolare, spetta – nel caso di pluralità di eredi – una quota della comproprietà dei beni ereditari), non è dubbio che il giudice di merito è tenuto a dichiarare quali siano i beni ereditari, a dichiarare la quota di proprietà sugli stessi che spetta al legittimario e a disporre la trascrizione di tale titolo di proprietà nei pubblici registri immobiliari.
Ha errato, pertanto, la Corte territoriale a ritenere che, in assenza di domanda di divisione, nulla vi è da trascrivere nei registri immobiliari (p. 17 della sentenza impugnata): una cosa è, invero, la domanda di divisione ereditaria, quale richiesta di scioglimento di una comunione esistente; altra cosa è l’azione di riduzione, quale istanza per la costituzione della comunione ereditaria – prima inesistente – tra legittimari ed eredi testamentari. E con la costituzione della comunione ereditaria tra eredi legittimari ed eredi testamentari, sorge la necessità di disporre la trascrizione, nei pubblici registri immobiliari, delle quote di comproprietà sui beni della comunione ereditaria indivisi spettanti ai singoli eredi.
In tal senso, dopo aver riconosciuto la partecipazione delle attrici alla comunione ereditaria, avrebbero dovuto provvedere i giudici di merito.
3. – In definitiva, il ricorso è fondato e va accolto per quanto di ragione, con conseguente cassazione della sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia, la quale si conformerà, ai sensi dell’art. 384 comma 2 cod. proc. civ., ai seguenti principi di diritto:
– “La reintegrazione della quota di legittima, conseguente l’esercizio dell’azione di riduzione, va effettuata con beni in natura, salvi i casi eccezionalmente previsti dall’art. 560 secondo e terzo comma cod. proc. civ. per la riduzione dei legati e delle donazioni”;
– “Quando la riduzione riguarda le disposizioni a titolo universale con le quali sono stati nominati eredi testamentari, il legittimario pretermesso, ottenendo la reintegrazione della quota di legittima, acquista la qualità di erede pro-quota, che lo rende partecipe della comunione ereditaria nella misura della frazione prevista dagli artt. 537 e segg. cod. civ. Ne deriva che il giudice, nell’accogliere la domanda di riduzione, deve dichiarare, non quale sia il valore economico della quota di eredità spettante al legittimario, ma quali siano i beni ereditari e quale sia la quota di partecipazione del legittimario alla proprietà degli stessi”;
– “La divisione disposta con testamento, nella quale il testatore non abbia contemplato le posizioni di alcuno dei legittimari è nulla, ai sensi dell’art. 735 cod. civ., e tale nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse ed è rilevabile d’ufficio dal giudice”;
– “Al legittimario che ottiene la reintegrazione della quota di riserva mediante l’attribuzione di beni in natura spetta la corresponsione, da parte dell’erede testamentario, dei frutti dei beni ereditari con decorrenza dal momento dell’apertura della successione e nella misura corrispondente alla quota astratta di eredità spettante al legittimario su tali beni”;
– “Nel reintegrare la quota di legittima in natura, mediante il riconoscimento della partecipazione del legittimario alla comunione ereditaria nei limiti della frazione prevista dalla legge, il giudice deve disporre la trascrizione, nei pubblici registri immobiliari, della quota di comproprietà sui beni ereditari, adeguatamente individuati, spettante al legittimario e – correlativamente – delle quote di comproprietà spettanti agli eredi testamentari”.
Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione accoglie il ricorso per quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia.
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