La massima
In materia di condominio di edifici, l’autonomia privata consente alle parti di stipulare convenzioni che pongano limitazioni, nell’interesse comune, ai diritti dei condomini, sia relativamente alle parti comuni, sia riguardo al contenuto del diritto dominicale sulle parti di loro esclusiva proprietà, senza che rilevi che l’esercizio del diritto individuale su di esse si rifletta o meno sulle strutture o sulle parti comuni. Ne discende che legittimamente le norme di un regolamento di condominio – aventi natura contrattuale, in quanto predisposte dall’unico originario proprietario dell’edificio ed accettate con i singoli atti di acquisto dai condomini ovvero adottate in sede assembleare con il consenso unanime di tutti i condomini – possono derogare od integrare la disciplina legale ed in particolare possono dare del concetto di decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall’art. 1120 cod. civ., estendendo il divieto di immutazione sino ad imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all’estetica, all’aspetto generale dell’edificio, quali esistenti nel momento della sua costruzione od in quello della manifestazione negoziale successiva
Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza del 24 gennaio 2013, n. 1748
Ritenuto in fatto
1. – An.Ma. , P.M. , M.G.A. e G.M. , proprietari pro indiviso dell’unità immobiliare ubicata nell’edificio sito in (…) , facente parte del più ampio complesso edilizio realizzato dalla Cooperativa “(…)” – assumendo che F.V. , proprietario di limitrofa costruzione con annesso giardino al n. 10 della stessa via …, aveva edificato parte di detto giardino in aderenza all’immobile di loro proprietà sino all’altezza del lastrico solare, con ciò alterando il decoro architettonico del complesso edilizio, in violazione dell’art. 1120 cod. civ., della normativa di cui al r.d. n. 1165 del 1938 e del regolamento condominiale, nonché costituendo una servitù di veduta sul lastrico solare con lesione della loro servitù di veduta sul giardino – convenivano lo stesso V. per sentirlo condannare alla demolizione di quanto realizzato.
Nel contradditorio delle parti, espletata consulenza tecnica d’ufficio, l’adito Tribunale di Bari accoglieva la domanda attorea, condannando il convenuto alla demolizione dell’edificazione, oltre alle spese di lite.
2. – Sul gravame interposto da F.V. , la Corte di appello di Bari, in accoglimento dell’impugnazione per quanto di ragione, condannava l’appellante ad apporre sulla costruzione dal medesimo realizzata, al confine con il lastrico solare degli appellati, una barriera in vetro non trasparente o altro materiale alta metri 1,80 tale da non consentire l’inspicere ed il prospicere in alienum, rigettando per il resto la domanda proposta dalla Ma. e dai M.
Per quanto ancora interessa in questa sede, la Corte territoriale riteneva applicabile nella fattispecie l’art. 1120, comma secondo, cod. civ., sostenendo che “una dannosa alterazione del decoro” architettonico “può derivare non solo da un intervento su un bene comune, ma anche su unità immobiliari di esclusiva appartenenza ad un condomino”. Ciò, secondo il giudice del gravame, assorbiva, “rendendone superfluo l’esame, il terzo motivo di appello con cui si denuncia che il tribunale avrebbe errato nel ritenere l’applicabilità dell’art. 208 r.d. 28/4/1938 n. 1165?, aggiungendo altresì che sussisteva, in ogni caso, una “norma regolamentare che vieta le alterazioni del decoro dell’intero complesso di cui fanno parte le proprietà singole delle parti in causa”, opponibile al V. in quanto sottoscrittore della “delibera di approvazione della disciplina regolamentare in questione”. La Corte distrettuale assumeva, quindi, che il decoro architettonico di un edificio non poteva essere valutato astrattamente “in base alla mera realizzazione progettuale del fabbricato senza alcuna considerazione della situazione reale, concretamente esistente al momento dell’intervento posto in essere dal singolo condomino”. Sicché, era da reputarsi erronea la premessa che fondava la sentenza impugnata – e prima ancora la c.t.u. espletata in primo grado – circa la “irrilevanza dei manufatti in precedenza realizzati da altri partecipanti alla cosa comune in ordine alla verificazione dell’esistenza o meno della denunciata lesione del decoro architettonico del complesso edilizio”, così da pervenire ad una “indagine a tal fine del tutto avulsa dalla realtà ed in netto contrasto con la medesima”. Ne conseguiva che, sulla scorta delle riproduzione fotografiche allegate alla c.t.u., era agevole rilevare che “il manufatto realizzato dal V. su parte del suo preesistente giardino, tenuto conto della condizione attuale del complesso edilizio del cui decoro si lamenta la lesione, si inserisce perfettamente nell’ambito del medesimo, non soltanto perché riproduce analoghe strutture …, ma anche e soprattutto perché presenta la stessa tipologia di immagine, di materiali, di finiture e di colorazioni dell’intero complesso, tanto da farne addirittura l’esatto pendant della proprietà Ma. e degli altri appellati”. Con ciò veniva esclusa la lesione del decoro architettonico dell’edificio, “a meno di voler ritenere che costituisca alterazione dannosa una qualsivoglia opera nuova anche se conforme alla situazione preesistente”.
Inoltre, la Corte distrettuale, nell’ordinare il posizionamento di una barriera alta metri 1,80 al fine di non consentire la veduta del V. sul lastrico solare degli appellati, escludeva – contrariamente a quanto reputato dal primo giudice – che questi ultimi fossero titolari di una servitù di affaccio sul giardino dell’appellante, non risultando la stessa negli atti di assegnazione degli alloggi, né potendo dirsi costituita per usucapione, tenuto conto del breve intervallo di tempo trascorso dall’immissione in possesso degli immobili.
3. – Per la cassazione di tale sentenza ricorrono Ma.An. , P.M. , G.A.M. e M.G. , affidando le sorti dell’impugnazione a due motivi di censura.
Resiste con controricorso F.V.
Considerato in diritto
1. – Con il primo mezzo è denunciata la violazione e falsa applicazione delle norme in tema di edilizia popolare ed economica e, segnatamente, dell’art. 208 del r.d. 28 aprile 1938, n. 1165, nonché mancanza, insufficienza e contraddittorietà della motivazione circa un punto decisivo della controversia e, segnatamente, sulla richiesta di demolizione conseguente alla violazione del citato art. 208.
I ricorrenti evidenziano che nell’atto introduttivo del giudizio avevano chiesto la demolizione del corpo di fabbrica realizzato dal V. per la violazione sia del regolamento del condominio, sia delle norme codicistiche in tema di tutela del decoro architettonico e sia dell’art. 208 del r.d. n. 1165 del 1938, il quale ultimo, in materia di diritti ed obblighi dei singoli proprietari di alloggi assegnati dalle cooperative edilizie, vietava ai condomini, in assenza di consenso della P.A., di mutare dimensioni e struttura delle recinzioni delle aree a giardino in proprietà, nonché di eseguire costruzioni dalle quali potesse derivare una diminuzione di luce o visuale per i proprietari contigui. Tutte dette ragioni erano riconosciute dalla sentenza di primo grado, che, in motivazione, nel condividere le risultanze della c.t.u., affermava che le modificazioni apportate dal convenuto V. rappresentavano “una significativa variazione della tipologia architettonica dell’immobile e della struttura urbanistica dell’intero insediamento residenziale, in contrasto con il regolamento condominiale e con il r.d. 28/04/38 n. 1165?. Inoltre, il Tribunale riconosceva la sussistenza di abusiva costituzione di servitù di veduta, nonché “la limitazione del diritto di affaccio degli attori sul preesistente giardino e la conseguente violazione della normativa di cui al citato r.d. n. 1165/38?.
Nel ricorso si soggiunge che l’appellante contestava l’applicabilità dell’art. 208 del r.d. n. 1165 del 1938 alle proprietà esclusive ed essi appellati contrastavano specificamente sul punto l’impugnazione, della quale chiedevano il rigetto. Ciò nonostante, la Corte territoriale ha riformato la sentenza di primo grado escludendo che la costruzione realizzata dal V. ledesse il decoro architettonico del complesso edilizio, in considerazione della condizione attuale in cui essa si inseriva, ma in tal modo pretermetteva del tutto che la demolizione era stata disposta dal Tribunale anche in base al predetto art. 208, pur ritenuto applicabile alla fattispecie.
Inoltre, la stessa Corte ha “liquidato l’accertata diminuzione di visuale” adducendo l’inesistenza di una servitù di veduta degli appellati sul giardino contiguo per non esser la stessa menzionata negli atti di assegnazione, né potendo risultare costituita per usucapione, stante l’insufficiente lasso temporale a tal fine trascorso dall’immissione negli immobili, ma senza tener conto che “il diritto alla luce ed alla visuale invocato dagli odierni ricorrenti” non atteneva ad una servitù di affaccio, ma trovava fonte nell’anzidetto art. 208 del r.d. n. 1165 del 1938, quale normativa complessivamente richiamata anche dagli stessi atti di assegnazione in proprietà. Peraltro, la diminuzione di luce e visuale, in violazione della citata disposizione, permarrebbe anche a fronte di quanto disposto dalla Corte di appello in ordine al posizionamento di una barriera alta metri 1,80.
1.1. – Il motivo non può trovare accoglimento.
Esso, infatti, non coglie la ratio decidendi, della sentenza impugnata, per cui il giudice di secondo grado ha ritenuto applicabile nella fattispecie l’art. 1120, comma secondo, cod. civ., ritenendo così “superfluo” l’esame in ordine alla applicabilità, o meno, dell’art. 208 del r.d. n. 1165 del 1938 (affermata invece dal giudice di prime cure), adducendo altresì la sussistenza di una norma regolamentare, opponibile al V. , di divieto delle alterazioni del decoro dell’edificio.
Con ciò la Corte territoriale ha escluso l’applicabilità del citato r.d. n. 1165 in quanto la ritenuta operatività della norma codicistica assorbiva ogni questione sulla postulata incidenza nella fattispecie di detto r.d., là dove, inoltre, il decoro architettonico dell’edificio era regolato anche da norma convenzionale.
Sicché, la censura dei ricorrenti si sarebbe dovuta indirizzare contro l’eventuale erroneità di tale statuizione e, al tempo stesso, avrebbe dovuto addurre che, in luogo della applicazione dell’art. 1120 cod. civ. fatta in sentenza, sussistevano le condizioni per l’applicazione dell’art. 208 del r.d. n. 1165 del 1938.
Ciò è invece assente nella doglianza in esame, la quale, così come confezionata, mostra di disconoscere il l’alternatività, e non già la coesistenza, del regime giuridico recato dalla normativa speciale di cui al citato r.d. con quello condominiale di cui alle norme del codice, fondandosi soltanto il primo sulla persistenza dello status di assegnatario (che viene meno con l’acquisto della proprietà, a seguito della stipula del mutuo individuale: tra le altre, Cass., 26 luglio 2006, n. 17031); donde, anche l’intrinseca ed irrisolta contraddittorietà del mezzo, che esprime non solo l’intenzione di censurare una supposta negata applicazione dell’art. 203 del r.d. n. 1165 del 1938 senza prima aggredire funditus la statuita rilevanza dell’art. 1120 cod. civ. e del regolamento condominiale, ma inoltre esibisce deduzioni volte ad evidenziare in capo ai ricorrenti un titolo proprietario (e non già di assegnatari) e ragioni fondate anche sulla regolamentazione del condominio dettata dal codice civile.
2. – Con il secondo mezzo è denunciata la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1138 cod. civ. in relazione agli art. 1362 e ss. cod. civ. e, in generale, delle norme di legge in tema di condominio e dei principi di interpretazione dei contratti, nonché mancanza, insufficienza e contraddittorietà della motivazione circa un punto decisivo della controversia e, segnatamente, “sulla richiesta di demolizione conseguente alla violazione delle norme contenute nel regolamento condominiale di tipo contrattuale della Cooperativa “…” s.r.l.”.
I ricorrenti rammentano di aver dedotto, in primo grado, la violazione delle norme del regolamento condominiale da parte del V. nell’erigere il contestato corpo di fabbrica e, segnatamente, dell’art. 5 di detto regolamento (che vietava le variazioni dell’”assetto architettonico ed edilizio urbanistico dell’intero complesso cosi come realizzato”), dell’art. 6 (che vietava la modifica dello “stato dei luoghi che possa alterare il decoro architettonico della propria unità abitativa e dell’intero complesso”) e dell’art. 7 (il quale stabiliva che opere e lavori da eseguirsi nelle singole unità abitative “non potranno in alcun modo pregiudicare l’assetto generale, la struttura architettonica e decorativa del comprensorio e di ciascun comparto”). Pure tali ragioni erano riconosciute dal Tribunale, il quale assumeva che la variazione delle parti visibili della proprietà esclusiva “non può che ripercuotersi ed alterare il ridetto assetto architettonico unitario con conseguente degrado del decoro dell’intero complesso in contrasto con il regolamento condominiale”. Anche sul punto impugnava il V. ed essi odierni ricorrenti contrastavano specificatamente il gravame.
Ciò malgrado, la Corte territoriale si sarebbe arrestata a considerare la lesione del decoro architettonico nella sua accezione delineata dal codice civile (ed escludendola in ragione della condizione attuale del complesso edilizio rispetto alla quale era intervenuta l’innovazione), senza tener conto del regolamento condominiale della cooperativa (pur ritenuto operante nei confronti del V. ) “che garantiva una tutela pattizia ben più intensa”, introducendo, in luogo del divieto di lesione del decoro architettonico, “quello ben più rigoroso di mutazione, oltre del decoro architettonico, espressamente previsto dall’art. 6 del regolamento, anche dell’assetto architettonico ed edilizio urbanistico dell’intero complesso così come realizzato (art. 5)” e “dell’assetto generale della struttura architettonica e decorativa del comprensorio e di ciascun comparto (art. 7)”, esprimendo.. concetti diversi da quelli del mero decoro dell’edificio, così come, del resto, rilevato dallo stesso c.t.u. in primo grado.
2.1. – Il motivo è fondato.
La Corte territoriale ha incentrato la propria decisione unicamente sulla portata applicativa della norma di cui all’art. 1120 cod. civ., richiamando in via del tutto generica l’esistenza di una normativa regolamentare (senza soffermarsi neppure sui relativi contenuti) di divieto di alterazione del decoro dell’intero complesso, senza spendere alcun argomento circa la rilevanza e l’operatività di essa.
Tale insufficienza motivazionale, a fronte del rilievo esclusivo invece attribuito alla disciplina legale, urta, peraltro, con il principio secondo cui “in materia di condominio di edifici, l’autonomia privata consente alle parti di stipulare convenzioni che pongano limitazioni, nell’interesse comune, ai diritti dei condomini, sia relativamente alle parti comuni, sia riguardo al contenuto del diritto dominicale sulle parti di loro esclusiva proprietà, senza che rilevi che l’esercizio del diritto individuale su di esse si rifletta o meno sulle strutture o sulle parti comuni. Ne discende che legittimamente le norme di un regolamento di condominio – aventi natura contrattuale, in quanto predisposte dall’unico originario proprietario dell’edificio ed accettate con i singoli atti di acquisto dai condomini ovvero adottate in sede assembleare con il consenso unanime di tutti i condomini – possono derogare od integrare la disciplina legale ed in particolare possono dare del concetto di decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall’art. 1120 cod. civ., estendendo il divieto di immutazione sino ad imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all’estetica, all’aspetto generale dell’edificio, quali esistenti nel momento della sua costruzione od in quello della manifestazione negoziale successiva” (Cass., 6 ottobre 1999, n. 11121; ma anche Cass., 29 aprile 2005, n. 8883; Cass., 14 dicembre 2007, n. 26468).
Ciò, dunque, imponendo al giudice del merito di esercitare appieno i suoi poteri di ermeneutica negoziale sulla regolamentazione convenzionale, ritualmente allegata, che si presenti rilevante nella fattispecie oggetto di cognizione.
3. – Va, dunque, respinto il primo motivo di ricorso ed accolto il secondo, con cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvio della causa ad altra sezione della Corte di appello di Bari, la quale si atterrà – nella delibazione della legittimità o meno della immutazione dell’edificio operata dal V. – ai principi riportati sub 2.1., dovendo altresì provvedere al regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso e rigetta il primo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Bari, che provvederà anche al regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.
Depositata in Cancelleria il 24.01.2013
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