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Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza del 24 gennaio .2013, n. 1693

Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Roma, D.T.A. , premesso di essere stato dipendente della I. S.p.A. dall’1/8/1988, passato alla T. Italia S.p.A. nell’agosto del 1994, esponeva di aver subito una dequalificazione professionale culminata in una totale cessazione delle mansioni, avvenuta nel novembre del 2002 e proseguita fino al maggio del 2003, seguita dall’assegnazione di compiti che lo avevano impegnato per circa 20 minuti al giorno, e ciò fino al marzo del 2004, e quindi da una nuova forzata totale inattività protrattasi fino al licenziamento per giusta causa intimatogli in data 12/8/2004 per mancato rispetto dell’orario di lavoro. Chiedeva, pertanto, la condanna della società datrice al risarcimento del danno da declassamento nonché la declaratoria di illegittimità del provvedimento espulsivo. Nel contraddittorio con la società convenuta, il Tribunale, espletata l’istruttoria, rigettava le domande relative al licenziamento ed accoglieva quelle risarcitorie limitatamente al danno alla professionalità, con conseguente condanna della T.Italia S.p.A. al pagamento della complessiva somma di Euro 26.353,84 oltre interessi legali fino al soddisfo. Avverso tale pronuncia il D.T. proponeva appello principale (eccependo l’insussistenza, nel caso di specie, di un normale orario di lavoro nonché della mancanza posta a base del licenziamento, l’applicabilità dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 cod. civ., l’avvenuta violazione del principio di immediatezza della contestazione e l’assenza di proporzionalità tra sanzione adottata ed infrazione contestata) e la T. Italia S.p.A. appello incidentale (eccependo l’attribuibilità a colpe del dipendente della lamentata inattività e deducendo la mancanza di deduzione e prova dei danni riconosciuti). La Corte di Appello di Roma riteneva fondato l’appello principale ed infondato quello incidentale. Quanto al primo, sostanzialmente condivideva le argomentazioni di parte appellante ritenendo: – giustificata l’eccezione di inadempimento proposta dal lavoratore; – contrastante con la regola della buona fede e correttezza il tempo trascorso fino alla contestazione; – non proporzionato il licenziamento alla luce delle specifiche disposizioni contrattuali comminanti la massima sanzione espulsiva; – non contestata la mancanza di precedenti disciplinari. Disponeva, pertanto, la reintegra del lavoratore e condannava la società al risarcimento del danno pari alle retribuzioni globali di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegra. Quanto all’appello incidentale, riteneva che la società non avesse negato (nella sua oggettività) l’integrale svuotamento di mansioni del D.T. e che fosse mancata la prova di ogni ascrivibilità dello stesso a comportamenti del dipendente, peraltro mai formalmente contestati; riteneva, altresì, che correttamente il Tribunale avesse fatto ricorso, nell’accertamento del danno, a specifici elementi forniti dal ricorrente riconoscendo degli stessi la valenza presuntiva.
Per la cassazione di tale sentenza la T.Italia S.p.A. propone ricorso affidato a sette motivi.
Resiste con controricorso l’intimato A.D.T. .
Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo la società ricorrente denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 1460 cod. civ. in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.”. Deduce che la Corte territoriale ha frainteso il senso dell’art. 1460 cod. civ. avendo utilizzato tale disposizione come surrogato, surrettizio ed indiretto, delle norme sulla correttezza e buona fede e non quale norma di autotutela che regola il rapporto di corrispettività tra due prestazioni. Deduce, altresì, che, quand’anche fosse ipotizzabile una violazione dell’art. 2103 cod. civ. essa non legittimerebbe comunque il richiamo all’art. 1460 cod. civ. dal momento che per il datore di lavoro esiste solo l’obbligo di retribuire il proprio dipendente, non anche quello di farlo lavorare, sussistendo solo un interesse in questo senso e che, a fronte dell’avvenuto regolare pagamento della retribuzione, il lavoratore non può rifiutarsi di svolgere la prestazione.
Il motivo non è fondato.
Intanto va osservato che, secondo il più recente orientamento di questa Corte, il rifiuto, da parte del lavoratore subordinato, di svolgere la prestazione lavorativa (ad esempio in caso di adibizione a mansioni inferiori) può essere legittimo e quindi non giustificare il licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive enunciato dall’art. 1460 cod. civ., sempre che il rifiuto sia proporzionato all’illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede (cfr. Cass. 26 giugno 1999 n. 6663; id. 1 marzo 2001 n. 2948; 7 novembre 2005 n. 21479; 8 giugno 2006 n. 13365; 27 aprile 2007 n. 10086; 12 febbraio 2008 n. 3304; 19 febbraio 2008 n. 4060).
Questa Corte ha, altresì, affermato (cfr. Cass. 3 luglio 2000 n. 8880; id. 16 maggio 2006 n. 11430) che il giudice, ove venga proposta dalla parte l’eccezione inadimplenti non est adimplendum, deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, per cui qualora rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l’eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte a norma dell’art. 1455 cod. civ., deve ritenersi che il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e quindi non sia giustificato ai sensi dell’art. 1460, comma 2, cod. civ..
Orbene, partendo dai suddetti principi ed adattando gli stessi alla situazione sottoposta al suo esame (in cui, invero, non si discuteva di rifiuto della prestazione bensì di non corretto adempimento di quest’ultima), la Corte di appello, lungi dall’utilizzare la disposizione di cui all’art. 1460 cod. civ. nei termini prospettati dalla ricorrente ed in particolare per ritenere che il D.T. , in applicazione del principio inadimplenti non est adimplendum, potesse considerarsi esonerato dall’obbligo del rispetto dell’orario di lavoro, ha solo fatto riferimento alla stessa quale criterio per operare una valutazione comparativa degli opposti adempimenti, avuto riguardo alla funzione economico-sociale del contratto, e, così, per soppesare, anche alla luce del ritenuto venir meno dell’interesse aziendale alle prestazioni del ricorrente (evincibile dall’avere la società permesso che il dipendente commettesse, per oltre due mesi, più infrazioni continuative dell’orario di lavoro, senza contestare da subito un comportamento già suscettibile di sanzione non espulsiva), la gravità dell’inadempimento nella prospettiva della riconducibilità dello stesso ad una giusta causa di licenziamento.
Del resto, poiché ogni umano agire è determinato, pur in limitata misura, dall’esterna situazione nella quale si svolge, ed in particolare dall’altrui comportamento (rispetto al quale possa eventualmente aver costituito reazione), corrisponde ad una necessità logica oltre che giuridica valutare la condotta del lavoratore nel quadro delle condizioni in cui si è svolta. Il che vale a dire che uno stato di forzata inattività imputabile al datore di lavoro, pur senza legittimare un rifiuto del lavoratore di adempiere alla propria prestazione, può tuttavia aver contribuito a determinare una situazione di inadempimento del lavoratore e, dunque, ben può essere preso in considerazione per inferirne un ridimensionamento della gravità dell’inadempimento stesso.
2. Con secondo motivo la società ricorrente denuncia: “Insufficienza della motivazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.”. Deduce che la Corte territoriale ha tratto da due circostanze (il totale demansionamento ed il mancato sanzionamento del lavoratore) una conseguenza (la perdita dell’interesse aziendale alla prestazione lavorativa) non univocamente imposta.

Il motivo è infondato.

Come è noto, il difetto di motivazione, nel senso di insufficienza della stessa, può riscontrarsi soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice e quale risulta dalla sentenza stessa emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero l’obiettiva deficienza, nel complesso di essa, del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, – come per le doglianze mosse nella specie dalla ricorrente – quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alte deduzioni della parte sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati; inoltre il vizio di motivazione sussiste unicamente quando le motivazioni del giudice non consentano di ripercorrere l’iter logico da questi seguito o esibiscano al loro interno non insanabile contrasto ovvero quando nel ragionamento sviluppato nella sentenza sia mancato l’esame di punti decisivi della controversia – irregolarità queste che la sentenza impugnata di certo non presenta -. Per poter, poi, considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi – come, nella specie, esaustivamente ha fatto la Corte di appello di Roma – le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse.
Si aggiunga che, se è pur vero che la totale inattività può dipendere da molti fattori, nel caso di specie la Corte di merito ha congruamente motivato in ordine alle ragioni per le quali della inattività del D.T. fosse responsabile esclusivamente il datore di lavoro. Egualmente in modo sufficientemente logico ha fatto derivare dalla inattività non contestata il disinteresse aziendale allo svolgimento della prestazione lavorativa.
3. Con il terzo motivo la società ricorrente denuncia: “Insufficienza della motivazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.”. Deduce che la Corte territoriale ha motivato in ordine alla violazione del principio di immediatezza postulando una conoscenza da parte di T., già dal maggio del 2004 del comportamento del D.T. ma tacendo su un elemento fondamentale per supportare tale ragionamento e cioè sul convincimento del dipendente che tale comportamento fosse accettato dalla società (vizio di non sequitur).
Il motivo è infondato per le stesse ragioni evidenziate con riguardo al punto che precede.
Quanto, poi, al rilievo di una lacunosa ed insufficiente motivazione con riguardo alla deposizione del teste F. , va osservato che la Corte territoriale non ha ricavato il proprio convincimento in ordine alla immediata percepibilità dei ritardi del D.T. solo sulla base di detta deposizione rilevandosi dalla motivaziona della sentenza impugnata che proprio dal contenuto della contestazione disciplinare si evinceva che “in diverse occasioni” (e “in particolare nei mesi di maggio, giugno e parzialmente luglio 2004?) i superiori del D.T. non erano stati in grado di rintracciarlo nel suo ufficio “durante il normale orario di lavoro”. Tale contenuto, invero, evidenziando già in modo indiscutibile che le mancanze in questione erano state rilevate, per così dire, in tempo reale, rendeva superflua ogni ulteriore conferma.
4. Con il quarto motivo la società ricorrente denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 300/1970 in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ..”. Deduce che la Corte territoriale, nel considerare violato il principio di immediatezza, non ha tenuto conto della diversità tra il trovare sporadicamente il lavoratore non presente sul posto di lavoro e la contezza, tabulati alla mano, dell’intera gamma di infrazioni che il lavoratore ha compiuto.

Il motivo è infondato.

Secondo il condiviso insegnamento della giurisprudenza di legittimità, in materia di licenziamento disciplinare la tempestività della reazione del datore di lavoro all’inadempimento del lavoratore rileva sotto due distinti profili: sotto un primo aspetto, quando si tratti di licenziamento per giusta causa, il tempo trascorso tra l’intimazione del licenziamento disciplinare e l’accertamento del fatto contestato al lavoratore può indicare l’assenza di un requisito della fattispecie prevista dall’art. 2119 cod. civ. (incompatibilità del fatto contestato con la prosecuzione del rapporto di lavoro), in quanto il ritardo nella contestazione può indicare la mancanza di interesse all’esercizio del diritto potestativo di licenziare; sotto un secondo profilo, la tempestività della contestazione permette al lavoratore un più preciso ricordo dei fatti e gli consente di predisporre una più efficace difesa in relazione agli addebiti contestati: con la conseguenza che la mancanza di una tempestiva contestazione può tradursi in una violazione delle garanzie procedimentali fissate dalla legge n. 300 del 1970, art. 7 (cfr. in termini Cass. 5 aprile 2003 n. 5396).
Orbene, nel caso di specie, la Corte territoriale ha correttamente ritenuto che il tempo trascorso fino alla contestazione fosse in contrasto con la regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro. In particolare, ha ritenuto che, trattandosi nella specie di più fatti tutti autonomamente suscettibili di sanzione disciplinare (e, dunque, non di comportamenti necessitanti di una valutazione unitaria in quanto convergenti a comporre un’unica condotta), ha considerato che la mancanza di una tempestiva contestazione delle singole infrazioni operasse quale fonte di una presunzione che si trattasse di un comportamento tollerato.
Trattasi, all’evidenza, di una ragione giustificativa della regola di immediatezza della contestazione coincidente con quella che connette l’onere di tempestività al principio di buona fede oggettiva e più specificamente al dovere di non vanificare la consolidata aspettativa, generata nel lavoratore, di rinuncia all’esercizio del potere disciplinare (cfr. ex plurimis Cass. 23 giugno 1999, n. 6408). Si tratta di una sorta di decadenza dal potere (nel sistema tedesco: Verwirkung), derivante dalla violazione del più generale divieto di venire contra factum proprium (si veda Cass. 10 novembre 1997 n. 11095 e più di recente Cass. 17 dicembre 2008 n. 29480).
Anche questa censura va, pertanto, disattesa.
5. Con il quinto motivo la società ricorrente denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 e 2119 cod. civ. e dell’art. 3 della legge n. 604/1966 in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.”. Deduce che il richiamo operato dalla Corte territoriale alla tipizzazione degli illeciti di cui alla normativa contrattuale è del tutto errato trovando i fatti contestati diretta fonte di valutazione nell’art. 2119 cod. civ..
Il motivo è infondato.
Intanto va osservato che la Corte territoriale ha utilizzato la normativa contrattuale solo al fine di esprimere il proprio giudizio di valore necessario per integrare una norma elastica quale è configurata la giusta causa del licenziamento di cui all’art. 2119 cod. civ. (cfr. Cass. 15 aprile 2005 n. 7838 secondo cui: “La giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Pertanto, l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare le clausole generali come quella dell’art. 2119 cod. civ., che, in tema di licenziamento per giusta causa, detta una tipica norma elastica, non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la fattispecie si colloca” ed in senso sostanzialmente conforme Cass. 12 agosto 2009 n. 18247; id. 13 dicembre 2010 n. 25144).
Orbene nella specie il giudice di merito ha attribuito concretezza a quella parte “mobile” della disposizione utilizzando, appunto, la normativa contrattuale quale parametro indicativo di comportamenti implicanti, per scelta delle parti stipulanti, una concreta lesione del vincolo fiduciario.
Non può allora dubitarsi della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la fattispecie si colloca.
6. Con il sesto motivo di ricorso la società censura la sentenza impugnata per: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 47 e 48 del CCNL telecomunicazioni del 2000?. Deduce che la Corte territoriale ha erroneamente posto a base del proprio convincimento la disposizione pattizia di cui all’art. 47 lett. b) del CCNL che prevede la sanzione conservativa per l’ipotesi della commissione di una sola infrazione, del tutto diversa da quella oggetto di contestazione in cui il ritardo dell’inizio del lavoro e l’anticipo della cessazione si sono verificati in ben 42 giorni.

Il motivo è infondato sia per le ragioni già evidenziate al punto che precede sia per il fatto che la norma pattizia invocata dalla ricorrente prevede una graduazione delle sanzioni (dall’ammonizione scritta, alla multa, alla sospensione).
7. Con il settimo motivo la società ricorrente denuncia: “Insufficienza della motivazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.”.
Il motivo è inammissibile in quanto si fa riferimento a censure di cui all’appello incidentale che, però, non vengono esplicitate in violazione del principio di autosufficienza del ricorso.

8. In conclusione il ricorso deve essere rigettato.
9. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, dovendo farsi applicazione dei nuovo sistema di liquidazione dei compensi agli avvocati di cui al D.M. 20 luglio 2012, n. 140. Al riguardo va precisato che l’art. 9 del Decreto legge 24 gennaio 2012 n. 1, convertito, con modificazioni, in legge 24 marzo 2012, n. 27, dispone: “1. Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico. 2. Ferma restando l’abrogazione di cui al comma 1, nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante, da adottare nel termine di centoventi giorni successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, (omissis) 3. Le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, fino alla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2 e, comunque, non oltre il centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”. Con Decreto 20 luglio 2012, n. 140, è stato, quindi, emanato il Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi del citato articolo 9. Il Regolamento trova applicazione in difetto di accordo tra le parti in ordine al compenso (art. 1 d.m. 140/2012 in riferimento all’art. 9, comma 4, d.l. n. 1/2012, conv. l. 24 marzo 2012 n. 27). L’art. 41 di tale Decreto n. 140/2012, aprendo il Capo VII relativo alla disciplina transitoria, stabilisce che le disposizioni regolamentari introdotte si applicano alle liquidazioni successive all’entrata in vigore del Decreto stesso, avvenuta il 23 agosto 2012.
Il riferimento testuale al momento della liquidazione contenuto nell’art. 41 citato (”le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore”) depone per la soluzione interpretativa che porta a ritenere applicabile la nuova disciplina anche ai casi in cui le attività difensive si siano svolte o siano comunque iniziate nella vigenza dell’abrogato sistema tariffario forense.
Nel nuovo sistema, che non prevede più la distinzione tra diritti e onorari, ma esige che la valutazione dell’opera del professionista avvenga per fasi processuali (artt. 4 e 11 ) e secondo parametri specifici (art. 11 e tabella A – Avvocati), l’apprezzamento dell’attività difensiva, alla stregua dei criteri di cui al secondo e terzo comma dell’art. 4, non è più correlato al momento in cui l’opera è prestata, ma al momento in cui questa viene valutata dal giudice.
Qualsiasi diversa soluzione interpretativa che consentisse l’applicazione del sistema tariffario alle liquidazioni successive all’entrata in vigore del d.m. in esame contrasterebbe non solo con la disposizione regolamentare di cui all’art. 41 citato, ma anche con il dettato normativo di cui al comma terzo dell’art. 9, d.l. n. 1/2012, conv. l. 24 marzo 2012 n. 27, che ha – con chiarezza – escluso l’ultrattività del sistema tariffario oltre la data di entrata in vigore del decreto ministeriale, avvenuta anteriormente alla scadenza del termine (di centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione) fissato per la transitoria applicazione del sistema tariffario abrogato.
Avuto riguardo allo scaglione di riferimento della causa; considerati i parametri generali indicati nel menzionato art. 4 del D.M. e non ravvisandosi elementi che giustifichino un discostamento dal valore medio di riferimento indicato per ciascuna delle tre fasi previste per il giudizio di cassazione (fase di studio, fase introduttiva e fase decisoria) nella allegata Tabella A i compensi sono liquidati nella misura omnicomprensiva di Euro 3.500,00, oltre Euro 40,00 per esborsi.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento, il favore della controparte, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 40,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 per compensi, oltre accessori di legge.

Depositata in Cancelleria il 24.01.2013

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