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Entro questa prospettiva il principio della presunzione di non colpevolezza svolge un fondamentale ruolo di riequilibrio dell’ordine processuale, poiche’, mentre il pubblico ministero e’ tenuto a provare i fatti costitutivi di un reato “al di la’ di ogni ragionevole dubbio”, per l’imputato e’ sufficiente insinuare il dubbio circa l’esistenza di elementi negativi a discarico o impeditivi ai fini dell’accertamento della sua responsabilita’.
Il sistema del processo penale non presenta affatto un’architettura simmetrica, rilevando in tale prospettiva le implicazioni sottese alle regole di applicazione del principio posto dall’articolo 27 Cost., comma 2, con il corrispondente quadro normativo ordinario delineato nell’articolo 530 c.p.p., comma 2 e articolo 533 c.p.p., comma 1.
Analoga impostazione e’ stata accolta nella direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, il cui termine di recepimento negli Stati membri e’ fissato alla data del 1 aprile 2018, poiche’ le fondamentali disposizioni di garanzia contenute negli articoli 2 e 3 ne riferiscono l’ambito di applicazione alle sole “persone fisiche che sono indagate o imputate in un procedimento penale”, non alle altre parti del processo. Gli Stati membri sono chiamati ad assicurare (articolo 6, par. 2) che ogni dubbio in merito alla colpevolezza sia valutato in favore dell’indagato o dell’imputato, “anche quando il giudice valuta se la persona in questione debba essere assolta”.
Considerazioni non dissimili investono il principio costituzionale del contraddittorio, che non rappresenta una “risorsa” dispensata alle parti allo stesso modo e con la stessa intensita’, come dimostra la formulazione dell’articolo 111 Cost., comma 5, che prevede il consenso dell’imputato, e non di altri, per la “perdita” di contraddittorio nei casi consentiti dalla legge, con cio’ lasciando intendere che la garanzia del contraddittorio nasce e si sviluppa come garanzia in favore dell’imputato.
Nel dichiarare, con la sentenza n. 26 del 2007, l’incostituzionalita’ della L. 20 febbraio 2006, n. 46, articolo 1, nella parte in cui, modificando l’articolo 593 c.p.p., escludeva che il pubblico ministero potesse appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’articolo 603 c.p.p., comma 2, se la nuova prova e’ decisiva, la Corte costituzionale, pur rilevando, nel caso di specie, la presenza di dissimmetrie radicali e irragionevoli, tanto da emettere una pronunciare di incostituzionalita’, ha ammesso la possibilita’, in linea teorica e generale, di una distribuzione asimmetrica delle facolta’ e dei poteri processuali delle parti (nel caso di specie, quella pubblica e quella privata), purche’ compatibili, entro limiti di complessiva ragionevolezza rispetto agli altri valori costituzionali in gioco, con il principio di parita’ delle parti e con l’ottica del giusto processo.
Anche sotto il profilo dei rapporti fra l’imputato e la parte civile la Corte costituzionale ha affermato il principio per cui “imputato e parte civile esprimono due entita’ soggettive fortemente diversificate, non solo sul piano del differente risalto degli interessi coinvolti, ma anche e soprattutto per l’impossibilita’ di configurare in capo ad essi un paradigma di par condicio valido come regola generale su cui conformare i relativi diritti e poteri processuali”, evidenziando come le rispettive posizioni processuali integrino “situazioni soggettive non omologabili” (Corte cost., sent. n. 217 del 2009; sent. n. 168 del 2006).
Asimmetrie e differenze di trattamento nella previsione di facolta’ e prerogative processuali sono dunque possibili, alla condizione di una loro ragionevole base di riferimento all’interno del sistema processuale, senza che cio’ mini le esigenze di funzionalita’ strettamente legate alla dimensione operativa del contraddittorio come strumento di attuazione del giusto processo.
6.1. Cio’ posto, non puo’ tuttavia negarsi che il ruolo della “vittima” del reato all’interno del processo penale ha progressivamente assunto una dimensione operativa ed una rilevanza prima sconosciute, specie per effetto delle indicazioni provenienti dalla legislazione Europea, quanto alla previsione di una serie di prerogative ed efficaci strumenti di tutela.
Deve al riguardo considerarsi, in particolare, la direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e sostituisce la precedente decisione-quadro 2001/220/GAI, con l’obiettivo di armonizzare le disposizioni normative degli Stati membri dell’Unione in relazione alle modalita’ di esercizio dei diritti delle vittime lungo tutto l’arco del procedimento penale.
Tale strumento normativo e’ stato recepito nel nostro ordinamento con il Decreto Legislativo 15 dicembre 2015, n. 212, la cui entrata in vigore ha rappresentato un passaggio fondamentale per una piu’ ampia considerazione della posizione della vittima nel procedimento penale, conferendole un ruolo di partecipazione attiva con poteri d’impulso e sollecitazione sempre piu’ incisivi, cui si correlano specifiche disposizioni relative alla previsione di diritti in tema di informazione e comunicazione, assistenza linguistica, accesso alla giustizia e peculiari esigenze di protezione in favore dei soggetti vulnerabili.
Dal quadro di garanzie delineato dal legislatore Europeo in favore della vittima non emergono, peraltro, disposizioni volte ad imporre agli Stati membri la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello nei casi in cui dalla rivalutazione dell’attendibilita’ delle sue dichiarazioni possa derivare una riforma in melius della sentenza.
L’articolo 10 della citata direttiva, nel rinviare alle specifiche modalita’ di attuazione previste dalle normative interne (par. 2), stabilisce che gli Stati membri “garantiscono che la vittima possa essere sentita nel corso del procedimento penale e possa fornire elementi di prova” (par. 1) poiche’, come sottolineato nel Considerando n. 34, “non si puo’ ottenere realmente giustizia se le vittime non riescono a spiegare adeguatamente le circostanze del reato e a fornire prove in modo comprensibile alle autorita’ competenti”.
Il legislatore Europeo non impone agli Stati membri un obbligo generico di escussione della vittima operante anche in difetto di una specifica istanza, ma introduce, piuttosto, l’obbligo di assicurare che la stessa sia ascoltata ove ne faccia richiesta, affidando alla discrezionalita’ delle autorita’ giudiziarie nazionali la valutazione circa la necessita’ di procedere ad una nuova audizione. Nel nostro ordinamento soccorre al riguardo la disposizione di cui all’articolo 603 c.p.p., comma 3, che consente al giudice d’appello di attivare i poteri officiosi disponendo una nuova audizione, ove lo ritenga “assolutamente necessario” in relazione al caso concreto.
Nella medesima direzione di tutela s’inscrivono anche altri strumenti di recente introdotti dal legislatore al fine di recepire le indicazioni dettate da numerose fonti normative Eurounitarie o internazionali di protezione delle vittime di reato, come ad es.: a) il Decreto Legislativo 4 marzo 2014, n. 24 (attuativo della direttiva 2011/36/UE, relativa alla prevenzione e alla repressione della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime, che sostituisce la decisione-quadro 2002/629/GAI); b) il Decreto Legislativo 11 febbraio 2015, n. 9 (attuativo della direttiva 2011/99/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011 sull’ordine di protezione Europeo); c) la L. 1 ottobre 2012, n. 172, di ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa del 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale (Convenzione di Lanzarote); d) la L. 27 giugno 2013, n. 77, di ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, firmata ad Istanbul l’11 maggio 2011.
6.2. L’evoluzione impressa al nostro sistema dagli strumenti legislativi di attuazione delle direttive Europee e delle convenzioni internazionali sul ruolo e sulle facolta’ processuali della persona offesa, cui viene riservato un sempre maggiore spazio partecipativo nell’articolazione e nello sviluppo delle sequenze processuali, non si traduce nella previsione di alcun obbligo normativo di rinnovazione della escussione del dichiarante, ma sospinge l’interprete verso una maggiore e piu’ attenta considerazione delle esigenze di tutela e degli interessi di cui si fanno portatrici le persone offese all’interno del processo penale.
Ne’ puo’ trarsi, dall’analisi di tale quadro normativo, alcuna indicazione circa l’imposizione di una pretesa simmetria di ruoli fra la vittima e l’imputato, ma, semmai, l’esigenza di affidare alla saggia ponderazione del giudice la decisione di rinnovarne, se del caso, la deposizione nelle ipotesi di c.d. reformatio in melius (valutando in tal senso, senza alcun automatismo probatorio, tutte le circostanze rilevanti nel caso concreto: dalla decisivita’ della fonte di prova al tasso di vulnerabilita’ del soggetto debole, sino al contesto di riferimento ed alla vicinanza o meno della sua audizione rispetto al precedente apporto dichiarativo).
Il nuovo “volto processuale” della vittima, dunque, non stravolge le linee portanti del sistema e non mette in discussione la funzionalita’ primaria, tradizionale, delle garanzie del processo penale quale insieme di regole orientate, anzitutto, a rendere equo il giudizio nei confronti della persona imputata o accusata che vi e’ sottoposta.
Cio’ consente di spiegare sotto molteplici aspetti la presenza, nel complesso sistema di garanzie previste nel processo penale, di differenti livelli e forme di tutela nei confronti dell’imputato e della vittima, giustificando anche l’individuazione di una peculiare esigenza di immediatezza nella raccolta della prova dichiarativa collegata solo all’esito di condanna che per la prima volta si prospetti nel giudizio di secondo grado, e non invece con riferimento all’esito decisorio inverso.
7. Devono essere esaminati ora i contenuti e gli effetti della modifica normativa operata dalla L. 23 giugno 2017, n. 103 (c.d. “riforma Orlando”) sul testo dell’articolo 603 c.p.p., in modo da verificarne i riflessi e le possibili interferenze sulla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nell’ipotesi di reformatio in melius.
7.1. La citata Legge, articolo 1, comma 58, ha inserito nell’articolo 603, un nuovo comma 3-bis, che cosi’ recita: “Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”.
Il legislatore si e’ mosso in una prospettiva di sostanziale continuita’ rispetto al quadro di principi stabiliti dalle Sezioni Unite di questa Corte con le citate sentenze Dasgupta e Patalano, limitando l’obbligo di rinnovazione alla sola ipotesi dell’appello proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento, senza imporla quando l’epilogo decisorio oggetto del giudizio di appello sia invece una decisione di condanna.
Il testo normativo cosi’ interpolato dal legislatore non offre alcuno spazio lessicale per sostenere la tesi prospettata dalla Seconda Sezione con la sentenza Marchetta, avendo il legislatore chiaramente mutuato nel corpo della novellata disposizione di cui all’articolo 603 c.p.p. quel nesso logico-funzionale che le Sezioni Unite hanno gia’ individuato fra l’esito liberatorio di primo grado e la possibile condanna in appello.
Ne discende che la rinnovazione funzionale al proscioglimento va posta in relazione con i meccanismi di funzionamento propri delle ordinarie regole di ammissione della prova indicate dall’articolo 603 c.p.p., commi 1 e 3. Evenienze procedimentali, queste, che si traducono nella previsione di poteri, non gia’ di doveri, di rinnovazione in capo al giudice d’appello, valorizzando il metodo dell’oralita’ nelle specifiche ipotesi della non decidibilita’ allo stato degli atti (comma 1), ovvero della assoluta necessita’ di provvedere ex officio all’integrazione del quadro probatorio (comma 3).
Anche a seguito delle modifiche operate dal legislatore, dunque, una lettura combinata dell’intero catalogo di situazioni enucleate nell’articolo 603 non osta ad una eventuale, diretta rivalutazione del contenuto delle prove dichiarative sulle quali si basa una sentenza di condanna, qualora il giudice dell’impugnazione in tal senso si orienti alla luce degli indicati parametri normativi.
Per le medesime ragioni il giudice non e’ affatto obbligato, nell’ipotesi qui considerata, a rinnovare l’istruzione dibattimentale, ma puo’ riformare in senso assolutorio la decisione impugnata senza procedere ad una nuova assunzione delle dichiarazioni ritenute decisive ai fini del giudizio di condanna concluso in primo grado, purche’ dia in motivazione una puntuale e adeguata giustificazione delle difformi conclusioni cui e’ pervenuto.
Nel delimitare la portata dell’obbligo di rinnovazione alla sola ipotesi di ribaltamento conseguente all’applicazione della regola contenuta nel nuovo comma 3-bis, il legislatore ha inteso attribuire al libero convincimento del giudice di appello la possibilita’ di esercitare poteri discrezionali di rinnovazione nella situazione inversa, differenziandone i contenuti e graduandone, al contempo, l’intensita’ con riferimento alle diverse evenienze disciplinate nei primi tre commi dell’articolo 603 c.p.p..
E’ evidente che una diversa soluzione, imponendo praeter legem la regola della rinnovazione istruttoria anche ai fini del proscioglimento, trasformerebbe inevitabilmente l’appello in una innaturale replica del giudizio di primo grado.
E’ la legge, infatti, a stabilire “i casi in cui le prove sono ammesse di ufficio” (articolo 190 c.p.p., comma 2), spettando al legislatore sia la tassativa indicazione delle ipotesi in cui il giudice puo’ ammettere ex officio i mezzi di prova, sia la disciplina dei relativi presupposti, con il logico corollario del divieto di estensione analogica dell’ambito di applicazione di un potere officioso al cui effettivo esercizio il vigente sistema processuale attribuisce un carattere solo residuale.
7.2. Sotto altro, ma connesso profilo, la richiesta di riforma della sentenza di proscioglimento avanzata dalla parte pubblica per ottenere la condanna dell’imputato fa scattare l’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa determinando un effetto espansivo del principio di immediatezza nel giudizio di appello, senza che alcuna distinzione al riguardo possa evincersi dal testo normativo a seconda che l’atto di impugnazione si innesti su un giudizio ordinario o abbreviato.
La formulazione del nuovo articolo 603, comma 3 bis va inquadrata all’interno di un piu’ ampio contesto normativo che, non solo, impone al soggetto impugnante una specifica delineazione dei temi oggetto del contraddittorio, ma, al contempo, mira ad un sensibile rafforzamento del controllo sulla specificita’ dei motivi di appello e, prima ancora, della stessa sostanza argomentativa della decisione di primo grado.
Ne discende che, anche in caso di appello avverso la sentenza di proscioglimento, il pubblico ministero e’ tenuto a rispettare i requisiti di specificita’ richiesti dall’articolo 581, criticando gli errori commessi dal giudice di primo grado nella valutazione della prova dichiarativa e motivando in modo adeguato le proprie richieste, anche istruttorie, al secondo giudice.
Il nuovo quadro normativo risultante dai numerosi innesti operati per effetto della L. n. 103 del 2017 non impone affatto di ritenere che il giudice di appello sia obbligato a disporre una rinnovazione generale ed incondizionata dell’attivita’ istruttoria svolta in primo grado, ben potendo quest’ultima essere concentrata solo sulla fonte la cui dichiarazione sia oggetto di una specifica censura da parte del pubblico ministero attraverso la richiesta di una nuova valutazione da parte del giudice di appello, operando poi, nel caso in cui a seguito di tale rinnovazione dovesse apparire “assolutamente necessario” lo svolgimento di ulteriore attivita’ istruttoria, la disciplina ordinaria prevista dall’articolo 603 c.p.p., comma 3.
L’espressione utilizzata dal legislatore nella nuova disposizione dàcui al comma 3-bis, secondo cui il giudice deve procedere, nell’ipotesi considerata, alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, non equivale infatti alla introduzione di un obbligo di rinnovazione integrale dell’attivita’ istruttoria – che risulterebbe palesemente in contrasto con l’esigenza di evitare un’automatica ed irragionevole dilatazione dei tempi processuali -, ma semplicemente alla previsione di una nuova, mirata, assunzione di prove dichiarative ritenute dal giudice d’appello “decisive” ai fini dell’accertamento della responsabilita’, secondo i presupposti gia’ indicati da questa Corte nella sentenza Dasgupta.
Coordinando la locuzione impiegata dal legislatore nel comma 3-bis (“il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”) con quelle – del tutto identiche sul piano lessicale – gia’ utilizzate nei primi tre commi della medesima disposizione normativa, deve pertanto ritenersi che il giudice d’appello sia obbligato ad assumere nuovamente non tutte le prove dichiarative, ma solo quelle che – secondo le ragioni puntualmente e specificamente prospettate nell’atto di impugnazione del pubblico ministero – siano state oggetto di erronea valutazione da parte del giudice di primo grado e vengano considerate decisive ai fini dello scioglimento dell’alternativa “proscioglimento-condanna”.
7.3. L’interpolazione operata dal legislatore sul testo normativo dell’articolo 603 c.p.p. non contempla eccezioni di sorta, ma consente l’applicabilita’ della regola posta dal nuovo comma 3-bis ad ogni tipo di giudizio, ivi compresi i procedimenti svoltisi in primo grado con il rito abbreviato.
La richiesta formulata dall’imputato ai sensi dell’articolo 438 c.p.p., comma 1, introduce un giudizio solo tendenzialmente impostato a prova “contratta” (ex articolo 438 c.p.p., comma 5, articolo 441 c.p.p., comma 5 e articolo 441-bis c.p.p., comma 5), il cui svolgimento non preclude l’esercizio dei poteri officiosi assegnati al giudice d’appello dall’articolo 603 c.p.p., comma 3 (Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, dep. 1996, Clarke, Rv. 203427) ed il cui scopo, nel caso venga pronunciata una sentenza di condanna che abbia ribaltato una sentenza assolutoria, rimane sempre e comunque quello del superamento di ogni ragionevole dubbio nella prospettiva dell’avvenuta costituzionalizzazione del principio del giusto processo (Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, cit., in motivazione).
Non si spiegherebbe altrimenti, in sede di rito abbreviato, il richiamo formalmente operato dall’articolo 442 c.p.p., comma 1, all’articolo 529 c.p.p. ss., e dunque alla regola di giudizio posta dall’articolo 533 c.p.p., comma 1.
La decisione assolutoria del primo giudice e’ sempre tale da ingenerare la presenza di un dubbio sul reale fondamento dell’accusa.
Dubbio che puo’ ragionevolmente essere superato solo attraverso una concreta variazione della base cognitiva utilizzata dal giudice d’appello, unitamente ad una corrispondente “forza persuasiva superiore” della relativa motivazione, quando il meccanismo della rinnovazione debba essere attivato in relazione ad una prova dichiarativa ritenuta decisiva nella prospettiva dell’alternativa decisoria sopra indicata.
Il legislatore ha operato in tal modo un ragionevole bilanciamento fra le esigenze, parimenti meritevoli di tutela, connesse all’esercizio del generale potere dispositivo delle parti in materia probatoria, con la conseguente rinuncia alla formazione della prova nel contraddittorio (articolo 111 Cost., comma 5), e quelle correlate al rischio di una condanna ingiusta nel giudizio di appello, sotto il profilo della violazione dei canoni epistemologici di accertamento della verita’ a seguito di una sentenza di assoluzione che ha reso concreta, e per certi versi stabilizzato, la presunzione di innocenza dell’imputato (articolo 27 Cost., comma 2), innalzandone la soglia all’esito del giudizio di primo grado.
La rinuncia al contraddittorio, d’altronde, non puo’ riflettersi negativamente sulla giustezza della decisione, ne’ puo’ incidere sulla prioritaria funzione cognitiva del processo, il cui eventuale esito di condanna esige, sia nel giudizio ordinario che in quello abbreviato, la prova della responsabilita’ oltre ogni ragionevole dubbio, poiche’ oggetto del consenso dell’imputato ai sensi dell’articolo 111 Cost., comma 5 e’ la rinuncia ad un metodo di accertamento, il contraddittorio nella formazione della prova, non all’accertamento della responsabilita’ nel rispetto del canone epistemologico attraverso cui si invera il principio stabilito dall’articolo 27 Cost., comma 2.
Nella elaborazione giurisprudenziale della Corte Europea dei diritti dell’uomo si e’ posto in evidenza che la procedura semplificata introdotta dal rito abbreviato comporta un’attenuazione delle garanzie procedurali offerte dal diritto interno, in particolare per quanto riguarda la pubblicita’ del dibattimento e la possibilita’ di chiedere l’acquisizione di elementi di prova non contenuti nel fascicolo del pubblico ministero (Corte EDU, 30/11/2000, Kwiatkowska c. Italia; G.C., 18/10/2006, Hermi c. Italia; 10/04/2007, Panarisi c. Italia; 06/11/2007, Hany c. Italia; 28/10/2013, Greco c. Italia), ma anche che tale rinuncia alle garanzie di un processo equo, per essere conforme ai principi stabiliti dall’articolo 6 della Convenzione, “non deve essere in contrasto con alcun interesse pubblico importante” (Corte EDU, 21/02/1990, Hakansson e Sturesson c. Svezia; 18/10/2006, Hermi, cit.; 26/09/2017, Fornataro c. Italia).
Linea interpretativa, questa, le cui conclusioni presuppongono una delicata comparazione fra opposte esigenze di tutela, secondo un’operazione di ragionevole bilanciamento di interessi parimenti dotati di rilievo costituzionale, che nell’ordinamento processuale interno e’ stata positivizzata dal legislatore nei termini indicati.
Nella medesima prospettiva seguita dalla Corte Europea, d’altronde, si colloca il percorso giurisprudenziale tracciato dalla Corte costituzionale e dalla Corte di cassazione, che hanno da tempo individuato tale punto di equilibrio nella necessita’ di contemperare il potere dispositivo delle parti in materia probatoria con un quadro di poteri integrativi ad iniziativa officiosa del giudice, in quanto “coessenziale all’esigenza della ricerca della verita’ che, affermata esplicitamente dalla direttiva n. 73 della Legge Delega, rappresenta un “fine primario ed ineludibile del processo penale” e comporta, come corollario di necessaria consequenzialita’ logica, l’attribuzione al giudice di poteri di iniziativa probatoria in modo da supplire all’eventuale inerzia delle parti e da rendere possibile l’accertamento dei fatti inclusi nel tema della decisione” (Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, dep. 1996, Clarke, cit., in motivazione).
8. In conclusione, la questione controversa va risolta enunciando il seguente principio di diritto:
“Nell’ipotesi di riforma in senso assolutorio di una sentenza di condanna, il giudice di appello non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini della condanna di primo grado. Tuttavia, il giudice di appello (previa, ove occorra, rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva ai sensi dell’articolo 603 c.p.p.) e’ tenuto ad offrire una motivazione puntuale e adeguata della sentenza assolutoria, dando una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata rispetto a quella del giudice di primo grado”.
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