Nell’ipotesi di riforma in senso assolutorio di una sentenza di condanna, il giudice di appello non ha l’obbligo di rinnovare I’istruzione dibattimentale mediante riesame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini della condanna di primo grado.

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La garanzia della rinnovazione istruttoria, al contempo, interviene per controbilanciare il rischio di una prima condanna in appello, qualunque sia la natura, ordinaria o a cognizione “contratta”, del procedimento penale.
Movendo da tali postulati ermeneutici le Sezioni Unite hanno specificamente affrontato, in un passaggio della sentenza Dasgupta, la questione qui esaminata, affermando che l’obbligo di rinnovazione istruttoria della prova dichiarativa decisiva non sussiste nel caso di riforma in senso assolutorio della sentenza di condanna di primo grado.
Proprio in quanto non viene in rilievo il principio del “ragionevole dubbio”, la Corte ha ritenuto di non poter condividere l’orientamento (Sez. 2, n. 32619 del 24/04/2014, Pipino, Rv. 260071; Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Fu, Rv. 261327; Sez. 2, n. 36434 del 21/07/2015, Migliore s.p.a.; Sez. 5, n. 36208 del 13/02/2015, Nascimbene; Sez. 5, n. 42389 del 11/05/2015, De Ligio, queste ultime non massimate), secondo cui, anche in caso di riforma della sentenza di condanna in senso assolutorio, il giudice di appello, al di la’ di un dovere di “motivazione rafforzata”, deve previamente procedere ad una rinnovazione della prova dichiarativa.
3. Da tale esito interpretativo delle Sezioni Unite ha inteso discostarsi una successiva pronuncia della Seconda Sezione, che ha ritenuto sussistente l’obbligo di riassumere la prova orale nel dibattimento d’appello, con riferimento alle dichiarazioni rese dalla persona offesa, anche nel caso in cui si intenda ribaltare l’esito di condanna del giudizio di primo grado ed assolvere l’imputato che ha proposto impugnazione (Sez. 2, n. 41571 del 20/6/2017, Marchetta, Rv. 270750).
Movendo dalla elaborazione giurisprudenziale della Corte EDU e da talune affermazioni delle Sezioni Unite nella sentenza Dasgupta, secondo cui “la percezione diretta e’ il presupposto tendenzialmente indefettibile di una valutazione logica, razionale e completa”, la sentenza Marchetta estende il metodo orale nell’apprezzamento della prova dichiarativa ad ogni ipotesi di overturning decisorio nel giudizio di appello.
Entro tale prospettiva si attribuisce un ruolo centrale al principio di immediatezza, ritenendosi iniqua una decisione di riforma assunta in appello senza che il giudice abbia avuto diretta percezione dei contributi cognitivi forniti dalle fonti orali. Cio’, a maggior ragione, a fronte della presenza di una parte civile costituita in giudizio, “rispetto alla quale si assiste ad una sempre maggior tutela nell’ambito delle decisioni della Corte Europea”, richiamandosi le recenti innovazioni legislative che hanno definito la centralita’ del ruolo della persona offesa nel processo penale (v. il Decreto Legislativo n. 212 del 2015 che ha attuato la direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012).
Tale principio viene dunque ad assorbire, unitamente a quello della motivazione rafforzata, il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio, perche’ qualunque “overturning che sia basato su compendi probatori “deprivati” rispetto a quelli utilizzati dal primo giudice” sarebbe censurabile, indipendentemente dagli esiti decisori dell’appello.
La sentenza Marchetta conclude il percorso argomentativo enunciando il principio di diritto secondo cui “l’articolo 603 c.p.p., comma 3, in applicazione dell’articolo 6 CEDU, deve essere interpretato nel senso che il giudice di appello per pronunciare sentenza di assoluzione in riforma della condanna del primo giudice deve previamente rinnovare la prova testimoniale della persona offesa, allorche’, costituendo prova decisiva, intenda valutarne diversamente la attendibilita’, a meno che tale prova risulti travisata per omissione, invenzione o falsificazione”.
4. Le conclusioni della Seconda Sezione penale non possono essere condivise.
Sulla questione controversa le Sezioni Unite Dasgupta si sono gia’ pronunciate escludendo con chiarezza la sussistenza dell’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa decisiva nell’ipotesi del ribaltamento in appello di una decisione di condanna e della conseguente riforma in senso assolutorio.
A sostegno di tale approdo esegetico la Corte, da un lato, ha valorizzato l’apporto informativo derivante dalla oralita’ e dal contraddittorio come condizioni essenziali della correttezza e completezza del ragionamento probatorio, dall’altro lato lo ha posto in stretta relazione con il piu’ intenso onere argomentativo imposto per la riforma di una sentenza assolutoria dalla regola del “ragionevole dubbio”, quale canone di giudizio che informa l’intero sistema processuale.
La garanzia costituzionale del principio della presunzione di innocenza costituisce, a sua volta, il sostrato valoriale del canone di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, cui sono strettamente funzionali sia la percezione diretta della prova dichiarativa nel contraddittorio delle parti, sia il principio d’immediatezza nella sua acquisizione.
Riflessi evidenti di tale impostazione logico-sistematica sono visibili nei passaggi ove si afferma che il dovere di “motivazione rafforzata” da parte del giudice dell’impugnazione, in caso di dissenso rispetto alla decisione di primo grado, il canone “al di la’ di ogni ragionevole dubbio”, il dovere di rinnovazione della istruzione dibattimentale ed i limiti alla reformatio in pejus si saldano sul medesimo asse cognitivo e decisionale.
All’interno di tale prospettiva, dunque, non v’e’ spazio per giungere alle medesime conclusioni nel diverso caso in cui, basandosi su una differente valutazione della prova dichiarativa nei due gradi di giudizio, la riforma in appello pervenga ad un esito assolutorio rispetto ad una sentenza di condanna pronunciata in primo grado.
La disposizione che ha introdotto nel sistema codicistico il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio e’ stata, non a caso, riferita dal legislatore all’esclusivo ambito di applicazione dell’articolo 533 c.p.p., che attiene alla pronuncia di una sentenza di condanna, mentre dall’articolo 530 c.p.p., che disciplina il diverso esito assolutorio, non soltanto non emerge un criterio di giudizio analogo, ma ne affiora, nella sostanza, uno opposto. Nel comma 2 di tale articolo, infatti, si prevede che il giudice debba pronunciare assoluzione in tutti i casi in cui un dubbio sussiste e non puo’ essere superato, cio’ che equivale a descrivere – dalla prospettiva dell’assoluzione – il mancato soddisfacimento della regola del ragionevole dubbio.
4.1. Sulla medesima linea interpretativa tracciata dalla sentenza Dasgupta si e’ posta successivamente la prevalente elaborazione giurisprudenziale della Corte (Sez. 5, n. 42443 del 07/06/2016, G., Rv. 267931; Sez. 5, n. 35261 del 06/04/2017, Lento, Rv. 270721; Sez. 5, n. 2499 del 15/11/2016, dep. 2017, Vizza, Rv. 269073; Sez. 3, n. 46455 del 17/02/2017, M., Rv. 271110; Sez. 6, n. 55748 del 14/09/2017, Macri’, non mass.), sul rilievo che “l’assoluzione dopo una condanna non deve superare alcun dubbio, perche’ e’ la condanna che deve intervenire al di la’ di ogni ragionevole dubbio, non certo l’assoluzione, possibile anche ex articolo 530 c.p.p., comma 2”.
Presunzione di innocenza e ragionevole dubbio impongono soglie probatorie asimmetriche in relazione alla diversa tipologia dell’epilogo decisorio: la certezza della colpevolezza per la condanna, il dubbio processualmente plausibile per l’assoluzione.
Analoghe le conseguenze sulla estensione dell’obbligo di motivazione, che, in caso di totale riforma in grado di appello, si atteggia diversamente a seconda che si verta nell’ipotesi di sovvertimento della sentenza assolutoria ovvero in quella della totale riforma di una sentenza di condanna. Mentre nel primo caso, infatti, al giudice d’appello si impone l’obbligo di argomentare circa la plausibilita’ del diverso apprezzamento come l’unico ricostruibile al di la’ di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano inficiato la permanente sostenibilita’ del primo giudizio, per il ribaltamento della sentenza di condanna, al contrario, il giudice d’appello puo’ limitarsi a giustificare la perdurante sostenibilita’ di ricostruzioni alternative del fatto, sulla base di un’operazione di tipo essenzialmente demolitivo.
Deve trattarsi, peraltro, di ricostruzioni non solo astrattamente ipotizzabili in rerum natura, ma la cui plausibilita’ nella fattispecie concreta risulti ancorata alle risultanze processuali, assunte nella loro oggettiva consistenza. E’ dunque necessario che il dubbio ragionevole risponda non solo a criteri dotati di intrinseca razionalita’, ma sia suscettibile di essere argomentato con ragioni verificabili alla stregua del materiale probatorio acquisito al processo.
Movendo da tali postulati va inoltre sottolineato come, all’assenza di un obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa in caso di ribaltamento assolutorio, debba affiancarsi l’esigenza che il giudice d’appello strutturi la motivazione della decisione assolutoria in modo rigoroso, dando puntuale ragione delle difformi conclusioni assunte.
La tesi favorevole alla necessita’ di una puntuale motivazione anche in caso di riforma della condanna in assoluzione costituiva, d’altronde, un orientamento largamente condiviso anche prima della sentenza Dasgupta, sul rilievo che il giudice di appello, quando riforma in senso radicale la condanna di primo grado pronunciando sentenza di assoluzione, ha l’obbligo di confutare in modo specifico e completo le precedenti argomentazioni, essendo necessario scardinare l’impianto argomentativo-dimostrativo di una decisione assunta da chi ha avuto diretto contatto con le fonti di prova.
Tale principio affonda le sue radici in una risalente elaborazione giurisprudenziale di questa Corte (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679; Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci, Rv. 191229), che ha stabilito, in linea generale, l’obbligo di una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni raggiunte nel caso in cui il giudice di appello riformi totalmente la decisione di primo grado, sostituendo all’assoluzione l’affermazione di colpevolezza dell’imputato.
Ne discende che il giudice di appello, nel riformare la condanna pronunciata in primo grado con una sentenza di assoluzione, dovra’ confrontarsi con le ragioni addotte a sostegno della decisione impugnata, giustificandone l’integrale riforma senza limitarsi ad inserire nella struttura argomentativa della riformata pronuncia delle generiche notazioni critiche di dissenso, ma riesaminando, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice e quello eventualmente acquisito in seguito, per offrire una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia adeguata ragione delle difformi conclusioni assunte.
4.2. Ne’ e’ possibile far confluire all’interno dell’indistinta locuzione “motivazione rafforzata” ogni ipotesi di ribaltamento della prima decisione, accomunandovi obblighi dimostrativi che hanno origine e finalita’ sostanzialmente differenti, perche’ derivanti da una insuperabile asimmetria di statuti probatori necessariamente imposti dalla interazione della presunzione di innocenza e del canone del ragionevole dubbio con la peculiare tipologia di esito decisorio della pronuncia riformata.
Il canone del ragionevole dubbio, infatti, per la sua immediata derivazione dal principio della presunzione di innocenza, esplica i suoi effetti conformativi non solo sull’applicazione delle regole di giudizio e sulle diverse basi argomentative della sentenza di appello che operi un’integrale riforma di quella di primo grado, ma anche, e piu’ in generale, sui metodi di accertamento del fatto, imponendo protocolli logici del tutto diversi in tema di valutazione delle prove e delle contrapposte ipotesi ricostruttive in ordine alla fondatezza del tema d’accusa: la certezza della colpevolezza per la pronuncia di condanna, il dubbio originato dalla mera plausibilita’ processuale di una ricostruzione alternativa del fatto per l’assoluzione.
All’interno di tale impostazione ricostruttiva deve collocarsi il principio di immediatezza nell’acquisizione della prova dichiarativa, il cui ambito di operativita’ non ha carattere assoluto, ma deve, anzi, essere considerato recessivo la’ dove, come nel caso della riforma di una sentenza di condanna, il principio del ragionevole dubbio non venga in questione.
L’applicazione della regola dell’immediatezza nell’assunzione di prove dichiarative decisive si impone unicamente in caso di sovvertimento della sentenza assolutoria, poiche’ e’ solo tale esito decisorio che conferma la presunzione di innocenza e rafforza il peso del ragionevole dubbio – operante solo pro reo e non per le altre parti del processo – sulla valenza delle prove dichiarative.
E’ proprio tale asimmetrica incidenza del principio del ragionevole dubbio, operante in favore del solo imputato, che rende necessitato il ricorso al metodo di assunzione della prova dichiarativa, epistemologicamente piu’ affidabile, unicamente per il sovvertimento in appello della decisione assolutoria di primo grado. Trova cosi’ una razionale giustificazione, alla stregua delle regole costituzionali del giusto processo, il diverso e meno rigoroso protocollo di assunzione cartolare della prova dichiarativa nell’ipotesi della riforma di una sentenza di condanna.
Il principio di immediatezza agisce come fondamentale, ma non indispensabile, connotato del contraddittorio e non e’ affatto dotato di valenza costituzionale autonoma, subendo anzi svariate, e del tutto giustificate, deroghe (con riferimento, ad es., alla possibile valutazione di prove precostituite) nella disciplina processuale ordinaria. Di certo, pero’, esso non puo’ essere usato per modificare le caratteristiche del giudizio di appello, trasformandone la natura sostanzialmente cartolare in quella di un novum iudicium, con l’ulteriore rischio di una irragionevole diluizione dei tempi processuali.
La Corte costituzionale, nel delineare i tratti del principio di immediatezza, ha per lo piu’ fatto riferimento, sia pure nella prospettiva della regola dell’immutabilita’ del giudice, ad “uno degli aspetti essenziali del modello processuale accusatorio”, chiarendo che esso “costituisce uno dei profili del diritto alla prova, strumento necessario del diritto di azione e di difesa, da riconoscere lungo l’arco di tutto il complesso procedimento probatorio, quale diritto alla ricerca della prova, alla sua introduzione nel processo, alla partecipazione diretta alla sua acquisizione davanti al giudice terzo e imparziale, da ultimo alla sua valutazione ai fini della decisione da parte dello stesso giudice” (Corte cost., ord. n. 205 del 2010).
Dalla elaborazione giurisprudenziale della Corte costituzionale emerge un’indicazione di fondo riguardo alle modalita’ di applicazione di tale principio, che rientrano nella sfera discrezionale insindacabile del legislatore ordinario, trattandosi di un diritto non assoluto della parte alla nuova audizione, ma “modulabile” dal legislatore attraverso la introduzione di presidi normativi volti a prevenirne il possibile uso strumentale e dilatorio (Corte cost., ord. n. 205, cit.; ord. n. 318 del 2008; ord. n. 67 del 2007).
Una nota modale del contraddittorio, dunque, che la stessa Corte EDU, movendosi in una prospettiva non dissimile, non individua come diritto potestativo delle parti, ritenendo, piuttosto, che debba esservi una valida ragione per la riassunzione, cosi’ da escludere una lesione in concreto del diritto alla prova. La possibilita’ di ottenere una nuova audizione davanti al giudice che dovra’ poi decidere sul merito delle accuse e’ definita, infatti, come un elemento “importante” ai fini della valutazione riguardo alla complessiva equita’ del processo, ma suscettibile di subire eccezioni in presenza di una pluralita’ di circostanze, fra le quali vi e’ quella inerente alla utilita’ degli eventuali apporti cognitivi connessi alla nuova audizione (Corte EDU, 10/02/2005, Graviano c. Italia; 09/07/2002, P.K. c. Finlandia; 04/12/2003, Milan c. Italia; 27/09/2007, Reiner c. Romania).
5. Sotto altro, ma connesso profilo, devono essere considerate le implicazioni sottese al filo evolutivo che ha caratterizzato l’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo riguardo alla necessita’ di rinnovazione della prova dichiarativa quale strumento di attuazione del contraddittorio ai fini dell’equo processo.
Se, da un lato, puo’ ritenersi nettamente prevalente l’orientamento secondo cui la riassunzione orale delle fonti di prova nel giudizio d’appello deve avvenire nell’ipotesi in cui il giudice sia chiamato ad operare una valutazione completa delle questioni relative alla colpevolezza o all’innocenza del ricorrente, e’ pur vero, dall’altro lato, che tale deciso richiamo al metodo dell’oralita’ non e’ mai stato in concreto riferito alla ipotesi della reformatio in melius, ma e’ stato sempre declinato nella diversa prospettiva del ribaltamento dell’esito assolutorio in condanna (Corte EDU, 24/11/1986, Unterpertinger c. Austria; 07/07/1989, Bricmont c. Belgio; 18/05/2004, Destrehem c. Francia; 21/09/2010, Marcos Barrios c. Spagna; 05/07/2011, Dan c. Moldavia; 05/03/2013, Manolachi c. Romania; 04/06/2013, Hanu c. Romania; 04/06/2013, Kostecki c. Polonia; 28/02/2017, Manoli c. Moldavia; 29/06/2017, Lorefice c. Italia).
Ne’ puo’ dirsi che tale risalente indirizzo della giurisprudenza convenzionale sia univocamente orientato, poiche’ in alcune, piu’ recenti, decisioni e’ stata esclusa, in relazione alle medesime evenienze procedimentali, la necessita’ della rinnovazione probatoria in appello, ritenendosi sufficiente, per integrare la soglia della garanzia convenzionale, anche solo una motivazione particolarmente approfondita sulle ragioni del mutato apprezzamento delle risultanze processuali, con l’evidenza degli errori compiuti dal giudice di primo grado e la previsione di un controllo sul rispetto di quell’obbligo (Corte EDU, 26/04/2016, Kashlev c. Estonia; 27/06/2017, Chiper c. Romania).
All’interno di una prospettiva decisamente orientata alla valorizzazione di un ponderato bilanciamento dei diversi indici di complessiva equita’ del procedimento, tali ultime decisioni della Corte EDU non ritengono configurabile, in capo alle giurisdizioni nazionali, un obbligo perentorio di nuova escussione di tutti i testimoni la cui credibilita’ sia stata rivalutata nel contesto del giudizio d’impugnazione. La violazione dell’equita’ processuale, secondo tale diversa linea interpretativa, non viene fatta discendere in modo automatico dalla intersezione degli effetti dell’omessa rinnovazione probatoria e della reformatio in peius nel giudizio d’appello. Occorre, invece, verificare la specifica forza probante delle singole testimonianze nella ricostruzione dei fatti di causa, con il logico corollario che anche una motivata esclusione dell’utilita’ di una nuova deposizione puo’ ritenersi sufficiente ai fini del vaglio sulla complessiva equita’ del procedimento, ove il giudice dell’impugnazione abbia specificamente argomentato in merito alle ragioni che l’abbiano indotto a discostarsi dal precedente verdetto assolutorio.
Al di la’ delle, pur visibili, oscillazioni affioranti dalla lettura di garanzie procedurali comunque stabilite dall’articolo 6 CEDU in funzione di tutela del fondamentale principio della presunzione di innocenza dell’accusato, e’ certo che l’evoluzione della giurisprudenza convenzionale tende attualmente a configurare uno statuto della rinnovazione istruttoria non piu’ fondato su linee rigidamente tracciate, affiancando al tradizionale richiamo all’oralita’ l’esigenza di un apprezzamento svolto caso per caso, al di fuori di ogni automatismo, secondo il canone interpretativo di un’accurata motivazione sulla affidabilita’ della prova e, piu’ in generale, sull’assenza di una valutazione irragionevole od arbitraria del suo risultato.
Un fascio di tutele, questo, non ancora compiutamente cristallizzato, che sembra rimodellarsi all’interno di un piu’ ampio percorso evolutivo che ha di recente portato la giurisprudenza convenzionale a rivedere, in tema di diritto al contraddittorio, il tradizionale divieto di condanna nelle ipotesi in cui la prova, unica o determinante, sia costituita da testimonianze acquisite unilateralmente, affermando la compatibilita’ convenzionale di quest’ultima la’ dove sia riconosciuto all’imputato un quadro di garanzie (ad es., un approfondito apparato motivazionale sulla consistenza della base probatoria) concretamente idoneo ad assicurare l’equita’ complessiva del procedimento (Corte EDU, Grande camera, 15 dicembre 2011, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito; Corte EDU, GC, 15/12/2015, Schatschaschwili c. Germania).
In definitiva puo’ dirsi, anche alla luce della complessa evoluzione giurisprudenziale tuttora in atto presso la Corte di Strasburgo, che l’eventuale estensione della regola della rinnovazione istruttoria al di fuori dei casi nei quali essa e’ stata sempre declinata nella giurisprudenza convenzionale, ossia quelli relativi alla riforma dell’assoluzione in condanna, deve essere attentamente vagliata dal giudice dell’impugnazione all’interno di un prudente bilanciamento che tenga conto sia del complessivo grado di equita’ del procedimento, sia del diverso quadro di esigenze di ordine giuridico-costituzionale ed epistemologico che vengono in rilievo in tale specifica evenienza.
Le garanzie poste dall’articolo 6 CEDU, infatti, sono state delineate in favore del destinatario di un’accusa in materia penale e in funzione della tutela del principio fondamentale della presunzione di innocenza della persona sottoposta al processo penale (cui sono strumentali le specifiche prescrizioni procedurali previste dal par. 3 di tale norma convenzionale), secondo una formulazione la cui area semantica deve ritenersi sostanzialmente equivalente, ai sensi dell’articolo 52, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, al contenuto normativo dell’articolo 48 della Carta medesima, ove si stabilisce che “ogni imputato e’ considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata”.
6. Il nostro ordinamento costituzionale ha operato una ben precisa scelta di sistema, delineando il processo penale come strumento di accertamento della colpevolezza e non dell’innocenza.
La previsione dei diritti fondamentali dell’equo processo, cosi’ come delineati non solo dalla nostra Costituzione (articoli 25, 27 e 111 Cost.), ma anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (articoli 47 e 48) e dalla CEDU (articolo 6), si traduce, come risulta evidente dalla loro complessiva enunciazione, nella creazione di una vasta area di garanzia dei diritti e delle facolta’ della persona sottoposta ad un procedimento penale.

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