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3. Del tutto legittimamente sono state utilizzate le dichiarazioni rese dall’imputato al Pubblico Ministero. La lettura della sentenza dimostra ampiamente che la Corte d’appello le ha poste a suffragio della contestazione di cui al capo B) e non anche di quella di cui al capo C) (per la quale sono stati considerati decisivi gli accertamento della Guardia di Finanza). Non e’ dato comprendere, e non e’ stato spiegato, quale sia la parte delle dichiarazioni, favorevoli all’imputato, trascurate dal giudicante, atteso che non ridonderebbe a suo favore il fatto che la (OMISSIS) e la (OMISSIS) siano stati poi pagati dalla (OMISSIS) spa (ma non con i soldi dell’imputato). Solamente assertiva, e priva di concludenza (per quanto e’ stato ampiamente detto), e’ l’affermazione difensiva che le confessioni siano state rese in una situazione “difficile”.
4. La violazione degli articoli 521 e 522 c.p.p. e’ palesemente insussistente, in quanto (OMISSIS) e’ stato condannato proprio per quanto gli era stato contestato: l’aver utilizzato per scopi personali denaro della societa’ amministrata; soldi da lui introitati col pretesto di dover soddisfare debiti sociali.
5. Manifestamente insussistente e’ la reformatio in peius lamentata, in quanto (OMISSIS) era stato condannato, in primo grado, alla pena di anni due e mesi sei di reclusione, cosi’ determinata: pena base, anni tre e mesi nove di reclusione, ridotta come sopra per la concessione di circostanze attenuanti generiche (giudicate prevalenti sulle aggravanti contestate). In appello, esclusa, per il capo C), l’aggravante del danno di rilevante entita’, la pena base e’ stata ridotta ad anni tre e mesi sei di reclusione, ulteriormente ridotta ad anni due e mesi quattro di reclusione per l’operativita’ delle circostanze attenuanti generiche (anche in questo caso giudicate prevalenti sulle residue aggravanti). E’ evidente che nessun aggravio vi e’ stato nella condizione dell’imputato (l’errore difensivo consiste nell’aver ritenuto applicata, in primo grado, la pena di anni tre di reclusione).
6. Inammissibile e’ anche la questione di legittimita’ costituzionale degli articoli 216 e 223 L.F. – sollevata dal difensore dell’imputato – nella parte in cui prevedono pene accessorie in misura fissa, per violazione degli articoli 3, 427, 41 e 117 Cost.. Va premesso che non sono note a questo Collegio le motivazione dell’ordinanza adottata dalla sezione prima di questa Corte in data 6 luglio 2017 (sicche’ non e’ possibile confrontarsi con essa) e che, come lo stesso ricorrente ha ricordato, la questione e’ gia’ stata portata – in un passato recente – alla cognizione del giudice delle leggi sia dalla Corte di appello di Trieste con ordinanza del 20 gennaio 2011 che da questa stessa Corte con ordinanza del 21 aprile 2011 e che la stessa e’ stata dichiarata inammissibile dalla Consulta con sentenza n. 134 del 21 maggio 2012. E’ poi vero – come sottolineato dal ricorrente – che la soluzione data alla questione dall’organo competente e’ dipesa dal petitum formulato dai rimettenti (una pronuncia additiva che rendesse applicabile l’articolo 37 cod. c.p.): pronuncia che la Corte non ha ritenuto di poter emettere perche’, si legge in sentenza, “sono inammissibili le questioni di costituzionalita’ relative a materie riservate alla discrezionalita’ del legislatore e che si risolvono in una richiesta di pronuncia additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato”. E’ dato di fatto, pero’, che la Corte Costituzionale – pur auspicando una riforma delle pene accessorie nel loro complesso (e non solo di quelle previste dalla legislazione fallimentare) – non ha inteso cogliere l’occasione per estendere l’indagine alla “pura” costituzionalita’ delle norme denunciate, come pure era in suo potere fare (e come ha fatto concretamente – in molteplici occasioni), sul presupposto, implicito, che gli articoli 216 e 223 L.F. non contrastano con le norme costituzionali richiamate. Non puo’ essere condivisa, infatti, l’opinione del ricorrente, per il quale la pronuncia sopra richiamata conterrebbe un “monito”, rivolto dalla Corte al legislatore, affinche’ si affretti ad adeguare la disciplina delle pene accessorie ai principi della Costituzione repubblicana (con i quali – si assume – quelle norme contrasterebbero), dal momento che – a prescindere dal tenore letterale delle espressioni utilizzate nella sentenza del 2012 – costituisce orientamento consolidato del giudice costituzionale che la rigidita’ del sistema sanzionatorio collide col “volto costituzionale” dell’illecito penale allorche’ concerna le pene fisse nel loro complesso e non anche i “trattamenti sanzionatori che coniughino articolazioni rigide ed articolazioni elastiche, in maniera da lasciare comunque adeguati spazi alla discrezionalita’ del giudice, ai fini dell’adeguamento della risposta punitiva alle singole fattispecie concrete” (cosi’, Corte Cost., ordinanza n. 91 del 2008, che ribadisce principi gia’ affermati nelle sentenze n. 188 dell’8 novembre 1982 e n. 50 del 2 aprile 1980, che hanno ritenute legittime costituzionalmente previsioni di pene pecuniarie fisse, anche di importo elevato, congiunte a pene detentive variabili). Tanto, senza considerare che, per giurisprudenza costante del giudice delle leggi, la scelta e la quantificazione delle sanzioni per i singoli fatti punibili rientra nella discrezionalita’ del legislatore, il cui esercizio e’ censurabile solo nel caso di manifesta irragionevolezza (ex plurimis, sentenze n. 22 del 2007, n. 394 del 2006 e n. 144 del 2005): irragionevolezza che non e’ dato ravvisare a fronte di reati che, anche in astratto, sono considerati gravi dal legislatore, come dimostrato dalla cornice edittale minima e massima – ad essi riferibile. Non puo’ essere dato corso, pertanto, alla richiesta di sospensione del processo, avanzata dal ricorrente, ne’ alla richiesta, pure da lui formulata, di investire nuovamente della questione la Corte Costituzionale.
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