Il fatto di aver concordato un incontro per vendere la droga non è motivazione sufficiente per l’imputazione del reato. La chiamata in correita’, perche’ possa assurgere al rango di prova posta a fondamento di un’affermazione di responsabilita’, necessita, oltre che di un positivo apprezzamento in ordine alla sua intrinseca attendibilita’, di “riscontri estrinseci”. Questi, dal punto di vista oggettivo, possono consistere in qualsiasi circostanza, fattore o dato probatorio, non predeterminato nella specie e qualita’, ed avere, pertanto, qualsiasi natura: i riscontri, dunque, possono consistere in elementi di prova sia rappresentativa che logica, ed anche in un’altra chiamata in correita’, a condizione che questa sia totalmente autonoma ed avulsa rispetto a quella da “corroborare”. E’ essenziale, inoltre, che tali riscontri siano “indipendenti” dalla chiamata, nel senso che devono provenire da fonti estranee alla chiamata stessa, in modo da evitare il cosiddetto fenomeno della “circolarita’” della acquisizione probatoria, e cioe’, in definitiva, che sia la stessa chiamata a convalidare se’ stessa. I riscontri, infine, nell’ottica del giudizio di condanna, devono avere valenza “individualizzante”, devono, cioe’, riguardare non soltanto il complesso delle dichiarazioni, ma anche la riferibilita’ dello specifico fatto-reato alla specifica posizione soggettiva dell’imputato; in altri termini, i riscontri non devono semplicemente consistere nell’oggettiva conferma del fatto riferito dal chiamante, ma devono costituire elementi che collegano il fatto stesso alla persona del chiamato, fornendo un preciso contributo dimostrativo dell’attribuzione a quest’ultimo del reato contestato. Per converso, non e’ invece richiesto che i riscontri abbiano lo spessore di una prova “autosufficiente”, perche’, in caso contrario, la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata in correita’
Sentenza 22 settembre 2017, n. 43837
Data udienza 20 giugno 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco – Presidente
Dott. PICCIALLI Patrizia – rel. Consigliere
Dott. PEZZELLA Vincenzo – Consigliere
Dott. RANALDI Alessandro – Consigliere
Dott. PAVICH Giuseppe – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS) nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 23/11/2016 della CORTE APPELLO di MILANO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere PATRIZIA PICCIALLI;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore DE MASELLIS MARIELLA;
Il Procuratore Generale DE MASELLIS MARIELLA conclude per il rigetto del ricorso.
Udito il difensore.
E’ presente l’avvocato (OMISSIS) del foro di VERCELLI difensore di (OMISSIS), che chiede l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
(OMISSIS) ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che, confermando quella di primo grado, lo ha ritenuto responsabile,a seguito di giudizio abbreviato, di plurime cessioni di sostanza stupefacente del tipo cocaina.
Con il ricorso ripropone doglianze gia’ rigettate dal giudice di appello.
Con il primo motivo deduce in via preliminare la nullita’ di tutti gli atti del procedimento, ivi compresa l’ordinanza di custodia cautelare, per il fatto che all’imputato alloglotta non risultava nominato un interprete ne’ si era provveduto alla traduzione scritta degli atti nella lingua nazionale dell’imputato stesso a norma dell’articolo 109 c.p.p., comma 2, articolo 143 c.p.p., articolo 169 c.p.p., comma 3 e articolo 63 att. cod. proc. pen., articolo 5 e articolo 6, lettera a) ed e) della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Nello specifico si deduceva che l’imputato in sede di interrogatorio aveva precisato di conoscere poco l’italiano; cio’ risultava confermato dalle intercettazioni telefoniche ove il (OMISSIS) si esprimeva in italiano solo per concordare gli appuntamenti con frasi semplici e laconiche.
Con il secondo motivo contestava il giudizio di responsabilita’ sul rilievo che le dichiarazioni di chiamata in correita’ del coimputato non risultavano sorrette da alcun riscontro individualizzante; con riferimento agli episodi del 10 dicembre 2013 e del 28 gennaio 2014 deduceva che il semplice fatto di aver concordato degli appuntamenti con presunti cessionari della sostanza stupefacente non costituirebbe prova delle cessioni contestate avendo l’imputato negato tali episodi, rendendo verosimili e credibili spiegazioni alternative con i predetti.
Con il terzo motivo lamenta l’eccessivita’ del trattamento sanzionatorio chiedendo il riconoscimento dell’ipotesi lieve di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 5 e l’attenuante di cui all’articolo 73, comma 7, considerato che l’imputato aveva indicato il proprio fornitore di stupefacente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso e’ manifestamente infondato, a fronte di una decisione satisfattivamente motivata, attraverso una adeguata disamina degli atti, evocandosi con il gravame o generiche contestazioni di fatto o prospettandosi violazioni solo asserite e non supportate da adeguato riscontro documentale.
Cio’ vale per il motivo relativo all’eccezione circa la mancata traduzione degli atti, ivi compresa l’ordinanza cautelare.
Sul punto e’ sufficiente ricordare che il riconoscimento del diritto all’assistenza dell’interprete ed alla traduzione non discende automaticamente, come atto dovuto e imprescindibile, dal mero status di straniero, ma richiede l’ulteriore presupposto, in capo a quest’ultimo, dell’accertata ignoranza della lingua italiana (cfr. Sez. U., n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv.239693). Situazione immutata anche dopo l’entrata in vigore del Decreto Legislativo 4 marzo 2014, n. 32.
Sul punto della ritenuta conoscenza della lingua i giudici di merito si sono espressi in termini inequivoci, corrispondendo sul punto in modo ampiamente esaustivo. Non risulta del resto alcun concreto pregiudizio difensivo, ove si consideri che l’imputato non solo ha risposto in sede di interrogatorio, ma anche ammesso le sue responsabilita’ in un memoriale sottoscritto dallo stesso, redatto in lingua nazionale, in cui asserisce espressamente di avere avuto cognizione dei fatti di cui era imputato, in relazione ai quali ha svolto specifiche deduzioni.
Le doglianze sul giudizio di responsabilita’ sono tipicamente di merito, risolvendosi in una contestazione dell’apprezzamento del compendio probatorio, concordemente effettuato in primo grado, in modo peraltro giuridicamente corretto.
[…segue pagina successiva]
Leave a Reply