L’e-mail inviata a numerosi colleghi da un dipendente, in forma anonima e mediante la creazione di un falso mittente, il cui contenuto sia diffamatorio nei confronti di alcuni dirigenti aziendali, è idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti e integra, pertanto, una giusta causa di licenziamento
Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza 20 settembre 2016, n. 18404
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NOBILE Vittorio – Presidente
Dott. VENUTI Pietro – Consigliere
Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere
Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 9681/2015 proposto da:
(OMISSIS), C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 102/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 26/01/2015 R.G.N. 1563/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/05/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIO MANNA;
udito l’Avvocato (OMISSIS) e Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE Giovanni, che ha concluso per l’inammissibilita’ e in subordine rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza depositata il 26.1.15 la Corte d’appello di Milano rigettava il reclamo proposto da (OMISSIS) contro la sentenza del Tribunale di Monza che ne aveva respinto l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimatogli da (OMISSIS) S.p.A. il 21.5.13 per il contenuto – qualificato come diffamatorio nei confronti di due dirigenti aziendali – di una e-mail inviata dal lavoratore a numerosi altri dipendenti della societa’.
Per la cassazione della sentenza ricorre (OMISSIS) affidandosi a due motivi.
(OMISSIS) S.p.A. resiste con controricorso, poi ulteriormente illustrato con memoria ex articolo 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1- Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 1, articoli 1345, 1324, 2727 e 2729 c.c., articolo 421 c.p.c., e Decreto Legislativo n. 150 del 2011, articolo 28, comma 4, per avere la sentenza impugnata negato il carattere discriminatorio dovuto all’orientamento sessuale del ricorrente – del licenziamento per cui e’ causa, nonostante che numerose e pacifiche circostanze di fatto e risultanze processuali, non considerate dai giudici del reclamo, deponessero in tal senso; inoltre – si prosegue nel motivo – la Corte territoriale ha travisato i’l tenore del messaggio di posta elettronica oggetto della lettera di contestazione disciplinare.
Il motivo va disatteso perche’ si colloca all’esterno dell’area di cui all’articolo 360 c.p.c..
Invero, ad onta del rinvio a norme di diritto, in realta’ in esso si suggerisce esclusivamente una generale rivisitazione del materiale istruttorio affinche’ se ne fornisca una valutazione diversa da quella accolta dalla sentenza impugnata, operazione non consentita in sede di legittimita’ neppure sotto forma di denuncia di vizio di motivazione.
In altre parole, il ricorso si dilunga nell’opporre al motivato apprezzamento della Corte territoriale proprie difformi valutazioni delle prove, ma tale modus operandi non e’ idoneo a segnalare un vizio denunciabile ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo, nel caso di specie applicabile ratione temporis, novellato dal Decreto Legge n. 83 del 2012, articolo 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134) ne’, a maggior ragione, ai sensi degli altri canali di accesso al giudizio di legittimita’ tassativamente indicati dall’articolo 360 c.p.c..
La nuova formulazione dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (applicabile, ai sensi del cit. articolo 54, comma 3, alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, cioe’ alle sentenze pubblicate dal 12.9.12 e, quindi, anche alla pronuncia in questa sede impugnata) rende denunciabile per cassazione solo il vizio di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti”.
In tal modo il legislatore e’ tornato, pressoche’ alla lettera, all’originaria formulazione dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, del codice di rito del 1940.
Con orientamento (cui va data continuita’) espresso dalla sentenza 7.4.14 n. 8053 (e dalle successive pronunce conformi), le S.U. di questa S.C., nell’interpretare la portata della novella, hanno in primo luogo notato che con essa si e’ assicurato al ricorso per cassazione solo una sorta di “minimo costituzionale”, ossia lo si e’ ammesso ove strettamente necessitato dai precetti costituzionali, supportando il giudice di legittimita’ quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris.
Proprio per tale ragione le S.U. hanno affermato che non e’ piu’ consentito denunciare un vizio di motivazione se non quando esso dia luogo, in realta’, ad una vera e propria violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4.
Cio’ si verifica soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, o di motivazione del tutto apparente, oppure di motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure di manifesta e irriducibile sua contraddittorieta’ e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in se’, esclusa la riconducibilita’ in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalita’ della motivazione medesima mediante confronto con le risultanze probatorie.
Per l’effetto, il controllo sulla motivazione da parte del giudice di legittimita’ diviene un controllo ab intrinseco, nel senso che la violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, deve emergere obiettivamente dalla mera lettura della sentenza in se’, senza possibilita’ alcuna di ricavarlo dal confronto con atti o documenti acquisiti nel corso dei gradi di merito.
Secondo le S.U., l’omesso esame deve riguardare un fatto (inteso nella sua accezione storico-fenomenica e, quindi, non un punto o un profilo giuridico) principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioe’ dedotto in funzione probatoria).
Ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, anche l’omesso esame di determinati elementi probatori: basta che il fatto sia stato esaminato, senza che sia necessario che il giudice abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all’esito dell’istruttoria come astrattamente rilevanti.
A sua volta deve trattarsi di un fatto (processualmente) esistente, per esso intendendosi non un fatto storicamente accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti: tale allegazione puo’ risultare gia’ soltanto dal testo della sentenza impugnata (e allora si parlera’ di rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza del dato extra-testuale).
Sempre le S.U. precisano gli oneri di allegazione e produzione a carico del ricorrente ai sensi dell’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e articolo 369 c.p.c., comma 2, n. 4: il ricorso deve non solo indicare chiaramente il fatto storico del cui mancato esame ci si duole, ma deve indicare il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extra-testuale (emergente dagli atti processuali) da cui risulti la sua esistenza, nonche’ il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti e spiegarne, infine, la decisivita’.
L’omesso esame del fatto decisivo si pone, dunque, nell’ottica della sentenza n. 8053/14 come il “tassello mancante” (cosi’ si esprimono le S.U.) alla plausibilita’ delle conclusioni cui e’ pervenuta la sentenza rispetto a premesse date nel quadro del sillogismo giudiziario.
Invece, il ricorso in oggetto, oltre a non rispondere ai requisiti prescritti dalla citata sentenza delle S.U., invoca una generale rivisitazione nel merito di tutto il materiale probatorio acquisito in sede di merito, il che non e’ consentito innanzi a questa Corte Suprema.
Ne’ puo’ dirsi che i giudici di merito abbiano omesso di esaminare i fatti decisivi che avrebbero consentito di qualificare come discriminatorio il licenziamento per cui e’ causa: anzi, hanno espressamente segnalato che gia’ nel 2010, pur in presenza di un altro addebito obiettivamente grave e pur gia’ conoscendo gli orientamenti sessuali dell’odierno ricorrente, la societa’ aveva irrogato all’odierno ricorrente una sanzione conservativa e che in altre occasioni non aveva adottato sanzione alcuna nei suoi riguardi.
2- Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 2119 c.c., della L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 4, vista l’irrilevanza come giusta causa di licenziamento del fatto contestato, nonche’ violazione e falsa applicazione dell’articolo 599 c.p., per avere la gravata pronuncia escluso l’esimente dell’aver agito nello stato d’ira determinato dall’altrui fatto ingiusto, consistente nelle voci diffamatorie ai suoi danni diffuse all’interno dell’azienda dai dirigenti che a loro volta si erano poi sentiti diffamati dalla e-mail del ricorrente.
Il motivo e’ infondato.
Per costante giurisprudenza di questa Corte Suprema, il giudice di merito investito del giudizio circa la legittimita’ d’un provvedimento disciplinare deve necessariamente valutare la sussistenza o meno del rapporto di proporzionalita’ tra l’infrazione del lavoratore e la sanzione irrogatagli, a tal fine tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive della condotta del lavoratore e di tutti gli altri elementi idonei a consentire l’adeguamento della disposizione normativa dell’articolo 2119 c.c. – richiamato dalla L. n. 604 del 1966, articolo 1, – alla fattispecie concreta (cfr., ex aliis, Cass. n. 8456/11; Cass. n. 736/02; Cass. n. 1144/2000).
In altre parole, il giudice di merito investito della domanda con cui si chieda l’invalidazione d’un licenziamento disciplinare, accertatane in primo luogo la sussistenza in punto di fatto, deve verificare che l’infrazione contestata sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso; in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi apprezzare in concreto (e non semplicemente in astratto) la gravita’ dell’addebito, essendo pur sempre necessario che esso rivesta il carattere di grave negazione dell’elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia idonea a ledere irrimediabilmente la fiducia circa la futura correttezza dell’adempimento della prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore dipendente rispetto all’adempimento dei suoi obblighi (cfr., ex aliis, Cass. n. 15058/15; Cass. n. 2013/12; Cass. n. 2906/05; Cass. n. 16260/04; Cass. n. 5633/01).
A tal fine, sempre secondo costante giurisprudenza, bisogna tener conto di tutti i connotati oggetti e soggettivi del fatto, vale a dire del danno arrecato, dell’intensita’ del dolo o del grado della colpa, dei precedenti disciplinari nonche’ di ogni altra circostanza tale da incidere in concreto sulla valutazione del livello di lesione del rapporto fiduciario tra le parti.
La sentenza impugnata si e’ attenuta a tali insegnamenti.
Il fatto oggetto di contestazione disciplinare e’ stato accertato e poi correttamente inquadrato come giusta causa in quanto integrante una diffamazione nei confronti di superiori dell’odierno ricorrente (sull’idoneita’ di condotte diffamatorie ad integrare, in astratto, giusta causa di licenziamento v., ad esempio, Cass. n. 9395/06; Cass. n. 7091/01; Cass. n. 10511/98).
Quanto all’irrimediabile lesione del vincolo fiduciario tra le parti, nel caso concreto essa e’ stata adeguatamente motivata in ragione del coefficiente doloso e delle modalita’ usate (scritto anonimo e creazione d’un falso mittente) per diffondere il messaggio di posta elettronica giudicato diffamatorio.
Infine, in ordine all’invocata esimente di cui all’articolo 599 c.p. (comma 2) per avere il ricorrente agito nello stato d’ira determinato dall’altrui fatto ingiusto, consistente nelle voci diffamatorie ai suoi danni diffuse all’interno dell’azienda dai dirigenti che a loro volta erano stati poi diffamati dalla e-mail del dipendente, la censura si rivela non accoglibile per l’assorbente rilievo che, a monte, l’ingiusta condotta che (OMISSIS) rimprovera ai suddetti dirigenti aziendali non e’ rimasta provata.
3- In conclusione, il ricorso e’ da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimita’, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimita’, liquidate in Euro 3.100,00 di cui Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali e agli accessori di legge.
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