Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza 2 settembre 2014, n. 18523
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MACIOCE Luigi – Presidente
Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere
Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere
Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 7480-2013 proposto da:
(OMISSIS) C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE C.F. (OMISSIS) in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE DOGANE e dei MONOPOLI quale successore dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato C.F. (OMISSIS), rappresentati e difesi dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domiciliano ope legis, in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 65/2013 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 11/01/2013 R.G.N. 543/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/06/2014 dal Consigliere Dott. PAOLA GHINOY;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Il Tribunale di Firenze con ordinanza del 20/2/2012 rigettava il ricorso e il gravame veniva respinto dalla Corte d’appello di Firenze con la sentenza n. 65 del 2013.
Per la cassazione di tale sentenza (OMISSIS) ha proposto ricorso, affidato a cinque motivi, illustrati anche con memoria ex articolo 378 c.p.c.; hanno resistito con controricorso il Ministero dell’economia e delle finanze, nonche’ l’Agenzia delle dogane e dei monopoli, quale successore dell’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato.
Il ricorso e’ affidato a cinque motivi.
1. Come primo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 38. Sostiene che il riferimento operato dalla disposizione ai soli cittadini comunitari al fine dell’accesso ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale, troverebbe la sua ragione storica nell’esigenza da parte dell’Italia di adempiere all’obbligo comunitario di garantire la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione europea ai sensi dell’articolo 54 TFUE, ma non avrebbe il significato di escludere i lavoratori extracomunitari, come sarebbe stato ribadito dalla Corte costituzionale nell’ordinanza numero 139 del 2011.
2. Come secondo motivo deduce violazione o falsa applicazione degli articoli 3 e 4 Cost., del Decreto Legislativo n. 286 del 1998, articoli 2, 27 e 43 e del Decreto Legislativo n. 215 del 2003, articolo 3. Sostiene che la decisione della Corte d’appello si porrebbe in contrasto con il Decreto Legislativo n. 286 citato, articolo 2, che, in particolare al comma 3, espressamente riconosce al cittadino extracomunitario il pieno godimento dei diritti in materia civile e recepisce la convenzione OIL n. 143 del 24 giugno 1975. La Corte costituzionale del resto con la sentenza numero 454 del 1998 avrebbe gia’ affermato la piena parita’ di trattamento e l’uguaglianza di diritti per i lavoratori extracomunitari rispetto ai lavoratori italiani e il Decreto Legislativo n. 215 del 2003, articolo 3, attuativo della Direttiva n. 43 del 2000, includerebbe l’obbligo della parita’ di trattamento per cio’ che riguarda l’accesso al lavoro sia nel settore pubblico nel settore privato. Ribadisce che gli articoli 3 e 4 Cost. si applicano a tutti i cittadini, intesi come persone.
3. Come terzo motivo lamenta violazione o falsa applicazione degli articoli 10 e 14 della convenzione OIL n. 143 del 1975, ratificata in Italia con Legge n. 158 del 1982 e richiamata dal Decreto Legislativo n. 286 del 1998, articolo 2 che garantisce a tutti i lavoratori parita’ di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani. Argomenta che la normativa internazionale costituisce un parametro al quale occorre adeguare l’interpretazione delle norme interne che incidono sulla condizione giuridica dello straniero.
4. Come quarto motivo lamenta omessa insufficiente e contraddittoria motivazione addebitando alla corte d’appello di non aver motivato in ordine alla violazione dell’articolo 27 punto g) della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilita’.
I quattro motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente in quanto sono connessi.
1. La questione se il requisito della cittadinanza per gli impieghi pubblici debba ritenersi abrogato, fatta eccezione per gli impieghi costituiti per lo svolgimento di funzioni pubbliche essenziali, oggetto di causa, e’ stata gia’ affrontata e risolta in senso negativo nella sentenza di questa Corte Sez. L, n. 24170 del 2006. In quella sede, la Corte ha affermato che il diritto positivo esprime la regola dell’esclusione dello straniero extracomunitario dal lavoro pubblico, con salvezza delle eccezioni previste dalla legge, regola non sospettabile di illegittimita’ costituzionale.
A tale conclusione occorre dare continuita’, pur nella consapevolezza dell’evoluzione sociale che porta alla tendenziale omogeneizzazione a fini giuridici delle etnie e cittadinanze ed alla progressiva attenuazione della rilevanza dell’appartenenza nazionale a scapito di organismi sovranazionali, dovendosi prendere atto che essa e’ frutto di una scelta politica tutt’ora espressa nella legislazione vigente, che non contrasta con la normativa nazionale ed i principi sovranazionali richiamati dalla parte ricorrente.
2. La norma da cui occorre prendere le mosse e’ il Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 38, che nel testo originario ai primi due commi prevedeva quanto segue: “1. I cittadini degli Stati membri dell’Unione europea possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale. 2. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi della Legge 23 agosto 1988, n. 400, articolo 17 e successive modificazioni ed integrazioni, sono individuati i posti e le funzioni per i quali non puo’ prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana, nonche’ i requisiti indispensabili all’accesso dei cittadini di cui al comma 1”.
La disposizione estendeva quindi l’accesso agli impieghi presso le pubbliche amministrazioni ai cittadini comunitari, salvo, per questi ultimi, le eccezioni che sono state previste dal D.P.C.M. n. 174 del 1994, articolo 2.
3. La disposizione si coordina con il successivo articolo 70, comma 13 a mente del quale “In materia di reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano la disciplina prevista dal Decreto del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487, e successive modificazioni ed integrazioni, per le parti non incompatibili con quanto previsto dagli articoli 35 e 36, salvo che la materia venga regolata, in coerenza con i principi ivi previsti, nell’ambito dei rispettivi ordinamenti”. Tale Decreto del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487 – Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalita’ di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi – all’articolo 2, comma 1, n. 1 prevede poi che possono accedere agli impieghi civili delle pubbliche amministrazioni i cittadini italiani, specificando poi che “tale requisito non e’ richiesto per i soggetti appartenenti alla Unione europea, fatte salve le eccezioni di cui al D.P.C.M. 7 febbraio 1994, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 15 febbraio 1994, serie generale n. 61”.
Le norme fin qui indicate si applicano anche ai cittadini extracomunitari e agli apolidi che abbiano ottenuto in Italia il riconoscimento dello status di rifugiato: il Decreto Legislativo 19 novembre 2007, n. 251, articolo 25, comma 2 consente infatti al titolare dello status di rifugiato l’accesso al pubblico impiego, con le modalita’ e le limitazioni previste per i cittadini dell’Unione europea.
Il coordinato disposto dalle disposizioni richiamate supera, a seguito dei vincoli imposti dalla normativa comunitaria, la piu’ restrittiva previsione contenuta nel Decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, che all’articolo 2 pone la cittadinanza italiana come requisito generale per l’accesso agli impieghi civili dello Stato, senza riferimento ai cittadini dell’UE, ma mantiene l’esclusione per gli stranieri extracomunitari, che non vengono contemplati tra i legittimati.
4. Sull’articolo 38 sopra riportato e’ intervenuta la Legge 6 agosto 2013, n. 97, recante “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea – Legge Europea 2013”, che con l’articolo 7, comma 1, lettera a), ne ha modificato il comma 1 nei termini che seguono: “I cittadini degli Stati membri dell’Unione europea e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale”. La stessa legge ha aggiunto il comma 3 bis, che prevede che le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 si applicano ai cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo (cosi’ ulteriormente modificata la dizione “permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo” dal Decreto Legislativo 13 febbraio 2014, n. 12, articolo 3, comma 1) o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria. Analoga modifica e’ stata apportata al Decreto Legislativo 19 novembre 2007, n. 251, citato articolo 25.
Il legislatore con il recente intervento ha quindi ampliato l’accesso ai pubblici impieghi solo a determinate categorie di cittadini extracomunitari, allo scopo di ricomprendervi i soggetti direttamente garantiti dalle Direttive Comunitarie (v. le direttive nn. 2004/38, 2004/83, 2003/109). Il riferimento solo ad alcune categorie di stranieri ammessi al pubblico impiego, a parita’ con il cittadino dell’Unione Europea, manifesta la persistente volonta’ del legislatore di escludere le ulteriori categorie di cittadini extracomunitari non espressamente contemplati.
5. La limitatezza dell’intervento normativo e’ stata stigmatizzata da alcuni Ordini del Giorno presentati in occasione della nuova formulazione del Decreto Legislativo n. 165, articolo 38: l’o.d.g. presentato dai deputati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) ed altri n. 9/1327/7, accolto dal Governo, si concludeva con l’impegno del Governo “a valutare la possibilita’ di fornire, in sede di applicazione delle disposizioni contenute nel disegno di legge in esame, un’interpretazione costituzionalmente orientata di tali disposizioni che espliciti definitivamente la parificazione, ai fini dell’accesso al pubblico impiego, tra il cittadino straniero legalmente soggiornante in Italia per motivi che consentono lo svolgimento di attivita’ lavorativa e il cittadino dell’Unione europea” e quello presentato dai deputati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) ed altri n. G7.100, non posto in votazione ma accolto dal Governo come raccomandazione, impegnava l’esecutivo “a fare chiarezza, con estrema urgenza, su tale materia, anche intervenendo con un’ interpretazione autentica che espliciti che, ai lavoratori dei paesi terzi, regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale e titolari di permesso di soggiorno, occorre garantire parita’ di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani, secondo le norme espressamente previste ai sensi del Decreto Legislativo n. 286 del 1998, articolo 2, commi 2 e 3, “; gli intenti non si sono tuttavia tradotti allo stato in un intervento sostanzialmente modificativo di carattere normativo.
6. La restrizione sopra rilevata non e’ in contrasto con la normativa nazionale in tema di accesso al lavoro dei lavoratori extracomunitari, che trova la sua essenziale disciplina nel Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286, recante il Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.
Detto Testo unico infatti all’articolo 2, comma 3 prevede che “La Repubblica italiana, in attuazione della convenzione dell’OIL n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata con Legge 10 aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel suo territorio e alle loro famiglie parita’ di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani”, ma la disposizione espressamente ha ad oggetto la condizione del “lavoratore” ovvero della persona gia’ occupata, senza preoccuparsi delle condizioni di accesso al lavoro.
Di tali situazioni invece si occupa l’articolo 27 che, nell’ambito del titolo 3 che raccoglie la disciplina del lavoro dei cittadini stranieri extracomunitari, al terzo comma, nell’elencare le attivita’ che possono essere svolte in Italia e che non rientrano nel cosiddetto decreto-flussi afferma, quale norma di chiusura, che rimangono ferme le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attivita’.
Lo stesso Testo Unico manifesta peraltro e legittima l’esistenza di limitazioni per l’accesso a determinate categorie di impieghi. L’articolo 26 liberalizza infatti l’accesso al lavoro autonomo, ma a condizione che l’esercizio di tali attivita’ non sia riservato dalla legge ai cittadini italiani o a cittadini di uno degli Stati membri dell’UE. L’articolo 27 rinvia al regolamento di attuazione la disciplina di particolari modalita’ per il rilascio delle autorizzazioni al lavoro, dei visti di ingresso e dei permessi di soggiorno per lavoro subordinato per alcune categorie di lavoratori stranieri specificamente individuate, tra cui i lettori universitari di madre lingua, che appunto vengono assunti prescindendo dal requisito della cittadinanza e al comma 1, lettera r-bis, inserita dalla Legge 30 luglio 2002, n. 189, articolo 22, comma 1, lettera a), ha aggiunto alle tipologie di lavoratori gia’ previste la categoria degli infermieri professionali, da assumersi con contratto di lavoro subordinato presso strutture sanitarie pubbliche e private. L’articolo 37, poi, che consente l’iscrizione agli Ordini o Collegi professionali o negli elenchi speciali agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia in possesso dei titoli riconosciuti, sottolinea esplicitamente che cio’ avviene in deroga al requisito della cittadinanza.
Ne discende che tale normativa non puo’ sorreggere la tesi dell’esistenza di un principio generale di ammissione dello straniero non comunitario al lavoro pubblico.
Inoltre, l’articolo 43, in tema di “Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, al comma 2, lettera c) prevede che compie un atto di discriminazione “chiunque illegittimamente imponga condizioni piu’ svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalita’”, in tal modo qualificando discriminante non la restrizione dell’accesso all’occupazione tout court, ma solo quella che si configuri come illegittima, e quindi contraria alla normativa di legge.
7. Deve altresi’ dissentirsi dall’assunto secondo cui la norma sulla cittadinanza, vigente formalmente, sarebbe contrastante con un principio generale ormai acquisito dall’ordinamento nella parte in cui accorda la tutela antidiscriminatoria. Il Decreto Legislativo 9 luglio 2003, n. 215, Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parita’ di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, dispone in effetti all’articolo 3 che “Il principio di parita’ di trattamento senza distinzione di razza ed origine etnica si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed e’ suscettibile di tutela giurisdizionale, secondo le forme previste dall’articolo 4, con specifico riferimento, tra l’altro (lettera a)) all’accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione. La disposizione pero’ al comma 4 aggiunge che “Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalita’ legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari”, ed all’articolo 2, comma 2 richiama espressamente il disposto del Testo Unico n. 286 del 1998, articolo 43, commi 1 e 2, sopra esaminato, che vieta le discriminazioni in tema di accesso al lavoro se ed in quanto illegittime.
La disciplina richiamata conferma quindi in sostanza che la discriminazione e’ comportamento illecito, non configurabile se tenuto in esecuzione di disposizioni normative.
8. Il sistema desumibile dal complesso normativo sopra delineato non si pone neppure in contrasto con la normativa costituzionale.
Come gia’ affermato nella sentenza n. 24170 del 2006 sopra richiamata, non vi e’ dubbio che, tra gli aspetti giuridici dell’immigrazione extracomunitaria, la materia dell’accesso al lavoro si colloca nel quadro di regole di convivenza fra immigrati e cittadini, ovvero in quel complesso di norme che afferiscono al godimento dei diritti fondamentali. In questo ambito il diritto al lavoro (sancito dall’articolo 4 Cost.) e’ esso stesso diritto soggettivo, e comprende tanto la facolta’ di scelta ed esercizio dell’attivita’ professionale (offerta della forza-lavoro), quanto la possibilita’ di soddisfare il bisogno di accesso alle occasioni di lavoro (domanda della forza-lavoro).
Il diritto al lavoro garantito dall’articolo 4 Cost. costituisce tuttavia garanzia che la legislazione ordinaria, in modo non arbitrario e rispettoso dei valori costituzionali, ha il potere di precisare, richiedendo per talune attivita’ lavorative particolari condizioni e requisiti per la tutela di altri interessi parimenti meritevoli di considerazione (cfr., tra le numerose, C. cost. 441/2000). Ed in effetti, il lavoro pubblico subordinato, anche quello reso “contrattuale” dalla informa attuata dalle norme ora raccolte nel Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (che implica, al pari di quello in regime di diritto pubblico, la possibilita’ del conferimento della titolarita’ di funzioni pubbliche), costituisce una species del lavoro subordinato contrassegnato da elementi di peculiarita’, di cui i principali sono posti dagli articoli 97 e 98 Cost. e che sono la necessita’ del concorso pubblico (salvo le deroghe previste dalla legge) ed il principio secondo cui gli impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione (in tema di perdurante specialita’ del lavoro pubblico, pur dopo la cd. contrattualizzazione, si vedano, in particolare, Corte Cost. 313/1996; 309/1997, 89/2003,199/2003).
Vi e’ poi da considerare l’articolo 51 Cost., secondo cui tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. Si ritiene generalmente che l’intento dei costituenti fu di garantire che i fini pubblici fossero perseguiti e tutelati nel migliore dei modi, e di puntare per questo sui cittadini, nei quali si riteneva esistente una naturale compenetrazione dei fini personali in quelli pubblici; nondimeno, la formulazione della norma sembra offrire spunti per una lettura restrittiva del riferimento agli “uffici pubblici”, limitata cioe’ all’esercizio di attivita’ autoritative. Ma, anche ad accettare questa lettura riduttiva, sono le altre norme costituzionali sopra richiamate ad offrire sufficiente copertura alla disciplina ordinaria preclusiva dell’accesso al lavoro pubblico dei cittadini extracomunitari, nell’ambito di una scelta che qualifica speciale il lavoro pubblico e lo assoggetta a regolamentazione particolare.
Nell’ordinanza n. 139 del 2011 richiamata dalla ricorrente la Corte Costituzionale non ha peraltro imposto l’interpretazione favorevole all’accesso al pubblico impiego dei lavoratori extracomunitari regolarmente soggiornanti, ma ha provveduto a dichiarare la questione prospettata dal giudice a quo manifestamente inammissibile in quanto diretta del tutto impropriamente ad ottenere dalla Corte un avallo dell’interpretazione gia’ ritenuta dal rimettente come preferibile e costituzionalmente adeguata.
La precedente sentenza n. 454 del 1998 inoltre non si e’ occupata dell’impiego dei lavoratori extracomunitari alle dipendenze della Pubblica amministrazione, ma ha affermato che dalle disposizioni legislative in vigore si trae la conclusione, costituzionalmente corretta, della spettanza ai lavoratori extracomunitari, aventi titolo per accedere al lavoro subordinato stabile in Italia in condizioni di parita’ con i cittadini, e che ne abbiano i requisiti, del diritto ad iscriversi negli elenchi di cui alla Legge n. 482 del 1968, articolo 19 ai fini dell’assunzione obbligatoria. Da tale iscrizione pero’ – di cui e’ titolare la signora (OMISSIS) – non discende automaticamente, alla stregua delle esposte considerazioni, il possesso dei requisiti per l’accesso a qualunque impiego, e quindi anche a quello offerto dalle pubbliche amministrazioni.
Deve quindi concludersi che, diversamente da quanto avviene in tema di provvidenze assistenziali (in ordine alle quali la Corte Costituzionale con numerose sentenze – n. 306 del 2008, n. 11 del 2009, n. 187 del 2010, n. 329 del 2011 – ha rimosso significativi ostacoli che ne impedivano la fruizione da parte degli extracomunitari legalmente soggiornanti nel territorio nazionale), in tema di accesso al lavoro e’ lasciata al legislatore una piu’ ampia possibilita’ di contemperare opposte esigenze tutte costituzionalmente rilevanti. Se, quindi, nel lavoro privato opera pienamente la parita’ di trattamento tra cittadini italiani, comunitari ed extracomunitari, con riguardo agli impieghi pubblici trova spazio la valutazione della particolarita’ e delicatezza della funzione svolta alle dipendenze dello Stato (ed in particolare, nel caso in esame, del Ministero dell’Economia e delle Finanze che gestisce uno degli aspetti peculiari ed individualizzanti della politica nazionale), differenze che tutt’ora giustificano la preferenza per i cittadini italiani e, in virtu’ del particolare legame internazionale che lega l’Italia agli altri paesi della UE, per quelli comunitari e ad essi equiparati.
9. Neppure dalla richiamata normativa sovranazionale, sia nella sua diretta precetti vita che nella sua funzione di vincolo interpretativo di quella nazionale, puo’ desumersi un vincolo per la totale assimilazione dei cittadini extracomunitari a quelli nazionali e comunitari per l’assunzione nell’impiego pubblico.
La Convenzione OIL sui lavoratori migranti n. 143 del 1975 del 1975, che all’articolo 10 prevede che “Ogni Membro per il quale la convenzione sia in vigore s’impegna a formulare e ad attuare una politica nazionale diretta a promuovere e garantire, con metodi adatti alle circostanze ed agli usi nazionali, la parita’ di opportunita’ e di trattamento in materia di occupazione e di professione, di sicurezza sociale, di diritti sindacali e culturali, nonche’ di liberta’ individuali e collettive per le persone che, in quanto lavoratori migranti o familiari degli stessi, si trovino legalmente sul suo territorio”, costituisce norma programmatica che deve, per trovare attuazione, essere trasfusa nella legislazione nazionale. Peraltro, il successivo articolo 14, lettera e) consente agli Stati aderenti alla convenzione di respingere l’accesso a limitate categorie di occupazione e di funzioni qualora tale restrizione sia necessaria nell’interesse dello Stato.
10. La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, poi, prevede all’articolo 14 sotto la rubrica “Divieto di discriminazione”, che dev’essere assicurato senza nessuna discriminazione il godimento dei diritti e delle liberta’ riconosciuti nella Convenzione stessa, ma non nomina tra tali diritti quello all’accesso al lavoro.
11. Occorre poi rilevare che anche la normativa comunitaria, pur con le limitazioni che pone per gli stati membri, riconosce la peculiarita’ dell’impiego alle dipendenze della pubblica amministrazione, tanto che l’articolo 45 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (articolo 45 TFUE, gia’ articolo 39 TCE) nel sancire il principio della libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione europea, prevede al suo quarto comma un’eccezione relativamente “agli impieghi nella pubblica amministrazione”. Analogamente, l’articolo 51, comma 1, TFUE (ex articolo 45, comma 1, Trattato CE) dispone che le norme in materia di diritto di stabilimento non trovano applicazione alle “attivita’ che in tale Stato partecipino, sia pure occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri”.
12. Ne’, ancora, impone una diversa soluzione la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che all’articolo 15 sotto la rubrica “liberta’ professionale e diritto di lavorare” fa riferimento ai cittadini dei paesi terzi, dicendo che quelli che “sono autorizzati a lavorare nel territorio degli stati membri hanno diritto a condizioni di lavoro equivalenti a quelle di cui godono i cittadini dell’unione”, senza pero’ pronunciarsi sulle condizioni del loro accesso al lavoro ed all’articolo 21, pur vietando qualsiasi forma di discriminazione, al comma 2 fa riferimento al divieto di discriminazione basato sulla nazionalita’, precisando che esso opera “Nell’ambito d’applicazione dei trattati e fatte salve disposizioni specifiche in essa contenute”.
13. Quanto infine alla lamentata violazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilita’, si rileva che la censura non e’ pertinente alla ratio decidendi adottata dalla Corte d’appello, considerato che nel caso di specie non viene in discussione il diritto delle persone disabili ad essere impiegate nel settore pubblico, e che anzi il concorso cui la signora (OMISSIS) chiedeva l’ammissione era proprio diretto ad assumere cinque lavoratori disabili. L’esclusione non e’ quindi avvenuta in ragione della disabilita’, che anzi costituiva condizione di ammissione, ma della mancanza del prescritto requisito della cittadinanza.
3. Conclusioni.
In definitiva, in assenza di alcun riscontro normativo della tesi che sostiene l’esistenza di un principio generale di ammissione dello straniero non comunitario al lavoro pubblico, il ricorso dev’essere rigettato.
La delicatezza della questione proposta, l’importanza degli interessi coinvolti, il contrasto manifestatosi nella giurisprudenza di merito, nonche’ la difficolta’ dell’esame determinata dalle plurime stratificazioni normative, impongono la compensazione tra le parti delle spese processuali.
L’ammissione della ricorrente al gratuito patrocinio determina l’insussistenza dei presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dall’articolo 1 quater del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13 inserito dalla Legge n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17.
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