La responsabilità del preponente ai sensi dell’art. 2049 cod. civ. sorge per il solo fatto che il comportamento illecito del preposto sia stato agevolato o reso possibile dalle incombenze a lui demandate dal preponente, purché però il primo non abbia agito per finalità o scopi esclusivamente personali e del tutto avulsi dalle incombenze o da quello che è legittimo attendersi da lui e così al di fuori dell’ambito dell’incarico affidatogli, venendo meno in tal caso il nesso di occasionalità necessaria tra le prime ed il fatto illecito del preposto ed il danno

 SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE 

SEZIONE III CIVILE 

sentenza 9 giugno 2016, n. 11816

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –
Dott. DE STEFANO Franco – rel. Consigliere –
Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –
Dott. CURILLO Francesco Maria – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20954/2013 proposto da:
CONDOMINIO VIA (OMISSIS), in persona dell’amministratore pro tempore Avv. F.G., a tanto autorizzato con delibera assembleare del 16/5/13, elettivamente domiciliato in ROMA, VTA MONTE ZEBIO 37, presso lo studio dell’avvocato CECILIA FURITANO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati ALESSANDRO BERLIRI, PAOLO PIPERNO giusta procura speciale in calce al ricorso; – ricorrente –
contro
T.E., D.C. in proprio e nella qualità di erede di V.G., S.M.J. nella qualità di erede di V.G.; – intimati –
nonchè da:
T.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GALLIA 2, presso lo STUDIO ASSOCIATO BERTI, rappresentato e difeso dall’avvocato CESARE BERTI giusta procura speciale in calce al controricorso e ricorso incidentale, BERTI CESARE, in proprio, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GALLIA 2, presso lo STUDIO ASSOCIATO BERTI, difensore di sè medesimo; – ricorrenti incidentali

contro
CONDOMINIO VIA (OMISSIS), in persona dell’amministratore pro tempore Avv. F.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 37, presso lo studio dell’avvocato CECILIA FURITANO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati ALESSANDRO BERLIRI, PAOLO PIPERNO giusta procura speciale in calce al ricorso principale; – controricorrente al ricorso incidentale –
e contro
D.C. in proprio e nella qualità di erede di V. G., S.M.I. nella qualità di erede di V. G.; – intimate

avverso la sentenza n. 2417/2013 della CORTE D’APPELLO DI ROMA, emessa il 15/3/2013, depositata il 30/04/2013, R.G.N. 466/2005;
udita la relazione sulla causa svolta nella pubblica udienza del 19/04/2016 dal Consigliere Relatore Dott. FRANCO DE STEFANO;
udito l’Avvocato ALESSANDRO BERLIRI;
udito l’Avvocato CESARE BERTI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ANNA MARIA SOLDI, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo

p.1. – Per il risarcimento dei danni addotti come causatigli dalle gravissime lesioni seguite ad un violento colpo al viso infertogli il 24.6.94 da V.G., che rivestiva le funzioni di custode dello stabile condominiale di via (OMISSIS) in sostituzione di D.C. e mentre controllava le tubature nell’appartamento di quello stabile ove egli viveva, T.E. citò – con atto notificato il 25.10.94 – l’aggressore e, invocandone la responsabilità ai sensi dell’art. 2049 c.c., il Condominio.
L’adito tribunale di Roma, intervenuta in causa la D. ed all’esito di una complessa istruttoria anche tecnica, accolse la domanda nei confronti del solo V. e limitatamente alle modeste lesioni che ritenne direttamente legate da nesso causale con il violento colpo al viso sferrato dal convenuto, liquidando il relativo risarcimento in Euro 1.005 ed inoltre escludendo il nesso di occasionalità necessaria sulla cui base fondare la responsabilità anche del Condominio.
Tale sentenza, resa il 16.4.03, fu appellata dal danneggiato e, all’esito di un’ulteriore consulenza tecnica di ufficio, sostanzialmente riformata in suo favore. In particolare, riconosciuto tanto il nesso causale tra l’invalidità permanente totale residuata per la perdita del visus ad un occhio, sebbene già in condizioni non ottimali, quanto quello di occasionalità necessaria tra la condotta del V. e le mansioni di portiere, sia l’aggressore che il Condominio furono condannati al pagamento della somma di Euro 1.320.080,70, oltre interessi al tasso legale dalla data della pronuncia di appello al soddisfo, ivi compreso il solo danno patrimoniale differenziale dovuto al fatto che comunque l’evento dannoso contribuì ad aggravare la situazione e ad accelerare il calo del visus dell’occhio destro e a rendere non autonomo il danneggiato, che aveva già compromesso il visus dell’occhio sinistro.
Per la cassazione di tale ultima sentenza, pubblicata il 30.4.13 col n. 2417, ricorre il Condominio di via (OMISSIS), affidandosi a due motivi; degli intimati resiste con controricorso, dispiegando ricorso incidentale su due motivi, il T.; lo stesso Condominio ribatte al ricorso incidentale con controricorso apposito; non espletano attività difensiva gli altri intimati, D.C., in proprio e quale erede di V.G., nonchè altra erede di questi, S.M.I.. E, per la pubblica udienza del 19.4.16, sia il ricorrente principale che quello incidentale depositano, ai sensi dell’art. 378 c.p.c., memorie ad illustrazione delle rispettive difese.

Motivi della decisione

p.2. – Con un primo motivo il ricorrente principale Condominio di via (OMISSIS) lamenta “violazione dell’art. 2049 c.c., ed insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”.
Contesta il Condominio che, come affermato dalla corte di merito, dagli atti del giudizio in prime cure emergesse che il V. si trovasse nell’appartamento del T. su incarico dell’amministratore del Condominio e, riesaminate le prove orali, nega vi fosse un collegamento tra l’esercizio delle funzioni o mansioni di portiere e l’aggressione; precisato che tanto era emerso solo nel corso del procedimento penale, nel quale peraltro il Condominio stesso non era stato parte, nega poi la sufficienza della circostanza della qualità di portiere per la sussistenza della responsabilità del Condominio ai sensi dell’art. 2049 c.c..
Sul punto il ricorrente principale ricorda la ricostruzione dommatica di tale istituto e richiama la necessità ora di uno svolgimento della condotta dannosa pur sempre sotto il controllo del delegante, ora della concreta agevolazione di tale condotta in dipendenza delle mansioni svolte o consentite nell’organizzazione del datore di lavoro; analizza i precedenti posti dalla corte di merito a base della decisione, per escluderne la rilevanza nella specie, perchè riferiti ad un promotore finanziario o ad un dipendente di istituto di credito che avevano tratto vantaggio da un più o meno stabile inserimento nell’organizzazione della finanziaria o del datore di lavoro; rimarca come altri precedenti di legittimità abbiano escluso la responsabilità in parola quando il preposto abbia perseguito finalità proprie alle quali il committente non fosse neppure mediatamente partecipe od interessato, oppure quando la condotta lesiva sia commessa al di fuori dell’espletamento delle mansioni o dell’ambito dell’incarico; sottolinea l’imputabilità del fatto a pregressi rancori personali tra le parti; esclude la riconducibilità del rapporto di lavoro di portierato a quello organico con l’amministratore del condominio piuttosto che a quello di mandato, con conseguente impossibilità per il mandante – a sua volta mandatario dei singoli condomini di vigilare sull’operato del mandatario; evidenzia come perfino un incarico dell’amministratore non avrebbe costituito la sola situazione specifica che avrebbe consentito o agevolato un contatto tra aggredito e aggressore; e conclude escludendo la sussistenza di un qualunque nesso di occasionalità necessaria tra mansioni di portierato e lesioni cagionate dal portiere.
Il T., dal canto suo, eccepita l’inammissibilità del mezzo di censura per carente indicazione della violazione di legge e per invocazione del testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ormai abrogato, ripercorre il materiale probatorio per ribadire che l’intervento del V. ebbe luogo su incarico dell’amministratore, escludendo infine il vizio motivazionale anche alla stregua del previgente testo dell’art. 360 c.p.c..
p.2.1. Pur essendo chiaramente inammissibile una censura di “insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia” nei confronti di una sentenza pubblicata in data successiva a quella di applicabilità del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, quale risultante dalla formulazione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con modif. dalla L. 7 agosto 2012, n. 134: e tanto in forza della disciplina transitoria, di cui al medesimo art. 54 cit., comma 3, il motivo può comunque essere scrutinato nel merito se unitariamente inteso come vizio di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta disciplinata dall’art. 2049 c.c., e, quindi, appunto come falsa applicazione di tale norma ai sensi dell’art. 360, n. 3.
p.2.2. Giova premettere che il fatto, senza che possa rilevare alcuna questione che si pretenda di sollevare o perfino documentare in questa sede, è stato ricostruito dalla corte territoriale, all’esito di un evidente apprezzamento di fatto scevro da vizi logici o giuridici di immediata percepibilità, siccome basato sulla complessiva (benchè invero sintetica) interpretazione delle risultanze istruttorie tra loro comparate (come riportate da entrambe le parti, oltretutto, anche nel ricorso principale e nel controricorso del ricorrente incidentale) e non solo dei mezzi di prova assunti per la prima volta nel primo grado, ma anche degli atti di un procedimento penale intercorso in parte tra altri, i quali ben possono offrire elementi di valutazione se adeguatamente offerti al contraddittorio di tutti i soggetti del giudizio civile e se resi oggetto di adeguata critica valutazione.
E l’elemento determinante della fattispecie sta in ciò, che il V. ha aggredito il T. nell’appartamento dove quest’ultimo viveva e dove si era recato per verificare il funzionamento di tubature e quindi nell’espletamento di mansioni generalmente riconducibile a quelle di un portiere – o assimilato di un edificio condominiale: corrisponde invero a nozioni di comune esperienza che, salvo improbabili (ma allora espresse e da provare rigorosamente) disposizioni contrarie, il portiere usualmente sia chiamato ad un primo sopralluogo nell’immediatezza della segnalazione di guasti ad impianti che potrebbero coinvolgere strutture condominiali, ovviamente e beninteso con l’obbligo di immediato coinvolgimento dell’amministratore – o di chi per lui competente per legge o per regolamento condominiale – per l’attivazione di ogni opportuno intervento sulle medesime, specie se urgente o se relativo a potenziali pericoli per l’incolumità o la fruibilità quotidiana dell’immobile in proprietà esclusiva (come nella specie, trattandosi di tubature idriche).
p.2.3. Deve però valutarsi se i principi elaborati da questa Corte siano stati applicati in modo corretto ad una tale fattispecie per affermare la responsabilità del Condominio quale committente o datore di lavoro e se, quindi, possa escludersi una falsa applicazione dell’art. 2049 c.c., in quanto norma correttamente interpretata, ma applicata ad una fattispecie che non doveva sussumersi entro la sua previsione: e può fin d’ora rilevarsi che una fattispecie come quella ricostruita nella specie non può ricondursi entro la norma applicata, per avere il carattere esclusivamente personale dello scopo perseguito dal danneggiante – nel senso che si va a spiegare – reciso ogni collegamento con la sfera giuridica patrimoniale del “padrone o committente”.
p.2.4. In materia di art. 2049 c.c., può dirsi consolidata la giurisprudenza di legittimità (Cass. 16 maggio 2012, n. 7634, ripresa in buona parte anche da Cass. 19 giugno 2012, n. 10032, ove ulteriori riferimenti e richiami di precedenti della giurisprudenza di questa Corte regolatrice, tra cui: Cass. 22 giugno 2007, n. 14578, Cass. 6 marzo 2008, n. 6033, Cass. 11 febbraio 2010, n. 3095, Cass. 27 giugno 2011, n. 14086; più di recente, negli stessi termini, v.
pure, tra le altre: Cass. 26 giugno 2015, n. 13229; Cass. 4 novembre 2014, n. 23448, richiamata anche dal ricorrente incidentale nella sua memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.) secondo la quale:
– i “padroni e committenti” sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti;
– la responsabilità del preponente ai sensi dell’art. 2049 c.c., sorge per il solo fatto dell’inserimento di colui che ha posto in essere la condotta dannosa nell’organizzazione del preponente medesimo, senza che assumano rilievo nè la continuità dell’incarico affidatogli, nè l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato:
basta che il comportamento illecito del preposto sia stato agevolato o reso possibile dalle incombenze a lui demandate dal preponente e che il preposto abbia svolto la sua attività sotto il controllo del primo, atteso che colui che nell’adempimento delle proprie obbligazioni si avvale dell’opera di terzi, ancorchè non alle sue dipendenze, risponde anche dei fatti dolosi o colposi dei medesimi;
– in altri termini, ai fini dell’applicabilità della norma di cui all’art. 2049 cod. civ., non è richiesto l’accertamento del nesso di causalità tra l’opera del preposto e l’obbligo del preponente, nonchè della sussistenza di un rapporto di subordinazione tra l’autore dell’illecito ed il preponente medesimo e del collegamento dell’illecito stesso con le mansioni svolte dal preposto, essendo sufficiente, per il detto fine, un rapporto di occasionalità necessaria, nel senso che l’incombenza disimpegnata abbia determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l’evento dannoso, anche se il dipendente (o, comunque il collaboratore dell’imprenditore) abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze, purchè sempre nell’ambito dell’incarico affidatogli, così da non configurare una condotta del tutto estranea al rapporto di lavoro.
2.5. E’ ben vero che non esclude la responsabilità neppure la condotta criminosa e nemmeno quando l’agente abbia ecceduto dai limiti delle proprie attribuzioni o all’insaputa del datore di lavoro o del preponente (Cass. 22 settembre 2015, n. 18691; Cass. 4 aprile 2013, n. 8210; Cass. 12 marzo 2008, n. 6632; Cass. 25 marzo 2013, n. 7403); ma tale concetto, proprio nell’ambito dell’elaborazione giurisprudenziale dell’istituto, deve essere adeguatamente inteso.
Già in sede penale ed ai fini dell’affermazione della responsabilità civile da reato, tuttavia, la giurisprudenza di legittimità rimarca da tempo la necessità di riferirsi allo scopo ultimo perseguito dal preposto con la sua condotta (Cass. pen., 22 settembre 1998, imp. Curcio): venendo infatti ribadito in quella sede che la responsabilità civile per il reato sussiste quando l’agente abbia commesso l’illecito sfruttando comunque i compiti svolti, anche se oltre i limiti delle sue incombenze e persino se ha violato gli obblighi a lui imposti (Cass. pen., sez. 3^, 5 giugno 2013, n. 40613, P.), ma escludendosi detto rapporto quando il dipendente, nello svolgimento delle mansioni affidategli, commette un illecito penale per finalità di carattere esclusivamente personale (Cass. pen., sez. 6^, 27 marzo 2013, n. 26285, A.) di fatto sostituite a quelle del preponente ed, anzi, in contrasto con queste ultime (tra le più recenti: Cass. pen., sez. 6^, 4.6/9.11.15, n. 44760, Cantoro ed a.).
p.2.6. Il concetto di finalità non esclusivamente personale del preposto, la quale si sovrappone a quelle di ordine economico e giuridico che hanno comportato e sorretto il suo inquadramento nell’organizzazione del preponente, quale indefettibile condizione di operatività dell’istituto della responsabilità di quest’ultimo, è però insito – a ben guardare – pure nella ricostruzione della giurisprudenza civilistica: ed invero, il fatto che la responsabilità del preponente possa sussistere anche se il preposto abbia operato oltrepassando i limiti delle proprie mansioni o abbia agito all’insaputa del primo non consente di ritenere operativa la previsione dell’art. 2049 c.c., quando il fatto illecito sia avvenuto senza il benchè minimo collegamento funzionale con l’attività lavorativa (Cass., ord. 30 giugno 2015, n. 13425), ovvero quando la condotta abbia risposto ad esigenze meramente personali dell’agente (Cass. 13 novembre 2011, n. 14096; Cass. 22 agosto 2007, n. 17836; Cass. 25 marzo 2013, n. 7403, ha escluso, degradandola a mera occasione non necessaria, la circostanza dell’accadimento di un’aggressione sul luogo di lavoro da parte di un superiore), avulse quindi dal suo inserimento nell’organizzazione del preposto.
Insomma, impedisce la configurabilità della responsabilità in esame l’assoluta estraneità della condotta del preposto alle sue mansioni e compiti (confermando la conclusione sul punto dei giudici di merito, peraltro per motivi di rito: Cass. 18 giugno 2015, n. 12611; Cass. 6 giugno 2014, n. 12828), quand’anche deviate o distorte: esigendosi in ogni caso almeno la possibilità di ricollegare, anche solo indirettamente, la condotta dannosa del preposto alle attribuzioni proprie dell’agente (Cass. 10 ottobre 2014, n. 21408; Cass., 29 dicembre 2011, n. 29727) o all’ambito dell’incarico affidatogli (Cass. 9 aprile 2014, n. 8372, con richiami a: Cass. 24 gennaio 2007, n. 1516; Cass. 22 agosto 2007, n. 17836). Occorre cioè (Cass. 10 dicembre 1998, n. 12417; in precedenza, fra le altre, Cass. 18 gennaio 1990, n. 223) che il preposto abbia perseguito finalità coerenti con quelle in vista delle quali le mansioni gli furono affidate e non finalità proprie alle quali il committente non sia neppure mediatamente interessato o compartecipe.
p.2.7. Tanto risponde alla ratio stessa del secolare istituto, ricostruito, dalla migliore dottrina contemporanea, come ipotesi di vera e propria responsabilità oggettiva indiretta, in quanto la legge non consente alcun tipo di prova liberatoria a carico di padroni e committenti o preponenti, al contrario di quanto previsto – ad esempio – dagli artt. 2048 e 2051 cod. civ., sicchè la responsabilità in esame prescinde del tutto da una culpa in eligendo o in vigilando del datore di lavoro o preponente ed è quindi insensibile all’eventuale dimostrazione dell’assenza di colpa (Cass. 16 marzo 2010, n. 6325; Cass. 29 agosto 1995, n. 9100); e tanto in estrinsecazione del principio cuius commoda eius et incommoda, secondo il quale del danno causato dal dipendente deve rispondere colui che normalmente trae vantaggio dal rapporto con il preposto.
Se questa è la giustificazione di una simile responsabilità, è evidente che le condotte del preposto le cui conseguenze possa sopportare il preponente debbono essere in qualche modo collegate alle ragioni, anche economiche, della preposizione e ricondursi al novero delle normali potenzialità di sviluppo di queste, se del caso considerate alla stregua dell’ordinaria responsabilità per colpa collegata alla violazione dell’altrui affidamento.
E’, in tal senso, significativo che la più recente giurisprudenza abbia precisato (Cass. 23448/14, cit.) che l’automatismo dell’insorgenza della responsabilità del preponente si attenua a mano a mano che la condotta del preposto si allontana dalle mansioni e dalle incombenze, tanto che l’art. 2049 c.c., può trovare applicazione per l’operatività dell’ulteriore principio dell’apparenza del diritto circa la corrispondenza della condotta alle mansioni ed incombenze: vale a dire, all’ulteriore duplice condizione della buona fede incolpevole del terzo danneggiato e di un atteggiamento colposo del preponente, desumibile dalla mancata adozione delle misure ragionevolmente idonee, in rapporto alla peculiarità del caso, a prevenire le condotte devianti del preposto.
In tal modo, però, il preponente viene a rispondere, in caso di superamento dei limiti delle funzioni o mansioni del preposto, in applicazione del diverso principio dell’apparenza e, quindi, sostanzialmente per fatto proprio e non più per quella ragione oggettiva della preposizione prevista dalla sola norma dell’art. 2049 c.c..
p.2.8. Ed allora di una condotta posta in essere senza alcun nesso funzionale, nemmeno potenziale e quand’anche deviato rispetto a quello lecito, con le mansioni e quindi con le ragioni, anche economiche, della preposizione non può essere chiamato a rispondere il preponente, quando appunto quella, se rispondente a fini esclusivamente personali dell’agente, non possa ricondursi al novero delle potenziali condotte normalmente estrinsecabili nell’esercizio delle sue funzioni dal preposto, o, in alternativa, a condotte l’affidamento sulla cui imputabilità al preponente derivi da colpa di quest’ultimo.
p.2.9. Nessuno di questi requisiti ricorre nella fattispecie ricostruita dalla corte di appello. Sferrare un pugno ad un condomino o ad un inquilino dell’edificio condominiale causandogli lesioni personali gravissime, non attenuate ed anzi aggravate dalla pregressa situazione di evidente infermità della vittima – non rientra certamente nelle mansioni o funzioni del portiere, nè corrisponde al normale sviluppo di sequenze di eventi connessi all’ordinario espletamento di queste ultime.
E che l’accesso all’abitazione del T. sia avvenuto in funzione di un’attività in astratto riconducibile alle stesse (l’ispezione delle tubature, per escludere guasti a quelle comuni o limitare i danni da quelle producibili) costituisce a tutto concedere appunto una mera occasione, ma che non ha agevolato in alcun modo la violenta e brutale aggressione da parte del V.: aggressione che, come correttamente sottolinea il ricorrente principale, bene avrebbe potuto aver luogo in qualunque altra circostanza, neppure essendo mai stato allegato che la spendita della qualità di portiere abbia consentito all’aggressore di vincere particolari cautele della vittima oppure di sorprenderla oppure ancora di porre in essere l’aggressione; al contrario rendendo l’incontestabile violenza e brutalità dell’aggressione evidente l’estraneità di una tale, benchè certamente esecrabile, condotta alle mansioni o funzioni del preponente.
E tanto meno può sostenersi che l’aggressione del condomino o dell’inquilino rientri, nemmeno sotto forma di degenerazione od eccesso però non impossibili, tra quelle condotte esclusivamente personali che normalmente ci si può attendere da chi espleta le funzioni di portiere, diversamente, ad esempio, da quanto può accadere per altre categorie di preposti, quali coloro che sono a guardia degli ingressi o incaricati della sicurezza di locali pubblici o aperti al pubblico: non rientrando appunto nelle mansioni del portiere alcuna ipotesi di coazione fisica sulle persone che si trovano nell’edificio condominiale.
L’art. 2049 c.c., è stato quindi falsamente applicato, perchè la sua previsione non può trovare applicazione alla fattispecie come ricostruita in fatto dai giudici del merito; e tanto in conformità al seguente principio di diritto: la responsabilità del preponente ai sensi dell’art. 2049 c.c., sorge per il solo fatto che il comportamento illecito del preposto sia stato agevolato o reso possibile dalle incombenze a lui demandate dal preponente, purchè però il primo non abbia agito per finalità o scopi esclusivamente personali e del tutto avulsi dalle incombenze o da quelle che è legittimo attendersi da lui e così al di fuori dell’ambito dell’incarico affidatogli, venendo meno in tal caso il nesso di occasionalità necessaria tra le prime ed il fatto illecito del preposto ed il danno.
p.2.10. In conclusione, va esclusa la responsabilità del Condominio per il fatto doloso del portiere – o altro dipendente o assimilato nel corso dello svolgimento delle relative mansioni quando la relativa condotta sia del tutto avulsa dalle mansioni affidate e l’espletamento di quelle abbia costituito una mera occasione non necessaria per la condotta.
E l’esclusione del titolo di responsabilità del Condominio ai sensi dell’art. 2049 c.c., comporta de plano l’infondatezza di ogni pretesa del soggetto leso nei confronti di quello e, con essa, l’accoglimento del primo motivo di ricorso principale, con cassazione della condanna del Condominio.
p.2.11. Inoltre, poichè con tutta evidenza non sono necessari altri accertamenti di fatto, è poi possibile decidere la causa nel merito quanto alla domanda del T. per il risarcimento dei danni avanzata pure nei confronti del Condominio: riconoscendone l’infondatezza e quindi rigettandola, beninteso salvo ed anzi passato in giudicato l’accertamento di responsabilità del V. e, per quel che si vedrà, anche la condanna al risarcimento nella misura accertata dalla corte territoriale, ma – in dipendenza della reiezione della pretesa verso il Condominio soltanto nei confronti di quest’ultimo, ovvero delle sue eredi.
p.3. – Con il secondo motivo il ricorrente principale Condominio di via (OMISSIS) si duole di “omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio relativamente al mancato esame delle risultanze della consulenza tecnica di parte ex art. 360 c.p.c., n. 5”.
In particolare, si duole il Condominio dell’erroneità od infedeltà del rilievo, nel corso delle operazioni peritali del giorno 11.6.12, della pressione oculare nell’elaborato peritale (che sarebbe stata, contrariamente a quanto risultante dal verbale, rilevata nell’occhio destro in un dato allarmante, anzichè di quello in concreto riportato), quale motivo determinante della non imputazione dell’esito di invalidità totale ad una causa preesistente, anzichè alla condotta del V..
Ribatte analiticamente il T., sia invocando la pubblica fede sulle asserzioni del consulente di ufficio in ordine alle misurazioni della pressione oculare, sia riproducendo tesi ed argomenti sviluppati sul punto in secondo grado, sia ricordando il contenuto di una certificazione del 7.2.13.
Peraltro, l’accoglimento del primo motivo di ricorso principale, col conseguente rigetto delle domande dispiegate dal T. nei confronti del Condominio per difetto del titolo di responsabilità invocato, in uno al difetto di impugnazione sul punto ad opera degli altri destinatari della condanna all’ingente risarcimento (e, cioè e in sostanza, delle eredi del V.), comporta l’evidente assorbimento della doglianza, relativa all’identificazione del nesso causale tra i fatti – di cui comunque il qui ricorrente Condominio non dovrà rispondere – e le lesioni patite dall’infortunato.
p.4. – Può passarsi all’esame del ricorso incidentale, nella parte in cui le relative domande possono ritenersi ancora rivolte almeno contro l’autore materiale del fatto e, ora, contro le sue eredi.
Con il primo motivo i ricorrenti incidentali T.E. e B. C. lamentano “violazione e falsa applicazione degli artt. 2056, 1223 e 1226 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, e “omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di un punto decisivo per il giudizio, rappresentato dalla domanda di liquidazione del danno patrimoniale subito dal ricorrente incidentale a causa della totale perdita della sua capacità lavorativa specifica”.
Lamenta il T. l’irrisorietà della liquidazione del danno patrimoniale, nonostante le conclusioni del c.t.u. M. in primo grado sulla grave incidenza delle lesioni sulla capacità lavorativa specifica di esso ricorrente incidentale quale imprenditore e di tutte le altre in cui sia richiesto l’uso della vista, attesi i postumi invalidanti permanenti del 75% per la perdita pressochè totale del visus all’occhio destro. In particolare, ricorda il ricorrente incidentale di avere articolato prova per testi nelle conclusioni dell’atto di appello, a sostegno della domanda di condanna ad un risarcimento totale di almeno Euro 5 milioni, di cui almeno Euro (8.600 + 1.226.902,37 + 235.500 + 180.000 =) 1.651.002,37 per danni patrimoniali, oltre i debiti maturati per il mantenimento della moglie separata e per le necessità delle tre figlie, oltretutto affette da problemi di salute, nonchè oltre i debiti verso l’Erario per imposte, tutti dovuti alla forzata interruzione della sua attività lavorativa in dipendenza del gravissimo infortunio patito. E, rimarcata la differenza tra danno da lesione della capacità lavorativa generica e da lesione della capacità lavorativa specifica, deduce l’evidente insufficienza della liquidazione in soli Euro 200.000 dei danni patrimoniali da parte della corte del merito.
Nel controricorso al ricorso incidentale il Condominio di via (OMISSIS) eccepisce l’inammissibilità del motivo per impropria commistione di doglianze ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ma poi contesta la fondatezza della domanda, sia per l’insufficienza delle prove addotte, sia per la già rilevata necessità di limitare il risarcimento ad un periodo di pochi anni ancora, corrispondente a quello per il quale si sarebbe protratta l’autonomia, già seriamente minata, del danneggiato.
p.4.1. Il motivo è inammissibile, perchè con esso il ricorrente incidentale fa valere un vizio di omessa pronuncia su di un motivo di appello, che non trascrive adeguatamente, adducendo una violazione o falsa applicazione di legge o un omesso esame di punto decisivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, oltretutto omettendo di trascrivere integralmente nel ricorso incidentale l’atto di appello nella parte in cui avrebbe non solo formulato le istanze istruttorie e le conclusioni, ma anche articolato le ragioni del gravame che avrebbe riproposto con la comparsa conclusionale.
E’ noto al riguardo che “il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi; pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del primo comma dell’art. 360 c.p.c., con riguardo all’art. 112 c.p.c., all’imprescindibile condizione, però, che il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge” (Cass. Sez. Un., 24 luglio 2013, n. 17931; Cass. 31 ottobre 2013, n. 24553). Così, soltanto se dall’articolazione del motivo fosse chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato la sua erronea intitolazione non osterebbe alla riqualificazione della sua sussunzione in altre fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nè determinerebbe l’inammissibilità del ricorso (Cass., ord. 20 febbraio 2014, n. 4036).
p.4.2. Ora, già prima dell’intervenuta riforma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, applicabile al caso di specie per quanto sopra argomentato, “nel giudizio per il risarcimento dei danni il ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che nulla abbia statuito sul danno da riduzione della capacità lavorativa non può dedurre il difetto di motivazione sul danno patrimoniale, ma deve prospettare, a pena di inammissibilità, il vizio di omessa pronuncia su un motivo di appello, previa trascrizione dello stesso, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)”, (Cass. 12 dicembre 2014, n. 26155).
E a tale conclusione deve pervenirsi nella specie, visto che nessuna conseguenza in termini di nullità della gravata sentenza che, si badi, espressamente identifica come solo danno patrimoniale richiesto dal T. quello per le spese sostenute per una badante e accompagnatrice dal luglio 1994 e per altri dieci anni al tempo della sentenza di appello (v. pag. 10 della gravata sentenza, quinto periodo) – viene fatta espressamente od idoneamente derivare dalla mancata presa in considerazione delle specifiche domande che si assume siano state sottoposte al giudice di secondo grado.
p.4.3. Ancora, tale domanda pretermessa non risulta idoneamente – in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, dal tenore testuale ricorso incidentale, nel quale non sono trascritti i passaggi dell’atto di appello in cui quella, articolata sulle ragioni del gravame e sulle conclusive richieste, sarebbe stata sottoposta tempestivamente alla corte di merito: visto che neppure nel rito applicabile alla fattispecie, cioè quello anteriore alla riforma di cui alla legge 353/90 per essere il giudizio in primo grado iniziato prima del 30.4.95, le domande potevano essere modificate con le comparse conclusionali e tanto meno in appello.
p.5. – Con il secondo motivo i ricorrenti incidentali T.E. e Cesare Berti deducono “omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, e conseguente omesso accoglimento della domanda contenuta nelle conclusioni finali rassegnate e ritrascritte nella comparsa conclusionale, di liquidazione delle spese del giudizio in favore dell’avv. B.C., che se ne è dichiarato antistatario”.
Sul punto, è fondata l’eccezione di inammissibilità sviluppata dal ricorrente principale nel controricorso in replica al ricorso incidentale: è da tempo (anche anteriore alla proposizione del ricorso incidentale) consolidato il principio in forza del quale “in caso di omessa pronuncia sull’istanza di distrazione delle spese proposta dal difensore, il rimedio esperibile, in assenza di un’espressa indicazione legislativa, è costituito dal procedimento di correzione degli errori materiali di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c., e non dagli ordinari mezzi di impugnazione, non potendo la richiesta di distrazione qualificarsi come domanda autonoma (ritenendo la procedura di correzione, oltre che in linea con il disposto dell’art. 93 c.p.c., comma 2, – che ad essa si richiama per il caso in cui la parte dimostri di aver soddisfatto il credito del difensore per onorari e spese – in grado di consentire il migliore rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo e di garantire con maggiore rapidità lo scopo del difensore distrattario di ottenere un titolo esecutivo: Cass. Sez. Un., 7 luglio 2010, n. 16037; Cass. 10 gennaio 2011, n. 293; Cass. 28 gennaio 2014, n. 1771; Cass. 11 aprile 2014, n. 8578; Cass., ord. 24 luglio 2014, n. 16959; Cass. 20 giugno 2014, n. 14091; Cass. 30 ottobre 2014, n. 23075; Cass., ord. 16 aprile 2015, n. 7749; Cass., ord. 24 febbraio 2016, n. 3566).
p.6. – In conclusione, mentre il ricorso incidentale va dichiarato inammissibile, di quello principale va accolto il primo motivo, con assorbimento del secondo e decisione nel merito secondo quanto indicato al precedente p.2.11.
p.7. – Quanto alle spese sulla domanda dispiegata dal T. nei confronti del Condominio, ritiene il Collegio sussistano giusti motivi per un’integrale compensazione – in applicazione dell’art. 92 c.p.c., nel testo anteriore alla riforma di cui alla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. a), (applicabile ratione temporis in relazione alla data di inizio in primo grado del giudizio: ottobre 1994) – in riferimento a tutti i gradi di giudizio, ravvisandoli nella particolare complessità della vicenda, caratterizzata dalla delicatezza delle indagini tecniche rese necessarie e dall’alterno andamento delle opzioni ermeneutiche nei gradi di merito sulla questione dirimente, nonchè nella relativa novità della questione in ordine all’esatta delimitazione dell’ambito di applicazione dell’art. 2049 c.c., in caso di condotta dolosa del sottoposto del tutto avulsa dalle mansioni affidate o legittimamente attese.
Non vi è luogo a provvedere, invece, sulle spese del giudizio di legittimità nei rapporti tra il T. e le D.- S., atteso che queste non hanno qui svolto attività difensiva e che il primo è tecnicamente soccombente sull’impugnazione da lui proposta.
p.8. – Trova infine applicazione – mancando ogni discrezionalità al riguardo (Cass. 14 marzo 2014, n. 5955) – il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione: norma in forza della quale il giudice dell’impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che definisce quest’ultima, a dare atto della sussistenza dei presupposti (rigetto integrale o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) per il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da lui rispettivamente proposta, a norma del detto art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte:

– accoglie il primo motivo di ricorso principale, assorbito il secondo;
– dichiara inammissibile il ricorso incidentale;
– cassa la gravata sentenza e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di T.E. nei confronti del Condominio di via (OMISSIS);
– compensa tra i ricorrenti principale e incidentale le spese dell’intero giudizio;
– ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modif. dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del solo ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso da lui proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 aprile 2016.

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