Suprema Corte di Cassazione
S,U.P.
sentenza 28 luglio 2015, n. 33040
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SANTACROCE Giorgio – Presidente
Dott. CHIEFFI Severo – Consigliere
Dott. FRANCO Amedeo – Consigliere
Dott. CONTI Giovanni – Consigliere
Dott. AMORESANO Silvio – Consigliere
Dott. FUMO Maurizio – Consigliere
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco – Consigliere
Dott. PICCIALLI Patrizia – Consigliere
Dott. FIDELBO Giorgio – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato in (OMISSIS);
avverso la sentenza del 16/05/2013 del Tribunale di Perugia;
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
sentita la relazione del componente Dott. Giorgio Fidelbo;
lette le richieste dell’Avvocato generale (OMISSIS), che ha concluso per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con la trasmissione degli atti al giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Perugia per l’ulteriore corso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza pronunciata in data 16 maggio 2013, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Perugia disponeva, ai sensi dell’articolo 444 cod. proc. pen., l’applicazione nei confronti di (OMISSIS) della pena di due anni e otto mesi di reclusione e 14.000 euro di multa per la detenzione illecita di alcuni panetti di hashish, per un peso lordo complessivo di kg. 4,5.
La pena per il reato di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 1-bis, era cosi’ calcolata: pena-base, sei anni di reclusione e 27.000 euro, di multa; ridotta, per effetto della concessione delle circostanze attenuanti generiche, a quattro anni di reclusione e 18.000 euro di multa; ulteriormente diminuita, in ragione del rito prescelto, nella misura sopra riportata.
2. L’imputato, per mezzo del suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi:
– vizio di motivazione in ordine all’affermata insussistenza di cause di proscioglimento, ai sensi dell’articolo 129 cod. proc. pen.;
– erronea applicazione dell’articolo 240 cod. pen. e articolo 444 cod. proc. pen. nonche’ mancanza di motivazione riguardo alla disposta confisca del denaro, che il giudice ha ritenuto “profitto/prezzo del reato” senza alcuna dimostrazione che la somma fosse provento di attivita’ delittuosa.
3. Con ordinanza emessa in data 8 gennaio 2015 la Settima Sezione penale ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite ai sensi dell’articolo 618 cod. proc. pen., rilevando l’esistenza di contrasti interpretativi all’interno della Corte di cassazione, collegati agli effetti prodotti dalla sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale del Decreto Legge 30 dicembre 2005, n. 272, articoli 4-bis e 4-vicies ter, inseriti, in sede di conversione, dalla Legge 21 febbraio 2006, n. 49, determinando la reviviscenza della precedente disciplina in materia di stupefacenti e ponendo al giudice penale una serie di problematiche relative alla rideterminazione della pena, anche in sede di “patteggiamento”, in considerazione del trattamento sanzionatorio piu’ favorevole previsto per le droghe c.d. leggere dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73 nella formulazione originaria precedente la citata Legge n. 49 del 2006.
In particolare, la Sezione rimettente ha individuato due differenti questioni su cui vi sarebbe contrasto: a) la prima riguarda la possibilita’ di rilevare d’ufficio l’illegalita’ della pena a seguito della declaratoria d’incostituzionalita’ pronunciata con la sentenza n. 32 del 2014 in presenza di un ricorso per cassazione inammissibile; b) la seconda concerne i poteri del giudice di legittimita’ di rideterminare la pena applicata con sentenza di “patteggiamento” in relazione alle droghe c.d. leggere, anche nel caso in cui il trattamento sanzionatorio rientri nella cornice edittale ripristinata per effetto della citata pronuncia della Corte costituzionale.
4. Nella sua requisitoria scritta il Procuratore generale, dato atto del contrasto interpretativo sorto all’interno della Corte di cassazione, ha concluso ritenendo che l’illegalita’ della pena conseguente alla dichiarazione di illegittimita’ costituzionale delle norme relative al trattamento sanzionatorio e’ rilevabile d’ufficio anche in caso di ricorso inammissibile; inoltre, ha sostenuto che l’illegalita’ della pena determina il venir meno dell’accordo, basato su “un quadro normativo superato e sulla scorta del quale le parti si sono determinate”; cio’ anche nel caso in cui la pena applicata rientri nella nuova cornice edittale. Ne consegue che anche la sentenza di “patteggiamento” deve essere considerata nulla, con la necessita’ di rimettere le parti nella situazione antecedente al patto, al fine di consentire un eventuale nuovo accordo sulla base dei limiti edittali vigenti.
5. Il Primo Presidente, con decreto del 9 gennaio 2015, ha assegnato – ex articolo 618 cod. proc. pen. – il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione in camera di consiglio ai sensi dell’articolo 611 cod. proc. pen. l’odierna udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Le questioni di diritto rimesse alle Sezioni Unite sono le seguenti:
– “se sia rilevabile d’ufficio, nel giudizio di cassazione, l’illegalita’ della pena conseguente a dichiarazione d’incostituzionalita’ di norme attinenti al trattamento sanzionatorio, anche in caso di inammissibilita’ del ricorso”;
– “se per i delitti previsti dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, in relazione alle droghe c.d. leggere, la pena applicata con sentenza di “patteggiamento” sulla base della normativa dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale debba essere rideterminata anche nel caso in cui la stessa rientri nella nuova cornice edittale applicabile”.
Entrambi i quesiti attengono alla legalita’ della pena come conseguenza degli effetti della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, che ha abrogato il Decreto Legge n. 272 del 2005, articoli 4-bis e 4-vicies ter, inseriti nella legge di conversione n. 49 del 2006, determinando la reviviscenza del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73 nell’originaria formulazione, che prevede sanzioni piu’ miti per le droghe c.d. leggere.
Si tratta, quindi, di tematiche riguardanti il trattamento sanzionatorio”, inoltre, il primo quesito pone l’ulteriore problema del rapporto tra pena illegale e ricorso inammissibile.
Per ragioni di semplificazione dell’esposizione la questione sul carattere illegale della pena a seguito della pronuncia di incostituzionalita’ precedera’ l’altra sulla rilevabilita’ d’ufficio della pena illegale in presenza di un ricorso inammissibile, la cui soluzione e’ in parte condizionata dal primo quesito.
2. Occorre prendere le mosse dagli effetti prodotti dalla pronuncia di incostituzionalita’ cui si e’ fatto riferimento.
La sentenza n. 32 del 2014 ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale degli articoli 4-bis e 4-vicies ter cit., con i quali era stata radicalmente modificata la normativa in tema di sostanze stupefacenti e psicotrope, contenuta nel Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309.
L’incostituzionalita’ e’ stata affermata per la violazione dell’articolo 77 Cost., comma 2, avendo la Corte costituzionale riscontrato un “difetto di omogeneita’, e quindi di nesso funzionale, tra le disposizioni del decreto-legge e quelle impugnate, introdotte dalla legge di conversione”, difetto che ha interrotto il “legame essenziale” tra decreto-legge e legge di conversione. In sostanza, si e’ rilevato come una riforma particolarmente incisiva in materia di disciplina degli stupefacenti, che ha comportato delicate scelte di natura politica, giuridica e scientifica, e’ stata introdotta solo in sede di conversione, con una totale disomogeneita’ rispetto al contenuto del decreto-legge, in aperta violazione della funzione tipica della legge di conversione, che ha condotto le Camere ad agire in una “situazione di carenza di potere”.
La sentenza della Corte costituzionale ha sottolineato come tale eterogeneita’ delle disposizioni aggiunte con la legge di conversione ha determinato un vizio attinente alla stessa formazione del processo legislativo, sicche’ gli articoli 4-bis e 4-vicies ter devono ritenersi “adottati in carenza dei presupporti per il legittimo esercizio del potere legislativo di conversione” e, quindi, costituzionalmente illegittimi.
Ne consegue che, trattandosi di vizio procedurale riguardante la formazione della legge, i due articoli incostituzionali sono stati considerati inidonei ad “innovare l’ordinamento e, quindi, ad abrogare la precedente normativa”, per cui la disciplina contenuta nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 torna ad applicarsi nella versione precedente alla novella del 2006, non essendosi prodotto alcun effetto abrogativo.
Si realizza, nell’impostazione seguita dalla Corte costituzionale, il fenomeno della reviviscenza della precedente normativa.
In questo modo deve considerarsi pienamente vigente l’originario testo del menzionato Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, derivante dalla Legge 26 giugno 1990, n. 162, articolo 14, caratterizzato da una netta distinzione della risposta sanzionatoria, a seconda che le condotte illecite abbiano ad oggetto le cosiddette droghe pesanti, inserite nelle tabelle 1 e 3, per le quali e’ prevista al comma 1 la reclusione da otto a venti anni e la multa da euro 25.822 a euro 258.228, ovvero le droghe cosiddette leggere, previste nelle tabelle 2 e 4, punite al comma 4 con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 5.164 a euro 77.468.
Risulta invece “abrogata” l’intera riforma contenuta nella novella del 2006 che, all’articolo 4-bis, modificando l’articolo 73 del Decreto del Presidente della Repubblica cit, aveva unificato il trattamento sanzionatorio per le condotte illecite di produzione, traffico e detenzione di stupefacenti, sopprimendo ogni distinzione basata sulla diversa natura delle sostanze droganti e prevedendo al comma 1 la reclusione da sei a venti anni e la multa da euro 26.000 a euro 260.000 e che, con l’articolo 4-vicies ter era intervenuta sul sistema tabellare disciplinato dai previgenti Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articoli 13 e 14, raggruppando all’interno di un’unica tabella tutte le sostanze stupefacenti o psicotrope precedentemente articolate in distinte tabelle.
Il riacquistato, anche se indiretto, rilievo della distinzione tra droghe “leggere” e droghe “pesanti” comporta che per l’illecita detenzione di hashish e marijuana non si applicano piu’ le stesse sanzioni previste per gli oppiacei e la cocaina, ma le piu’ miti sanzioni previste dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 4 nella sua formulazione originaria ed e’ evidente come per i procedimenti in corso concernenti le droghe “leggere” si ponga il problema dell’applicazione della disciplina penale piu’ favorevole. Infatti, la Corte costituzionale riconosce espressamente al giudice comune, quale interprete delle leggi, il compito di gestire gli effetti della sentenza di incostituzionalita’, individuando la norma penale da applicare all’imputato.
3. Il problema che si e’ immediatamente posto alla Corte di cassazione, con riferimento ai processi in corso i cui fatti-reato sono stati commessi nella vigenza della Legge n. 49 del 2006, e’ se la pena determinata sulla base delle norme dichiarate incostituzionali dalla sentenza n. 32 del 2014, che ha determinato la reviviscenza delle norme precedenti, e’ illegale solo nel caso in cui vengono superati i rinnovati limiti edittali massimi delle pene, ovvero anche qualora tali limiti vengono formalmente rispettati.
Piu’ precisamente, il tema e’ quello relativo alla possibilita’ o meno di configurare l’illegalita sopravvenuta della pena nel caso in cui il giudice di merito abbia utilizzato per il calcolo i parametri edittali non piu’ in vigore, perche’ previsti dalla norma attinta dalla censura di incostituzionalita’ ovvero se ed in che termini la sanzione in concreto inflitta, anche ove rientrante nella ripristinata forbice sanzionatoria, puo’ considerarsi ancora “legale” e, in caso di ravvisata illegalita’, a chi spetti il compito di rideterminare la pena ed, eventualmente, entro quali limiti.
La questione si e’ posta in relazione sia alle sentenze di condanna sia a quelle di applicazione concordata della pena, per le quali occorre specificamente verificare se possa rientrare nel concetto di “pena illegale” la quantificazione concordata dalle parti sulla base di una piattaforma sanzionatoria non piu’ attuale perche’ dichiarata incostituzionale a seguito di intervento abrogativo del giudice delle leggi. Il risultato finale dell’accordo, infatti, potrebbe risultare spesso macroscopicamente differente, in peius, rispetto a quello che si sarebbe raggiunto applicando i limiti edittali nuovamente in vigore dopo l’intervento demolitorio per le cosiddette “droghe leggere”, tenuto conto che e’ per queste che si e’ determinata la reviviscenza di un trattamento sanzionatorio piu’ favorevole per il reo, contrariamente a quanto, invece, accaduto per le “droghe pesanti”. Infatti, per i reati riguardanti tali droghe potranno continuare a trovare applicazione le norme contenute nella Legge n. 49 del 2006 la’ dove piu’ favorevoli rispetto alla disciplina ripristinata, ritenendo cosi’ operante per i fatti c.d. concomitanti le norme ancorche’ dichiarate incostituzionali: in questi casi l’efficacia retroattiva dell’annullamento conseguente alla pronuncia costituzionale non spiega effetti e residua un’applicazione dell’articolo 2 cod. pen. ai soli fini dell’individuazione della norma piu’ favorevole per l’imputato.
Su questi aspetti si sono registrati i contrasti nella giurisprudenza di questa Corte segnalati nell’ordinanza di remissione.
3.1. Con riferimento alla configurabilita’ della illegalita’ sopravvenuta della pena nelle sentenze di condanna, anche a seguito di giudizio abbreviato, non ancora divenute irrevocabili la Corte di cassazione si e’ pronunciata in senso favorevole ad una necessaria rivisitazione del trattamento sanzionatorio. In particolare, si e’ affermato che la norma affetta da un radicale vizio del procedimento legislativo, quale e’ stata valutata quella incriminatrice di cui al modificato articolo 73 a seguito della novella del 2006, non solo cessa di avere efficacia (articolo 136, primo comma, Cost.), ma perde anche l’idoneita’ ad abrogare la disciplina precedente, che rivive, di talche’ deve ritenersi applicabile la normativa piu’ favorevole, prevista nella stesura originaria contenuta nel Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e conseguentemente valutarsi non piu’ legittima la determinazione della sanzione operata nel caso concreto con riferimento alla sanzione prevista dalla norma incostituzionale.
In questi casi la Corte di cassazione ha disposto l’annullamento finalizzato alla rideterminazione della pena, ritenendo il mutamento normativo non paragonabile a quello tenuto presente al momento della pronuncia di merito e tale da realizzare un sostanziale ridimensionamento dello stesso disvalore penale del fatto. L’evidenziato mutamento della forbice edittale applicabile comporta l’assoluta necessita’ di una rimodulazione del trattamento sanzionatorio complessivo nella considerazione che il giudice, nel determinare la pena, normalmente valuta sia il limite minimo che quello massimo; con la conseguenza che, mutato il parametro di riferimento, il giudice del merito deve inderogabilmente esercitare il potere discrezionale conferitogli dagli articoli 132 e 133 cod. pen.
In questo senso: Sez. 6, n. 15157 del 20/03/2014, La Rosa, Rv. 259253; Sez. 6, n. 14984 del 05/03/2014, Costanzo, Rv. 259355; Sez. 6, n. 14995 del 26/03/2014, Lampugnano, Rv. 259359; Sez. 4, n. 21064 del 14/05/2014, Napoli, Rv. 259382; Sez. 3, n. 25176 del 21/05/2014, Amato, Rv. 259396; Sez. 3, n. 26340 del 25/03/2014, Di Maggio, Rv. 260058; Sez. 6, n. 39924 del 23/09/2014, Grisorio, Rv. 260711; Sez. 6, n. 21609 del 04/04/2014, Poggi; Sez. 6, n. 21614 del 29/04/2014, Corino; Sez. 4, n. 22282 del 06/05/2014, Guarnieri; Sez. 6, n. 22283 del 06/05/2014, Bishataj; Sez. 6, n. 23009 del 20/03/2014, Reynoso; Sez. 4, n. 27621 del 28/05/2014, Agnello; Sez. 4, n. 49704 del 04/11/2014, El Wali; Sez. 4, n. 49727 del 06/11/2014, Forzanti.
La pena e’ stata ritenuta illegale non solo in presenza di una pena-base determinata in misura superiore ai sei anni di reclusione, cioe’ della pena edittale massima prevista dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 4, cosi’ come rivissuto a seguito della sentenza di incostituzionalita’, ma anche nei casi in cui il giudice di merito e’ partito da una pena ricompresa nei nuovi limiti edittali, cioe’ tra i due e i sei anni: in queste decisioni la Corte di cassazione non ha operato alcuna distinzione tra le due diverse situazioni, che ha sottoposto al medesimo trattamento, disponendo sempre l’annullamento con rinvio della sentenza per la rideterminazione della pena secondo i nuovi criteri edittali.
3.2. Del tutto minoritario l’orientamento secondo cui la reintroduzione di un trattamento sanzionatorio di maggior favore per le droghe leggere, per effetto della sentenza costituzionale, non determina di per se’ l’illegalita’ sopravvenuta della pena inflitta, in quanto occorre considerare la motivazione con cui il giudice di merito ha giustificato la quantificazione della sanzione, sicche’ in presenza di una motivazione esaustiva non puo’ essere applicata automaticamente una sanzione inferiore. In questo senso, Sez. 3, n. 27957, del 12/06/2014, Tirocchi, Rv. 25957 che ha ritenuto adeguata la pena di due anni, otto mesi di reclusione e 12.000 euro di multa per la detenzione illecita di gr. 1929 di marijuana, perche’ giustificata dal fatto che da tale sostanza potevano ricavarsi 5.787 dosi, sicche’ anche la pena base di anni sei di reclusione, pur nella consapevolezza che rappresentava il massimo edittale del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, nuovo articolo 73 come rivissuto a seguito della sentenza costituzionale n. 32 del 2004, e’ stata reputata non illegale. In termini anologhi anche Sez. 4, n. 47278 del 25/09/2014, Bronzino, Rv. 260734, seppure in quest’ultimo caso il principio affermato risulta condizionato dalla peculiarita’ della fattispecie, relativa alla detenzione congiunta di droghe leggere e droghe pesanti.
3.3. Non diverso, anche se presenta aspetti peculiari, il panorama della giurisprudenza di legittimita’ con riguardo alle sentenze di applicazione concordata della pena, questione rilevante in questa sede.
Secondo un primo orientamento, che allo stato sembra maggioritario, il giudice deve annullare senza rinvio le sentenze di patteggiamento che, per il reato di detenzione di sostanze stupefacenti cosiddette leggere, ratificano una accordo sulla base della pena calcolata con i parametri edittali previsti dalla disciplina dichiarata incostituzionale e cio’ in considerazione della reintroduzione di un trattamento sanzionatorio di maggior favore per l’imputato, in conseguenza della reviviscenza dell’originario articolo 73 prima della novella del 2006.
Anche in queste sentenze l’annullamento senza rinvio viene disposto sia nell’ipotesi in cui la pena applicata risulta eccedente rispetto al limite edittale massimo reintrodotto per effetto della sentenza di incostituzionalita’ n. 32 del 2014 (in questo senso, Sez. 4, n. 22326 del 10/04/2014, Monaco, Rv. 259374; Sez. 3, n. 27426 del 16/05/2014, Devcic, Rv. 259394; Sez. 4, n. 22330 del 06/05/ 2014, Iantorno; Sez. 3, n. 24884 del 15/05/2014, Abousaad; Sez. 3, n. 24886 del 15/05/2014, Bulla; Sez. 3, n. 27705 del 15/05/2014, Ghannami; Sez. 4, n. 28165 del 28/05/2014, Tarik; Sez. 4, n. 2201 del 24/06/2014, dep. 2015, Giacomelli), sia nel caso in cui la stessa si rivela rispettosa anche della nuova forbice sanzionatoria (cosi’, Sez. 4, n. 21085 del 14/05/2014, Manfre’, Rv. 259386; Sez. 3, n. 21259 del 03/04/2014, Marku Irido, Rv. 259384; Sez. 3, n. 26346 del 22/05/2014, Lamagna, Rv. 259398; Sez. 4, n. 49528 del 21/10/2014, Leonardi, Rv. 261069; Sez. 4, n. 49755 del 24/10/2014, Damiano; Sez. 4, n. 2221 del 14/10/2014, Moghaddamy).
In entrambe le ipotesi le decisioni riportate hanno fatto riferimento esclusivamente alla pena-base risultante dall’accordo ratificato dal giudice, non alla pena finale. Inoltre, si afferma che il contenuto dell’accordo non sarebbe stato lo stesso se non fosse stata vigente la normativa dichiarata ora incostituzionale e, quanto meno, il computo non sarebbe partito da una pena-base che all’epoca corrispondeva al minimo ed oggi, invece, rappresenta il massimo edittale.
In alcuni casi si considera che la reviviscenza di un trattamento di maggior favore per il reo comporta l’illegalita’ della sanzione applicata, in quanto calibrata su una previsione edittale che, non distinguendo tra droghe c.d. “leggere” e droghe c.d. “pesanti”, risulta ormai superata dalla richiamata declaratoria di incostituzionalita’ e dalla conseguente reviviscenza del precedente e piu’ favorevole regime sanzionatorio (Sez. 4, n. 49528 del 21/10/2014, Leonardi, cit); in altri casi, si rileva che avendo le parti indicato come pena-base detentiva quella minima prevista, vale a dire sei anni di reclusione, poiche’ tale pena corrisponde, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale, a quella massima prevista dalla normativa originaria, di cui non si e’ mai verificato l’effetto abrogativo, la sentenza deve essere annullata, con trasmissione degli atti al tribunale territorialmente competente per l’ulteriore corso, essendo rimessa alla valutazione delle parti il persistente interesse ad un nuovo patteggiamento (Sez. 3, n. 26346 del 22/05/2014, Lamagna, cit.); sotto una diversa prospettiva, si evidenzia che la radicale modifica del quadro normativo di riferimento, impone la valutazione delle situazioni giudicate ed oggetto di ricorso davanti alla Corte di cassazione alla luce del principio di eguaglianza e di quelli relativi alla successione di leggi nel tempo dettati dall’articolo 2 c.p., comma 4, nonche’ dall’articolo 7, par. 1, CEDU, secondo cui l’imputato ha diritto di beneficiare della legge penale successiva alla commissione del reato, che prevede una sanzione meno severa di quella stabilita in precedenza, fino a che non sia intervenuta sentenza passata in giudicato (Sez. 4, n. 49755 del 24/10/2014, Damiano, cit., che ha disposto la trasmissione degli atti al tribunale territorialmente competente per un nuovo giudizio, ritenendo le parti reintegrate nella facolta’ di rinegoziare l’accordo su altre basi e dovendo il giudizio proseguire nelle forme ordinarie in mancanza dell’accordo).
In una decisione, particolarmente articolata sul tema della legalita’ della pena (Sez. 3, n. 21259 del 03/04/2014, Marku Irido, cit.), si sostiene che nel caso in cui la mitigazione del trattamento sanzionatorio subentri come frutto dell’accertamento di una illegittimita’ costituzionale (che e’ il caso in esame), non puo’ ritenersi conforme alla concessione della facolta’ di patteggiamento della sanzione – che il citato articolo 444 cod. proc. pen. attribuisce all’imputato nel senso di “premio” rappresentato dalla pena congrua piu’ mite – una scelta interpretativa che opti per una cristallizzazione anteriore al giudicato dell’accordo negoziale, quanto meno se l’imputato manifesta la volonta’ di fruire del sopravvenuto quadro normativo, cioe’ di un trattamento che gli era stato negato da una norma incostituzionale. Cio’, peraltro, non integra un recesso unilaterale dal negozio stipulato, recesso che non e’ consentito in conformita’ ai generali principi negoziali – salva l’ipotesi che l’accordo sia contra legem: ma questa ipotesi, piu’ che recesso, costituisce impugnazione dell’erronea verifica effettuata dal giudice ratificante – bensi’, appunto, il dispiegamento del totale effetto ripristinatorio dell’accertamento della incostituzionalita’. In questa decisione si afferma infine che la sentenza di patteggiamento impugnata, in quanto in massima parte eterodiretta da un negozio processuale stipulato sulla base di un quadro normativo che si e’ successivamente appalesato costituzionalmente illegittimo quanto all’aspetto sanzionatorio, avendo la parte imputata manifestata la sua volonta’ di risoluzione del negozio, deve essere annullata senza rinvio, disponendosi la trasmissione degli atti al tribunale territorialmente competente per l’ulteriore corso del giudizio.
3.4. In senso contrario rispetto a questo indirizzo si pone Sez. 6, n. 1409 del 02/12/2014, dep. 2015, Minardi, Rv. 262403, che, sempre in tema di patteggiamento avente ad oggetto il reato di detenzione illecita di droghe cosiddette leggere, ha affermato che sussiste la illegalita’ sopravvenuta della pena solo quando la sentenza, pronunciata prima della nota dichiarazione di illegittimita’ costituzionale, faccia riferimento ad una sanzione incompatibile con i limiti edittali formalmente abrogati dalle disposizioni oggetto della pronuncia di incostituzionalita’ ed oggetto di reviviscenza per effetto di quest’ultima, limiti da verificare con riferimento alla pena-base oggetto dell’accordo. Infatti, nella specie, la Corte ha comunque annullato senza rinvio la sentenza di patteggiamento in quanto il giudice aveva fissato come pena detentiva-base una sanzione pari a sette anni di reclusione, e, quindi, superiore al massimo edittale “ripristinato”.
Nella sentenza si afferma che la decisione della Corte costituzionale n. 32 del 2014 determina la nullita’ della sentenza di patteggiamento relativa a droghe “leggere” soltanto nel caso in cui la pena-base concordata tra le parti ecceda i limiti edittali previsti dalla normativa antecedente alla legge di riforma dichiarata incostituzionale. In tal caso, il giudice che rileva la nullita’ non puo’ procedere alla rideterminazione della pena, ma deve rimettere le parti nella posizione processuale antecedente all’accordo, restando libere le parti medesime di concordare una nuova pena. Ove invece la pena base concordata in origine sia compresa entro i limiti edittali nuovamente vigenti, la sentenza della Corte costituzionale – che ha rilevato per il Decreto Legge 30 dicembre 2005, n. 272, articoli 4-bis e 4-vicies ter, convertito, con modificazioni, dalla Legge 21 febbraio 2006, n. 49, un vizio del procedimento, senza investire la congruenza delle pene introdotte con le norme relative – non produce alcun effetto sulla sentenza di patteggiamento, perche’ la stessa non puo’ considerarsi illegale.
In tale seconda ipotesi, la sentenza in esame configura un vizio della valutazione di congruita’ della pena, che si riflette sulla legittimita’ della sentenza e non sulla legalita’ della pena, riguardando la regolarita’ del provvedimento (sotto il profilo della motivazione) e non la disciplina sostanziale del trattamento sanzionatorio.
Considera, infatti, il Collegio decidente che la pena non puo’ essere “illegale in se'”, vale a dire sul piano del diritto sostanziale, sol perche’ applicata per mezzo di un provvedimento eventualmente erroneo; quest’ultimo puo’ essere suscettibile di sindacato ma non invalido in quanto applicativo di una pena sostanzialmente illegale. Tale sindacato e’ escluso nelle sentenze di patteggiamento, in ragione della particolare configurazione delle stesse e dei conseguenti limiti posti al sindacato sul merito e sulla motivazione del relativo giudizio di congruita’.
Una pena compresa entro la forbice edittale delle norme “ripristinate” dalla sentenza della Corte costituzionale non puo’ considerarsi illegale nel senso proprio del termine, pur condividendo l’opinione che debba essere assicurato nella massima misura possibile il diritto di ogni imputato all’applicazione della legge sopravvenuta piu’ favorevole, anche attraverso una considerazione assai riduttiva dei casi di giudicato parziale.
Alla luce delle considerazioni che precedono, la Corte ha affermato che, quando il negozio di patteggiamento abbia preso in considerazione un valore di pena compatibile con i limiti edittali ripristinati dalla Consulta (cioe’, in sostanza, sei anni di reclusione), la pena stessa non puo’ considerarsi illegale, e dunque non possa considerarsi nulla, per questa causa, la sentenza resa ex articolo 444 cod. proc. pen..
Occorre sottolineare che aderiscono a tale indirizzo, seppure senza offrire motivazioni cosi’ articolate, alcune decisioni della Settima Sezione, non massimate, che appunto hanno escluso l’illegalita’ della pena in presenza di un accordo tra le parti avente ad oggetto una sanzione ricompresa nei “nuovi” limiti edittali (cfr. Sez. 7, n. 24749 del 12/03/2014, Ali).
4. La soluzione indicata dalla sentenza Minardi e, in genere, da quegli orientamenti che negano l’illegalita’ della pena nel caso in cui essa sia compresa entro i limiti edittali nuovamente vigenti per effetto della sentenza di incostituzionalita’, non puo’ essere accolta.
Non convincono ne’ le premesse, che sembrano riferirsi ad una illegalita’ sopravvenuta che non coglie la specificita’ degli effetti della dichiarazione di incostituzionalita’, ne’ la prospettiva, che esclude l’illegalita’ in se’ della pena, assumendo che in realta’ si tratta di una patologia che attiene alla sentenza di patteggiamento, piu’ precisamente alla regolarita’ del procedimento sotto il profilo della motivazione.
Invero, la sentenza citata coglie nel senso quando rileva la particolarita’ della illegalita’ della pena che derivi dalla dichiarazione di illegittimita’ costituzionale, tuttavia sembra non tenere conto di due fattori rilevanti: il fenomeno prodotto dalla dichiarazione di illegittimita’ costituzionale, diverso negli effetti da quello della successione della legge nel tempo; la funzione della pena nel rapporto tra i limiti edittali fissati dal legislatore e l’applicazione in concreto da parte del giudice.
4.1. In relazione al primo profilo, non puo’ non rilevarsi che la stessa Corte costituzione ha da sempre evidenziato come i due istituti dell’abrogazione e della illegittimita’ costituzionale delle leggi “si muovano su piani diversi, con effetti diversi e con competenze diverse”. La norma abrogata a seguito di una legge successiva resta pienamente valida fino all’entrata in vigore della norma abrogante, mentre in caso di dichiarazione di illegittimita’ costituzionale la norma colpita viene eliminata con effetto ex tunc dall’ordinamento, rendendola inapplicabile ai rapporti giuridici, con conseguenze assimilabili a quelle dell’annullamento e con incidenza sulle situazioni pregresse, fatto salvo il limite del giudicato (Corte cost., sent. n. 127 del 1966). In questo senso, l’illegalita’ sopravvenuta, cui si riferiscono alcune sentenze, deve intendersi nel senso che la sentenza di dichiarazione di incostituzionalita’ “sopravviene” rispetto ai fatti, ma rilevando un vizio che e’ originario.
In particolare, e’ stato precisato come la declaratoria di illegittimita’ costituzionale “determinando la cessazione di efficacia delle norme che sono oggetto, impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che le norme stesse siano comunque applicabili anche ad oggetti ai quali sarebbero state applicabili alla stregua dei comuni principi sulla successione delle leggi nel tempo. Altro e’, infatti, il mutamento di disciplina attuato per motivi di opportunita’ politica, liberamente valutata dal legislatore, altro l’accertamento, ad opera dell’organo a cio’ competente, della illegittimita’ costituzionale di una certa disciplina legislativa: in questa seconda ipotesi, a differenza che nella prima, e’ perfettamente logico che sia vietato a tutti, a cominciare dagli organi giurisdizionali, di assumere le norme dichiarate incostituzionali a canoni di valutazione di qualsivoglia fatto o rapporto, pure se venuto in essere anteriormente alla pronuncia della Corte” (Corte cost., sentt. n. 49 del 1970; n. 139 del 1984).
Appare evidente che la norma dichiarata incostituzionale deve essere considerata “come mai esistita”, con la conseguenza di dover escludere il fenomeno della successione di leggi nel tempo, presupposto per l’applicazione dell’articolo 2 cod. pen..
Del resto anche le Sezioni Unite hanno, recentemente, ribadito la necessita’ di distinguere i fenomeni dell’abrogazione e della dichiarazione di illegittimita’ della legge, sottolineando che si pongono su piani diversi e producono effetti diversi, integrando il primo un fenomeno fisiologico dell’ordinamento giuridico ed il secondo, invece, un evento di “patologia normativa”, dal momento che, a differenza dell’effetto derivante dallo ius superveniens, inficia fin dall’origine la disposizione impugnata (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260695).
Se questi sono gli effetti della dichiarazione di illegittimita’ costituzionale, ne deriva che, per i processi in corso per reati in materia di stupefacenti commessi all’epoca della vigenza della Legge n. 49 del 2006, deve trovare applicazione necessariamente il Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73 nella sua originaria versione, proprio in quanto la disciplina incostituzionale deve ritenersi “come mai esistita”, con l’ulteriore corollario, evidenziato dalla stessa giurisprudenza costituzionale citata, che e’ fatto divieto al giudice di assumere le norme incostituzionali per qualsiasi canone di valutazione. Ebbene, un tale divieto deve ritenersi sia rivolto anche alla valutazione giudiziale relativa alla commisurazione della pena in base ai limiti edittali incostituzionali.
4.2. Quanto al secondo profilo si osserva che la giurisprudenza si riferisce alla pena illegale quando non corrisponde, per specie ovvero per quantita’ (sia in difetto che in eccesso), a quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice in questione, cosi’ collocandosi al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale.
L’ambito dell’illegalita’ della pena si riferisce anche ai classici casi di illegalita’ ab origine, costituiti, ad esempio, dalla determinazione in concreto di una pena diversa, per specie, da quella che la legge stabilisce per quel certo reato, ovvero inferiore o superiore, per quantita’, ai relativi limiti edittali (tra le tante, Sez. 6, n. 32243 del 15/07/2014, Tanzi, Rv. 260326; Sez. 6, n. 22136 del 19/02/2013, Nisi, Rv. 255729; Sez. 2, n. 20275 del 07/05/2013, Stagno, Rv. 255197).
In queste decisioni la Corte ha precisato come non configuri un’ipotesi di illegalita’ della pena il trattamento sanzionatorio che risulti complessivamente legittimo, anche se frutto di un vizio del percorso argomentativo attraverso il quale il giudice giunge alla conclusiva determinazione dell’entita’ della condanna.
Diversamente, con riferimento ad una pena inflitta extra o contra legem e’ stato ribadito come in tali casi essa debba essere rimossa non solo con i rimedi previsti in sede di cognizione, ma anche dal giudice di esecuzione, dopo il passaggio in giudicato della sentenza.
Il principio di legalita’ della pena informa l’intero ordinamento giuridico penale e trova un ulteriore conferma nell’articolo 7 CEDU in cui si afferma che “non puo’ essere inflitta alcuna pena superiore a quella che era applicabile al momento in cui il fatto e’ stato commesso”. Sicche’ il principio di legalita’ deve essere affermato non solo con riferimento al precetto penale, ma anche alla sanzione ad esso collegato.
L’articolo 25 Cost., comma 2, nel proclamare il principio della irretroattivita’ della norma penale, allo stesso tempo da fondamento legale alla potesta’ punitiva del giudice, che si esplica attraverso l’applicazione di una pena adeguata al fatto antigiuridico. Recentemente le Sezioni Unite hanno messo in rilievo che “se la garanzia della riserva di legge investe anche il trattamento sanzionatorio, in modo che il potere del giudice non si trasformi in arbitrio (…), a maggior ragione una pena che sia stata determinata in contrasto con il dato normativo si pone in palese violazione del precetto costituzionale” (Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, Basile).
Richiamando costantemente il principio di legalita’ della pena cosi’ come enunciato dall’articolo 1 cod. pen. nonche’ dall’articolo 25 Cost., comma 2, e ribadendo la sua portata generale, tale da essere applicato anche in sede di esecuzione, la Corte di cassazione ha sempre ritenuto illegale la pena non prevista dall’ordinamento giuridico oppure eccedente per specie e quantita’ il limite legale e ha precisato che tale principio, che vale sia per le pene detentive sia per le pene pecuniarie, vieta che una pena che non trovi fondamento in una norma di legge – anche se inflitta con sentenza non piu’ soggetta ad impugnazione ordinaria – possa avere esecuzione, essendo avulsa da una pretesa punitiva dello Stato (Sez. 1, n. 38712 del 23/10/2013, Villirillo, Rv 256879; Sez. 5, n. 809 del 29/04/1985, Rv. 169333).
In sostanza, la conformita’ a legge della pena deve essere costantemente garantita dal momento della sua irrogazione fino a quello della sua esecuzione (Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, Ercolano).
5. Invero, l’illegalita’ della pena deve misurarsi anche con la funzione che la pena stessa assolve.
Se i limiti edittali di pena astrattamente previsti rappresentano la valutazione di disvalore del fatto incriminato compiuta dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalita’ – seppure ancorata al limite della ragionevolezza – la pena concretamente inflitta esprime e, al contempo, “misura” il giudizio di responsabilita’ per un determinato fatto illecito.
E’ stato messo in evidenza come il mutamento del regime sanzionatorio avvenuto per effetto della dichiarazione di incostituzionalita’ che ha spazzato via l’intera riforma contenuta nella novella del 2006 sia stato avvertito in maniera drammatica, tanto da spingere una parte della giurisprudenza a superare la logica della retroattivita’ della lex mitior e a puntare ad un “piu’ radicale giudizio di illegalita’ della pena in precedenza inflitta” – anche nel caso in cui essa risulti compatibile con i valori edittali sopravvenuti – per assicurare, anche, “esigenze di carattere pratico ed equitativo” (cosi’, Sez. 6, n. 1409 del 02/12/2014, dep. 2015, Minardi).
E’ probabile che in alcune decisioni sia prevalsa un’esigenza di natura equitativa, tuttavia deve rilevarsi come, in questi casi, la valorizzazione dell’illegalita’ della pena trova piena giustificazione oltre che nel principio di legalita’ di cui all’articolo 1 cod. pen., articolo 25 Cost., comma 2, e articolo 7 CEDU, anche nel principio di proporzionalita’.
Infatti, nel valutare l’ambito entro cui puo’ parlarsi di illegalita’ della pena, che sia stata determinata nell’ambito dei nuovi limiti edittali indicati dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73 come ripristinato, non puo’ farsi a meno di riferirsi al principio di proporzione tra illecito e sanzione.
La Corte costituzionale ha osservato che il principio di uguaglianza “esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione della difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali” (Corte cost., sent. n. 409 del 1989), inoltre, al principio di proporzionalita’ si e’ fatto espresso riferimento nella sentenza che ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale del minimo edittale previsto per la fattispecie di oltraggio (Corte cost., sent. n. 391 del 1994), in cui si e’ ribadito che la finalita’ rieducativa della pena non e’ limitata alla sola fase dell’esecuzione, ma costituisce “una delle qualita’ essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue” e inoltre implica la presenza costante del “principio di proporzione” tra qualita’ e quantita’ della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra (Corte cost., sent. n. 313 del 1990 e, da ultimo, sent. n. 105 del 2014).
Le nuove comminatorie impongono necessariamente di riconsiderare la pena proprio in attuazione del principio di proporzionalita’, altrimenti verrebbe legittimata l’applicazione di una pena al di sopra della misura della colpevolezza. Del resto, anche secondo la dottrina questo principio si specifica in campo penale nella proposizione per cui una reazione per essere legittima deve essere proporzionata alla condotta offensiva.
Sicche’ la pena edittale deve, in linea di massima, risultare correlata alla gravita’ del fatto di reato, pur potendo risentire di altri imperscrutabili fattori (come, ad esempio, il bisogno di rassicurazione sociale ovvero le necessita’ politico-criminali contingenti).
In altri termini, la pena e’ costruita sulla gravita’ del fatto e giustificata da essa, nelle sue componenti oggettive (importanza del bene, modalita’ di aggressione, grado di anticipazione della tutela) e soggettive (grado di compenetrazione fatto-autore), come sua variabile dipendente: una distonia nel rapporto o addirittura uno iato tra i due fattori sarebbero costituzionalmente intollerabili.
Dunque, con la forbice edittale il legislatore esprime la sua valutazione sulla gravita’ del fatto di reato che decide di incriminare, della gravita’ in astratto, ovviamente, che e’ uguale per tutta la classe di fatti concreti riconducibili al precetto.
Il giudice vi riconosce una presa di posizione su tale elemento e nell’esercitare il suo potere discrezionale di commisurazione prosegue il “lavoro” affinandolo sui dati della realta’ del singolo caso concreto.
Pertanto, la valutazione del giudice nella commisurazione della pena ha come imprescindibile presupposto la valutazione del legislatore che, a sua volta, deve essere espressione di un corretto esercizio del principio di colpevolezza e di proporzionalita’.
Con riferimento a questi principi deve escludersi che possa essere conservata, in quanto legittima, sotto il profilo del principio costituzionale di proporzione tra offesa e pena, la pena determinata in relazione ad una cornice edittale prevista da una norma dichiarata incostituzionale e, quindi, inesistente sin dalla sua origine.
In tale quadro di riferimento, si pone poi l’ulteriore questione: se una pena determinata in riferimento ad una cornice edittale sostanzialmente mai esistita -in quanto contenuta in una norma dichiarata incostituzionale proprio nella sua parte sanzionatoria – possa considerarsi legale perche’ rientrante in una cornice edittale, quella ripristinata, che, tuttavia, sia espressione di una valutazione del legislatore del rapporto tra pena e offesa diverso da quello sotteso alla norma incostituzionale.
Invero, il ripristino della distinzione tra droghe c.d. pesanti e droghe c.d. leggere ha comportato, necessariamente, che il testo normativo del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73 sia oggi espressione di un diverso esercizio del principio di proporzione da parte del legislatore, di cui e’ manifestazione il diverso trattamento sanzionatorio vigente rispetto a quello previsto nella norma incostituzionale. Il diverso trattamento sanzionatorio conseguente a detta distinzione, presuppone un diverso esercizio del principio di proporzione da parte del legislatore, che finisce per incidere sulla funzione retribuiva e rieducativa della pena inflitta sulla base della norma dichiarata incostituzionale, anche nel caso in cui essa rientri nella nuova cornice edittale. E’ evidente che i diversi parametri incidano sulla valutazione effettuata dal giudice in sede di commisurazione della pena, sicche’ una volta modificati non e’ detto che la pena corrisponda al quantum di colpevolezza del reo nel caso concreto.
In un sistema penale orientato al principio di colpevolezza la sproporzione tra la pena inflitta in relazione ad una cornice edittale prevista da una norma incostituzionale (nel caso in esame, pena minima = sei anni di reclusione) e quella che, pur rientrando nella cornice edittale ripristinata, e’ comunque espressione di un diversa valutazione del rapporto tra pena e offesa (pena massima = sei anni di reclusione), rivela uno squilibrio della sanzione rispetto al quantum di colpevolezza accertato nel caso concreto e, quindi, compromette la stessa funzione che la pena dovrebbe costituzionalmente assolvere.
In tale prospettiva, il venir meno per contrarieta’ alla Costituzione – con efficacia ex tunc – della cornice edittale che ha guidato il giudicante nella delicata attivita’ di “misurazione della responsabilita’” finisce con il travolgere la stessa pena in concreto inflitta, vale a dire il “risultato finale” di detta misurazione, perche’, non essendo piu’ attuale il giudizio astratto di disvalore del fatto (essendosi modificata la forbice sanzionatoria edittale), la misurazione compiuta non traduce piu’ – per effetto del mutamento dei parametri di riferimento – ne’ coerentemente ne’ correttamente il giudizio di responsabilita’.
In altri termini, la valutazione di responsabilita’ del reo non risulta piu’ misurata “legalmente”, perche’ la risposta punitiva e’ stata elaborata sulla base di un compasso sanzionatorio incostituzionale, cosi’ da risultare alterato lo stesso giudizio di gravita’ del reato ai sensi e per gli effetti di cui agli articoli 132 e 133 cod. pen.. Invero, poiche’ la pena concretamente inflitta esprime la valutazione della responsabilita’ dell’imputato, essa non puo’ considerarsi ancora legale quando sono venuti meno – per effetto di una pronuncia di incostituzionalita’ – i parametri edittali che hanno guidato e determinato la sua commisurazione. L’impalcatura costruita dalla Costituzione e dal codice penale per l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio viene cosi’ completamente travolta e vanificata per il venir meno proprio di uno dei suoi presupposti fondanti, vale a dire la legalita’ della cornice edittale.
Nella specie tale illegalita’ si registra perche’ si e’ in presenza di una “successione patologica” di norme, che ha determinato la reviviscenza di un precedente trattamento sanzionatorio di maggior favore per il reo, quale effetto della dichiarazione di incostituzionalita’ di quello vigente all’epoca di pronuncia della sentenza di condanna. Tale aspetto presenta caratteri di indubbia e decisiva rilevanza, anche alla luce delle affermazioni che le Sezioni Unite hanno recentemente compiuto (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto).
La pena di cui si discute e’ stata inflitta in base ad una dosimetria non piu’ attuale, rectius, che non avrebbe mai dovuto essere applicata, in quanto contraria alla Costituzione e, dunque, secondo le stesse affermazioni formulate dalla Consulta, non sarebbe mai dovuta venire ad esistenza (e tanto indipendentemente dal motivo che ne ha determinato la censura di incostituzionalita’).
Invero, nella fattispecie in esame, la illegalita’ non dipende da un errore materiale ovvero di calcolo del giudicante, ma e’ la conseguenza dell’applicazione di una norma che e’ stata cancellata dall’ordinamento con efficacia ex tunc.
Concludendo sul punto, deve affermarsi che anche la pena applicata sulla base del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, nella versione modificata dalla novella del 2006, ma compresa entro la forbice edittale delle norme ripristinate dalla sentenza della Corte costituzionale e’ da considerare “illegale”. Tuttavia, in questo caso si tratta di una illegalita’ particolare, non solo perche’ non attiene ad un errore materiale nella determinazione della quantita’ o del tipo di sanzione, ma perche’ cio’ che e’ illegale non e’ la sanzione in se’, quanto l’intero procedimento di commisurazione giudiziale, che si e’ basato su criteri edittali incostituzionali e quindi mai esistiti, procedimento che ha portato, tra l’altro, all’applicazione di una pena in contrasto con il principio di proporzionalita’ e di colpevolezza.
6. Alle stesse conclusioni deve pervenirsi in relazione alla pena applicata su richiesta delle parti, in quanto le peculiarita’ caratterizzanti la “individuazione” della sanzione in questo rito speciale non comportano deroghe ai principi suindicati.
La fisionomia del rito sembra ormai avere trovato una consolidata sistemazione.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, facendo richiesta di applicazione della pena, l’imputato rinuncia ad avvalersi della facolta’ di contestare l’accusa, o, in altri termini, non nega la sua responsabilita’ ed esonera l’accusa dall’onere della prova; la sentenza che accoglie detta richiesta contiene quindi un accertamento ed un’affermazione implicita della responsabilita’ dell’imputato, e pertanto l’accertamento della responsabilita’ non va espressamente motivato (Sez. U, n. 5777 del 27/03/1992, Di Benedetto, Rv. 191134). D’altra parte, la sentenza che applichi la pena “patteggiata” non puo’ formare oggetto di ricorso per cassazione per mancanza di motivazione sui presupposti di fatto della responsabilita’ dell’imputato, poiche’ la sussistenza di essi viene da lui ammessa in modo implicito, ma univoco, nel momento stesso in cui egli richiede il patteggiamento o aderisce ad analoga richiesta del pubblico ministero (Sez. 6, n. 8719 del 21/05/1991, Grimaldi, Rv. 188084; Sez. 5, n. 4117 del 20/09/1999, Valarenzo, Rv. 214478).
Soprattutto a seguito degli interventi normativi di cui alla Legge n. 134 del 2003, che hanno modificato l’originaria figura del patteggiamento, deve riconoscersi che il rapporto tra pactum e giurisdizione ovvero tra la componente negoziale dell’istituto e il ruolo del giudice, non possa dirsi sbilanciato a favore del primo, nel senso che anche in questo rito l’accertamento che il giudice e’ chiamato a compiere assume un essenziale rilievo. Non si tratta di un vero e proprio giudizio, ma di un controllo che il giudice compie sull’intero progetto di decisione che deriva dall’accertamento del fatto compiuto dal pubblico ministero e accettato dall’imputato e che trova la sintesi nell’accordo sulla pena. In ogni caso e’ evidente il divario esistente tra l’accertamento compiuto da una sentenza di condanna dibattimentale e una sentenza di patteggiamento, in quanto diversa e’ la regola di giudizio da applicare e differente e’ lo stesso accertamento condotto dal giudice sulla questione di fatto. La giurisprudenza ha evidenziato come nel patteggiamento non sia richiesto un accertamento positivo della responsabilita’ penale, ma solo un accertamento negativo della non punibilita’, attraverso la constatazione della insussistenza delle cause di proscioglimento di cui all’articolo 129 c.p.p., comma 1. Tuttavia, mentre in relazione alla responsabilita’ il giudice puo’ limitarsi ad un accertamento negativo funzionale alla esclusione della sussistenza di cause di non punibilita’, la verifica in ordine alla correttezza della qualificazione giuridica, all’applicazione delle circostanze e alla congruita’ della pena impone un controllo positivo. In questi ultimi casi, l’estensione del controllo attribuito al giudice e’ pieno, non sommario e bilancia il contenuto negoziale del rito, come del resto ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza n. 313 del 1990 in cui, riconoscendo il ruolo determinante e non notarile del giudice nel controllo della pena nel “patteggiamento”, ha fatto esplicito richiamo all’articolo 27 Cost., comma 3, ribadendo il suo collegamento con il “principio di proporzione fra qualita’ e quantita’ della sanzione, da una parte, ed offesa, dall’altro”.
E’ nell’ambito di questo accertamento positivo che puo’ essere fatta valere o rilevata l’illegalita’ della pena, anche quando derivi – come nel caso in esame – da una successiva dichiarazione di illegittimita’ costituzionale di una norma cui consegua l’effetto di reviviscenza di norme precedenti.
Con riferimento alla diversa ipotesi di una disposizione piu’ favorevole che sopraggiunga all’accordo raggiunto dalle parti, ma preceda il pronunciamento della sentenza di patteggiamento, si e’ ritenuto che il giudice non possa applicare la pena concordata, ne’ procedere alla sua riduzione in conformita’ al piu’ mite trattamento sanzionatorio, ma debba soprassedere dall’applicare la pena e invitare le parti a un nuovo accordo o, in difetto, a proseguire nell’ulteriore corso della procedura (Sez. 6, n. 26976 del 10/04/2007, Gatti, Rv 237095; Sez. 4, n. 11209 del 02/02/2012, Marotti; Sez. 4, n. 15231 del 08/04/2015, Azzoli). In questi casi vi era stata la espressa richiesta dell’imputato di modificare la pena concordata e le sentenze citate hanno escluso che il patto intervenuto potesse essere modificato, precisando che tale richiesta dovesse intendersi come revoca del consenso ad esso prestato, ammissibile in quanto fondata sulla lex superveniens.
Deve darsi atto che secondo un diverso orientamento l’accordo tra l’imputato e il pubblico ministero costituisce un negozio giuridico processuale recettizio che, una volta pervenuto a conoscenza dell’altra parte e quando questa abbia dato il proprio consenso, diviene irrevocabile e non e’ suscettibile di modifica per iniziativa unilaterale dell’altra, in quanto il consenso reciprocamente manifestato con le dichiarazioni congiunte di volonta’ determina effetti non reversibili nel procedimento e pertanto ne’ all’imputato ne’ al pubblico ministero e’ consentito rimetterlo in discussione (cfr., Sez. 4, n. 38051 del 03/07/2012, Fiorentini, Rv 254367; Sez. 4, n. 38970 del 11/07/2012, Parascenzo, Rv 254371; Sez. 3, n. 39730 del 04/06/2009, Bevilacqua, Rv 244892; Sez. 1, n. 1066 del 17/12/2008, Quintano, Rv. 244139).
Ferma restando la problematica relativa al fenomeno della successione della legge piu’ favorevole, deve rilevarsi che la fattispecie in oggetto e’ diversa, in quanto la norma da applicare e’ determinata dalla dichiarazione di incostituzionalita’, che e’ intervenuta dopo che la sentenza di patteggiamento e’ stata deliberata. La sentenza ha, quindi, ratificato un accordo riguardante una pena che le parti hanno concordato sulla base di criteri edittali incostituzionali, indicando una pena non piu’ proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso. Richiamando la nozione di illegalita’ della pena, che si e’ sopra descritta, deve riconoscersi che l’accordo e’ oggettivamente viziato in quanto fondato su una pena a cui le parti sono addivenute utilizzando criteri e limiti edittali incostituzionali, nulla rilevando che la pena applicata rientri nei limiti edittali “rivissuti” per effetto della sentenza di incostituzionalita’.
L’irrilevanza della circostanza che la pena patteggiata rientri comunque nei “nuovi” limiti edittali e’ stata giustificata in relazione al fatto che lo scopo del patteggiamento della pena per l’imputato e’ quello di pervenire alla pena piu’ mite, seppure nei limiti dell’adeguatezza della fattispecie (Sez. 3, n. 21259 del 03/04/2014, Marku Irido), ma in realta’ cio’ che determina l’invalidita’ del patto non e’ tanto (o solo) l’interesse delle parti, in particolare dell’imputato, ma l’accertamento oggettivo in ordine alla legalita’ della pena. Accertamento che il giudice e in questo caso la Corte di cassazione deve fare in presenza di un ricorso riguardante un patteggiamento ratificato con riferimento ad una pena illegale.
7. L’illegalita’ della pena nel “patteggiamento” pone un’altra questione, quella della validita’ dell’accordo sottostante.
La giurisprudenza ha sempre ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione che proponga motivi concernenti la misura della pena, ma allo stesso tempo ha ritenuto che l’illegalita’ della pena applicata all’esito del “patteggiamento” rende invalido l’accordo concluso dalle parti e ratificato dal giudice, con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza che l’ha recepito, cosi’ reintegrando le parti nella facolta’ di rinegoziare l’accordo stesso su basi corrette.
Si tratta di un tema affrontato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione in relazione all’ipotesi, piu’ semplice rispetto a quella portata alla cognizione delle Sezioni Unite, dell’accordo che sin dall’origine abbia ad oggetto una pena illegale e che sia recepito in una sentenza non irrevocabile.
Invero, solo nell’ipotesi di mero errore materiale o di calcolo la Corte di cassazione ha ritenuto di potere autonomamente rettificare la pena oggetto dell’accordo, peraltro in presenza di elementi tali da consentire la riconoscibilita’ della reale volonta’ delle parti (Sez. 5, n. 44711 del 03/10/2003, Postiglioni, Rv. 227014; Sez. 4, n. 45160 del 04/10/2005, Raso, Rv. 232910).
Negli altri casi, la illegalita’ della pena ha sempre implicato l’esclusione della validita’ dell’accordo concluso fra le parti del processo e ratificato dal giudice, derivando da cio’ il corollario secondo cui anche la sentenza sarebbe inficiata, sicche’ il suo annullamento dovrebbe essere “senza rinvio in quanto le parti del processo potranno o meno rinegoziare l’accordo su altre basi e nel caso contrario (…) il procedimento dovra’ proseguire con il rito ordinario” (Sez. 1, n. 16766 del 07/04/2010, Ndyae, Rv. 246930).
Si e’ trattato di casi in cui la pena era stata determinata contra legem, ad esempio per avere applicato una pena in misura inferiore al minimo assoluto previsto dall’articolo 23 cod. pen. (Sez. 5, n. 46790 del 25//10/2005, Grifantini; Sez. 5, n. 40840 del 20/09/2004, Terzetti) o indicato come pena-base una pena inferiore a quella prevista come minimo edittale per il reato unito con il vincolo della continuazione (Sez. 5, n. 1411 del 22/09/2006, Braidich; Sez. 3, n. 34302 del 14/06/2007, Catuogno) ovvero individuato la pena applicata, in esito al cumulo ex articolo 81 cpv. cod. pen., con un valore inferiore al minimo fissato per il reato piu’ grave tra quelli in continuazione (Sez. 6, n. 44336 del 05/10/2004, Mastrolorenzi).
In termini di esclusione della validita’ dell’accordo avente ad oggetto una pena illegale si sono espresse anche, Sez. 6, n. 7952 del 07/01/2008, Pepini, Rv. 239082; Sez. 3, n. 1883 del 22/09/2011, La Sala, Rv. 251796; nonche’ Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibe, Rv. 247841, sentenze in cui si evidenzia come, a causa della invalidita’ dell’accordo, l’imputato debba essere rimesso nella posizione iniziale e, quindi, debba poter nuovamente scegliere se definire il processo nei suoi confronti con un nuovo accordo, ovvero con il rito ordinario, escludendo che la Corte di cassazione possa rettificare la pena illegale ai sensi dell’articolo 619 cod. proc. pen., in quanto il negozio processuale si e’ formato con riguardo ad una specifica quantificazione della sanzione e non puo’ presumersi un analogo consenso delle parti in riferimento ad una sanzione di diversa entita’ (Sez. 5, n. 46790 del 25/12/2010, Grifantini, Rv. 233033).
Nel caso in esame il tema della validita’ dell’accordo si pone a seguito di “fatti sopravvenuti”che hanno reso illegale una parte del suo oggetto.
Si tratta di comprendere se l’accordo che abbia originariamente fatto riferimento, quanto al suo oggetto, ad una pena legale, resti o meno valido a seguito di un fatto sopravvenuto, quale la dichiarazione di illegittimita’ costituzionale, che renda il suo oggetto non piu’, almeno in parte, legale.
Volendo utilizzare, con tutte le cautele necessarie, le categorie civilistiche puo’ dirsi che il caso non sembra attenere tanto ai vizi della volonta’ negoziale – atteso che, al momento in cui il negozio si perfeziona e viene recepito dal giudice, la dichiarazione delle parti e la volonta’ sottostante non e’ in nessun modo viziata -, ne’ al tema di una possibile rilevanza dei motivi individuali, per i quali la Corte di cassazione si e’ sempre espressa negativamente, quanto, piuttosto, alla persistente validita’ dell’oggetto del negozio, cioe’ alla invalidita’ strutturale sopravvenuta. La Corte di cassazione civile in piu’ occasioni si e’ espressa nel senso di ritenere nullo il contratto – o la singola clausola contrattuale – a seguito della declaratoria di illegittimita’ costituzionale della norma in applicazione della quale quel contratto o quella clausola siano negoziati (cfr., Sez. U civ., n. 21095 del 04/11/2004, Rv. 577944; Sez. 1 civ., n. 10599 del 19/05/2005, Rv. 582117).
Seguendo una prospettiva civilistica, Sez. 3, n. 21259 del 03/04/2014, Marku Irido, Rv. 259384, premesso che il negozio processuale tra imputato e pubblico ministero e’ assimilabile a un rapporto bilaterale a prestazioni corrispettive, ha ritenuto che la lettura degli articoli 444 c.p.c. e ss. deve essere improntata alla garanzia del trattamento premiale per l’imputato, sotteso all’istituto, e, dunque, alla tutela del suo interesse ad ottenere la piu’ mite delle sanzioni, nell’ambito ovviamente di quella congruita’ che colui che ratifica l’accordo, ovvero il giudice, ha il compito di verificare e che nel caso in cui la mitigazione del trattamento sanzionatorio subentri come frutto dell’accertamento di una illegittimita’ costituzionale, non puo’ ritenersi conforme alla concessione della facolta’ di patteggiamento della sanzione una scelta interpretativa che opti per una cristallizzazione anteriore al giudicato dell’accordo negoziale, quanto meno se l’imputato manifesta la volonta’ di fruire del sopravvenuto quadro normativo, cioe’ di un trattamento che gli era stato negato da una norma incostituzionale. Secondo la Corte e’ necessario assicurare “il dispiegamento del totale effetto ripristinatorio dell’accertamento della incostituzionalita’” e, come nel diritto civile, il mutamento dello stato dei fatti in cui e per cui il negozio e’ stato stipulato in una determinata forma e con un determinato regolamento negoziale deve condurre alla risoluzione del contratto stesso che abbia aggravato la posizione di una delle parti.
Sebbene attraverso diversi percorsi interpretativi l’indirizzo assolutamente prevalente nella giurisprudenza di legittimita’ giunge a ritenere che, nel caso di pena divenuta illegale, l’accordo e’ nullo.
Cosi’, Sez. 6, n. 6580 del 15/02/2000, Terranova, Rv. 217101, secondo cui al negozio processuale concluso dalle parti ai sensi dell’articolo 444 cod. proc. pen. non si applica la normativa che regola la rilevanza dell’errore nei negozi di diritto sostanziale, ma il regime della nullita’ degli atti processuali. La Corte nell’occasione ha affermato che, qualora in sede di legittimita’ si rilevi che una clausola dell’accordo concluso dalle parti sia stata pattuita in violazione di legge, la sentenza pronunciata a norma dell’articolo 444 cod. proc. pen. non puo’ essere annullata soltanto sul relativo punto, ma deve esserlo interamente, in quanto l’accordo delle parti non e’ suscettibile di modifica da parte del giudice (nello stesso senso, Sez. 6, n. 3560 del 25/11/1993, Ariveri, Rv. 197720; nonche’ Sez. 6, n. 4723 del 01/12/1994, Mollica, Rv. 200630 e Sez. 6, n. 5759 del 25/01/1995, Cimolai, Rv. 201667, aventi ad oggetto sentenze di applicazione della pena ex articolo 444 cod. proc. pen., in cui si afferma che la pronuncia di incostituzionalita’, incidendo sul trattamento sanzionatorio, travolge l’accordo intervenuto tra le parti, in quanto non piu’ rispondente al riferimento normativo considerato per la composizione del rapporto).
Sul tema oggetto del presente ricorso e’ intervenuta, recentemente, Sez. 6, n. 1409 del 02/12/2014, Minardi, che, dopo aver ribadito l’irrilevanza, in ordine all’accordo sottostante la sentenza di applicazione di pena, dei vizi della volonta’ – salvo il caso del dolo della controparte – e dei motivi, ha affermato che, in caso di pena divenuta illegale la dichiarazione di consenso e l’accordo sarebbero “revocabili”, in quanto nulli, perche’ inidonei a legittimare la sentenza giudiziale e che la sentenza non definitiva dovrebbe essere annullata, perche’, a sua volta, nulla.
Sulla base della giurisprudenza cui si e’ fatto riferimento, tenuto conto che nel patteggiamento l’accordo assolve ad una funzione essenziale perche’, sulla base del suo contenuto, l’imputato rinuncia ad una serie di diritti personalissimi e concorda la pena, deve ritenersi che rispetto all’accordo recepito nella sentenza non assumono rilievo i vizi della volonta’ e le rivalutazioni di convenienza e che, qualora, rispetto all’accordo, intervenga successivamente un fatto favorevole, nella specie un piu’ mite trattamento sanzionatorio derivante dalla dichiarazione di illegittimita’ costituzionale della parte sanzionatoria della norma in virtu’ della quale e’ stata convenuta la pena, l’accordo e’ nullo per sopravvenuta illegalita’ di una parte del suo oggetto, con l’ulteriore conseguenza che la sentenza che ha recepito l’accordo deve essere annullata senza rinvio.
8. Pertanto, con riferimento al quesito posto dall’ordinanza di rimessione devono affermarsi i seguenti principi:
– “E’ illegale la pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato sui limiti edittali del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73 come modificato dalla Legge n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con sentenza n. 32 del 2014, anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalita’”.
– “Nel patteggiamento l’illegalita’ sopraggiunta della pena determina la nullita’ dell’accordo e la Corte di cassazione deve annullare senza rinvio la sentenza basata su tale accordo”.
9. Si puo’ quindi passare all’esame dell’altra questione posta dall’ordinanza di rimessione.
Alla dichiarazione di invalidita’ originaria delle norme incostituzionali, con effetto ex tunc, consegue la loro inapplicabilita’ anche in relazione a rapporti sorti anteriormente alla sentenza n. 32 del 2014 e ancora pendenti, non potendo il giudice fare applicazione di norme dichiarate incostituzionali rispetto a situazioni sostanziali preesistenti, valendo cio’ anche nell’ipotesi di ricorsi pendenti in cassazione.
In particolare, con riferimento a quest’ultimo caso, non vi e’ dubbio che per i ricorsi ammissibili la disciplina ripristinata per effetto della dichiarazione di incostituzionalita’ debba essere immediatamente applicata ai processi in corso.
Piu’ complesso il problema che riguarda i ricorsi inammissibili.
Giova premettere che la giurisprudenza di legittimita’, con riferimento ad altre ipotesi di illegalita’ della pena, non sembra ritenere di ostacolo l’inammissibilita’ del ricorso per rilevare tale illegalita’, affermando che il principio di legalita’ ex articolo 1 cod. pen. e la funzione della pena, come concepita dall’articolo 27 Cost., non appaiono conciliabili con la applicazione di una sanzione non prevista dall’ordinamento (cfr., Sez. 5, n. 24128 del 27/04/2012, Di Cristo, Rv. 253763; Sez. 1, n. 15944 del 21/03/2013, Aida, Rv. 255684; nello stesso senso anche, Sez. 6, n. 21982 del 16/05/2013, Ingordini, Rv. 255674, in un caso pero’ in cui l’illegalita’ era stata determinata dall’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 69 c.p., comma 4; il medesimo orientamento si ritrova anche nella giurisprudenza formatasi nella vigenza del codice del 1930, cfr. Sez. 4, n. 3369 del 22/01/1985, Larange, Rv. 168651 e Sez. 5, n. 79 del 06/10/1982, Feriello, Rv. 156786).
10. Sul tema che qui interessa, l’ordinanza di rimessione segnala l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimita’ con riguardo alla possibilita’ che la Corte di cassazione rilevi d’ufficio, anche in caso di inammissibilita’ del ricorso, la nullita’ sopravvenuta della sentenza in conseguenza della illegalita’ della pena determinata dalla dichiarazione di illegittimita’ costituzionale.
Alcune decisioni ritengono rilevabile d’ufficio, anche in caso di inammissibilita’ del ricorso per manifesta infondatezza o per le altre ragioni previste dall’articolo 606 c.p.p., comma 3, l’illegalita’ della pena in conseguenza della pronuncia di illegittimita’ costituzionale (Sez. 4, n. 16245 del 12/03/2014, lori, Rv. 259363; Sez. 4, n. 22293 del 15/05/2014, Kure, Rv. 259383; Sez. 4, n. 25216 del 15/05/2014, Marena, Rv. 259385; Sez. 3, n. 21259 del 03/04/2014, Marku, Rv. 259384; Sez. 6, n. 12727 del 06/03/2014, Rubino, Rv. 258778) altre, invece, subordinano l’intervento sulla illegalita’ della pena alla deduzione nel ricorso di motivi che investano il controllo della motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio (Sez. 6, n. 14995 del 26/03/2014, Lampugnano, Rv. 259358; Sez. 6, n. 15157 del 20/03/2014, La Rosa, Rv. 259254; Sez. 4, n. 24606 del 12/03/2014, Rispoli, Rv. 259365; Sez. 6, n. 18828 del 08/04/2014, Renna, n. m.).
Il contrasto segnalato si ritrova anche nella giurisprudenza relativa al tema generale della legalita’ della pena, che cioe’ non derivi da una pronuncia di illegittimita’ costituzionale.
Si e’ sostenuto che la illegalita’ della pena e’ rilevabile d’ufficio anche in cassazione ma a condizione che il ricorso non sia inammissibile e l’esame della questione non comporti accertamenti di fatto o valutazioni incompatibili con il giudizio di legittimita’: cio’ sul presupposto che, sussistendo una causa di inammissibilita’ dell’impugnazione, prevale quest’ultima, in quanto preclusiva della formazione di un valido rapporto di impugnazione e, quindi, in grado di impedire l’esercizio del potere di cognizione del giudice anche per le questioni rilevabili ex officio ai sensi dell’articolo 609 c.p.p., comma 2, (cosi’, Sez. 5, n. 1341 del 13/12/2003, dep. 2004, Marullo, Rv. 229812; Sez. 2, n. 44667 del 08/07/2013, Aversano, Rv. 257612; Sez. 5, n. 36293 del 09/07/2004, Raimo, Rv. 230636). Si tratta di un orientamento che e’ stato utilizzato anche nella materia degli stupefacenti, allorche’ proprio per l’introduzione del Decreto Legge 30 dicembre 2005, n. 272, articolo 4-bis, convertito con modificazioni dalla Legge n. 49 del 2006, il minimo edittale previsto per il reato di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 1, si e’ ridotto da otto a sei anni: in questa occasione alcune decisioni hanno ritenuto che l’inammissibilita’ del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consentisse il formarsi di un valido rapporto d’impugnazione precludendo, percio’, la possibilita’ di applicare ex articolo 609 c.p.p., comma 2, lo ius superveniens piu’ favorevole (cfr. Sez. 6, n. 37648 del 16/10/2006, Rizzo, Rv. 234610; Sez. 6, n. 37629 del 16/10/2006, Hadef, n.m.; Sez. 6, n. 15184 del 05/04/2006, Cavanna, Rv. 233616; Sez. 6, n. 24718 del 09/05/2006, Remaiche, Rv. 234370; Sez. 6, n. 35415 del 19/09/2006, Caroppo, Rv. 234827; Sez. 6, n. 36305 del 02/10/2006, Guaresi, Rv. 2352469; Sez. 4, n. 26351 del 03/02/2009, Flamia, Rv. 244795).
Diversamente si e’ affermato il principio secondo cui, anche in presenza dell’inammissibilita’ del ricorso, la violazione del principio di legalita’ della pena, applicata contra legem, e’ rilevabile d’ufficio, pur se non dedotto nei motivi di impugnazione, riconoscendo la prevalenza della declaratoria d’ufficio ai sensi dell’articolo 609 c.p.p., comma 2, su quella dell’inammissibilita’ (Sez. 5, n. 3945 del 13/11/2002, dep. 2003, De Salvo, Rv. 224220; Sez. 4, n. 39631 del 24/09/2002, Gambini, Rv. 225693; Sez. 4, n. 19765 del 21/01/2015, Ivascu, Rv. 263476, quest’ultima con riferimento alle modifiche apportate al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 5, dal Decreto Legge 20 marzo 2014, n. 36, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 79 del 2014).
La distanza tra i due indirizzi ricordati risente anche della diversa valorizzazione attribuita all’ambito applicativo dell’articolo 609 c.p.p., comma 2, che, come e’ noto, consente alla Corte di cassazione di decidere le questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del processo, oltre quelle che non siano state dedotte prima per impossibilita’ oggettiva.
In alcuni casi, si e’ ritenuto che l’illegalita della pena possa essere rilevata di ufficio ai sensi dell’articolo 609, comma 2, cit., in applicazione analogica dell’articolo 129 cod. proc. pen. (Sez. 4, n. 39631 del 24/09/2002, Gambini, Rv. 225693).
Recentemente, invece, si e’ posto l’accento sul principio della funzione rieducativa della pena, sostenendo che non vi e’ ragione per escludere che la illegalita’ della pena debba essere rilevata di ufficio anche in presenza di un ricorso inammissibile, soprattutto in presenza di una giurisprudenza di legittimita’ che, recependo i principi della CEDU, riconosce che si debba comunque intervenire, anche successivamente al giudicato, su una sanzione penale convenzionalmente e costituzionalmente illegittima (cosi’, Sez. 5, n. 46122 del 13/06/2014, Oguekemma, Rv. 262108, che, evidentemente, richiama Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258651).
11. A questi fini non puo’ farsi a meno di tenere in considerazione il percorso interpretativo che ha condotto la giurisprudenza di questa Corte a individuare gli spazi di cognizione del giudice di legittimita’ rispetto alle cause di non punibilita’ di cui all’articolo 129 cod. proc. pen. in presenza di un ricorso inammissibile.
Si e’ trattato di uno sviluppo giurisprudenziale graduale che ha portato al superamento della distinzione classica tra cause di inammissibilita’ originarie e sopravvenute, per delineare la causa di inammissibilita’ come categoria unitaria, riconoscendo la prevalenza della declaratoria di inammissibilita’ su quella della non punibilita’, realizzando una “progressiva erosione” degli spazi riservati all’operativita’ dell’articolo 129 cod. proc. pen..
Nel dibattito, gia’ presente nella vigenza del codice del 1930, che vede contrapposte una tesi “rigorista”, secondo cui la decisione sull’inammissibilita’ precede sempre l’accertamento delle cause di non punibilita’, e una tesi “liberale”, che invece ritiene che la causa di non punibilita’ viene comunque prima di qualsiasi causa di inammissibilita’, in quanto occorre assicurare la prevalenza della giustizia sostanziale, e’ prevalsa, alla fine, la prima.
Sono noti i passaggi di questa giurisprudenza che ha sviluppato il concetto di giudicato sostanziale rispetto a quello formale, puntualizzando che quando il ricorso per cassazione e’ ab origine affetto da inammissibilita’ non puo’ considerarsi idoneo a instaurare un rapporto di impugnazione e, di conseguenza, risultano inibiti i poteri officiosi del giudice, compresa la possibilita’ di rilevare d’ufficio le cause di non punibilita’ di cui all’articolo 129 cod. proc. pen..
La prima pronuncia sul tema e’ quella delle Sez. U, n. 21 del 11/11/1994, Cresci, secondo cui la mancanza dei requisiti dell’impugnazione previsti dall’articolo 581 cod. proc. pen. impedisce di rilevare e dichiarare eventuali cause di non punibilita’, in quanto l’atto privo dei requisiti formali, compreso quello della specificita’ dei motivi, non costituisce una valida impugnazione e quindi non produce gli effetti introduttivi del giudizio di impugnazione cui si collega la possibilita’ di emettere una pronuncia diversa dalla “dichiarazione di inaccessibilita’”; a questa sentenza ha fatto seguito Sez. U, n. 15 del 30/06/1999, Piepoli, che ha sviluppato ulteriormente le argomentazioni utilizzate dalla precedente decisione, evidenziando la centralita’ dell’articolo 591 cod. proc. pen., considerando come cause di inammissibilita’ originarie del ricorso anche i motivi non consentiti e la denuncia di violazioni di legge non dedotte in appello; si e’ quindi arrivati alla sentenza De Luca (Sez. U, n. 32 del 02/11/2009) con cui anche la manifesta infondatezza del ricorso viene considerata una causa di inammissibilita’ che preclude la dichiarazione di non punibilita’ ex articolo 129 cod. proc. pen. e poi alle sentenze Cavalera (Sez. U, n. 33542 del 27/06/2001) e Bracale (Sez. U, n. 23428 del 22/03/ 2005).
In particolare, con queste decisioni (soprattutto con la sentenza De Luca) si sottolinea come le cause di inammissibilita’ sono soggette ad un regime unitario dal momento che producono il medesimo risultato, quello di non consentire la trattazione del “merito” e si afferma definitivamente il principio che in presenza di una fattispecie di invalidita’ del gravame non si stabilisce un valido rapporto processuale, precisando che anche la manifesta infondatezza, in quanto collocata tra le cause di inammissibilita’, non e’ idonea a fornire la forza propulsiva all’atto di impugnazione per accedere all’ulteriore grado del processo.
Dinanzi a questo “concordato giurisprudenziale”, che si e’ sviluppato anche per reagire ad un uso pretestuoso delle impugnazioni e che nell’inerzia del legislatore ha individuato soluzioni interpretative, anche coraggiose, per evitare epiloghi processuali nel segno della totale inefficienza del sistema di giustizia penale, occorre ora verificare se l’inammissibilita’ del ricorso preclude anche di rilevare l’illegalita’ della pena derivante dalla dichiarazione di illegittimita’ costituzionale.
Invero, una giurisprudenza piu’ risalente riteneva che l’esistenza di una causa originaria di inammissibilita’ impedisse alla Corte di cassazione di applicare lo ius superveniens anche quando da questo derivasse l’abolitio criminis (Sez. 6, n. 2718 del 21/12/1993, Colagrossi, Rv. 196637, Sez. 3, n. 4957 del 08/03/1994, Di Maio, Rv. 197610). Tale indirizzo e’ stato fortemente contrastato, rilevando come nell’ipotesi di abolitio la norma incriminatrice viene meno, sicche’ ogni giudice che sia formalmente investito della cognizione sulla fattispecie oggetto di abrogazione deve dichiarare ai sensi dell’articolo 129 c.p.p., comma 1, che il fatto non e’ previsto dalla legge come reato; in questa ipotesi viene a mancare l’oggetto sostanziale del rapporto processuale, cioe’ il nesso tra un fatto penalmente rilevante e l’accusato, con la conseguenza che la declaratoria ex articolo 129 cit. e’ necessariamente pregiudiziale rispetto ad ogni altro accertamento che implichi la formale permanenza di una res judicanda, compreso quello relativo alle cause di inammissibilita’ dell’impugnazione, come del resto avviene in caso di morte dell’imputato, in cui il rapporto processuale e’ risolto per il venir meno della componente soggettiva (cosi’, Sez. 6, n. 356 del 15/12/1999, El Quartet, Rv. 215285). Inoltre, nell’ambito del medesimo filone interpretativo si e’ messo in evidenza come, sempre con riferimento al tema dell’inammissibilita’, l’abrogazione di una norma incriminatrice sia fenomeno diverso rispetto alla prescrizione del reato: infatti, se la prescrizione si verifica in un momento successivo alla pronuncia della sentenza, il decorso del tempo e’ irrilevante in presenza del riconoscimento della causa di inammissibilita’ che rende la pronuncia definitiva; invece, nell’altra ipotesi l’ordinamento prevede che anche quando la sentenza sia passata in giudicato l’abrogazione del reato produca i suoi effetti (articolo 673 cod. proc. pen.), situazione questa profondamente diversa rispetto alle cause estintive del reato previste dall’articolo 129 cod. proc. pen. che non producono effetti dopo l’irrevocabilita’ della sentenza (Sez. 5, n. 31911 del 16/03/2001, Cortesi, Rv. 220226, in cui si e’ affermata l’ammissibilita’ del ricorso teso a far rilevare solo la sopravvenuta abrogazione del reato, motivando proprio in relazione alla possibilita’ che l’abrogazione produca effetti anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza). Quest’ultima decisione ha, infine, precisato come una tale soluzione sia imposta anche dal principio della ragionevole durata del processo, principio che impone di evitare una pronuncia di inammissibilita’ del ricorso che avrebbe come unico effetto un rinvio della questione alla fase esecutiva.
Si tratta di tesi che sono state in parte riprese dalle Sezioni Unite.
Infatti, proprio la giurisprudenza citata, che disciplina il rapporto tra inammissibilita’ e cause di non punibilita’ valorizzando il dato processuale rispetto a quello sostanziale, individua alcune ipotesi in cui l’impugnazione inammissibile non condiziona l’accertamento del giudice. Sono i casi in cui la cognizione del giudice, nonostante il ricorso inammissibile, cade sull’accertamento dell’abolitio criminis o della dichiarazione di illegittimita’ costituzionale della norma incriminatrice formante oggetto dell’imputazione, deroga che viene giustificata dall’eccezionale possibilita’ di incidere in executivis sul provvedimento in relazione al quale si e’ formato il giudicato formale, cosi’ come prevede l’articolo 673 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca e n. 23428 del 22/03/2005, Bracale).
In queste decisioni si afferma come “l’eccezionale possibilita’ di incidere in executivis sul provvedimento contrassegnato dalla formazione del giudicato formale parrebbe comportare, al pari dell’ipotesi in cui debba essere dichiarata l’estinzione del reato a norma dell’articolo 150 cod. pen., che a tanto possa provvedere il giudice dell’impugnazione inammissibile – indipendentemente dalla procedura concretamente seguita – a meno che il decorso del termine derivante dalla mancata proposizione del gravame abbia gia’ trasformato il giudicato sostanziale in giudicato formale” (Sez. U, De Luca).
Analoghe considerazioni sono state svolte da quelle decisioni che hanno ritenuto la prevalenza, rispetto alla inammissibilita’ del ricorso, delle ipotesi di ritenuta incompatibilita’ della norma incriminatrice di diritto interno con la norma comunitaria come dichiarata dalla Corte di Giustizia Europea, trattandosi di situazioni che determinano effetti assimilabili all’abolitio criminis (Sez. 1, n. 39566 del 05/10/2011, Pereira, Rv. 251176; Sez. 7, n. 21579 del 06/03/2008, Boujlaib, Rv. 239960; Sez. 6, n. 9028 del 05/11/2010, dep. 2011, Gargiulo, Rv. 249680; Sez. 7, n. 48054 del 16/11/2011, Mogio, Rv. 251588).
Ebbene, si tratta di considerazioni che si attagliano perfettamente al caso in questione, in cui la dichiarazione di incostituzionalita’ non ha riguardato la norma incriminatrice, ma la pena. Invero, la “situazione” in oggetto appare particolarmente contigua a quella della dichiarazione di incostituzionalita’ della norma incriminatrice, dovendo il reato essere inteso nella sua dimensione globale, considerando tutti gli elementi normativi che lo conformano: e’ stato correttamente sostenuto che a questi fini “non puo’ essere irrilevante l’illegittimita’ costituzionale della pena” e che “il fondamentale parametro ermeneutico del favor rei non puo’ confinarsi al precetto, ma deve estendersi anche all’aspetto sanzionatorio” (Sez. 3, n. 21259 del 03/04/2014, Marku Iridu). Pertanto, deve riconoscersi che anche l’illegittimita’ costituzionale limitata alla sola sanzione e’ destinata ad incidere sul giudicato sostanziale: si tratta pur sempre di una pena la cui esistenza e’ stata eliminata dall’ordinamento in maniera irreversibile e definitiva, peraltro con effetti ex tunc, come se non fosse mai esistita. Sicche’ la sua intrinseca illegalita’ impone che il giudice dell’impugnazione, ancorche’ inammissibile, provveda a ripristinare una sanzione legale, basata, in questo caso, sui criteri edittali ripristinati per effetto della dichiarazione di illegittimita’ costituzionale.
Del resto, che il giudice della cognizione, in presenza di un ricorso inammissibile, debba provvedere alla rideterminazione della pena illegale derivante da pronuncia di incostituzionalita’, deriva anche dall’osservazione che anche in questo caso si verifica la possibilita’ che lo stesso intervento puo’ essere posto in essere in sede di esecuzione, come affermato recentemente, seppure in una ipotesi leggermente differente, dalle Sezioni unite. Infatti, in presenza di una dichiarazione di illegittimita’ costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, che incida comunque sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, il giudice dell’esecuzione e’ chiamato a rideterminare la pena in favore del condannato (Sez. U, n. 42858 del 29/5/2014, Gatto).
12. Tuttavia, una deroga alla prevalenza della illegalita’ della pena sul giudicato sostanziale e’ rappresentata dal ricorso inammissibile perche’ tardivamente proposto. In questo caso si e’ in presenza di un gravame sin dall’origine inidoneo a instaurare un valido rapporto processuale, in quanto il decorso del termine derivante dalla mancata proposizione del gravame ha gia’ trasformato il giudicato sostanziale in giudicato formale (Sez. U, De Luca), sicche’ il giudice dell’impugnazione si limita a verificare il decorso del termine e a prenderne atto. Questa speciale causa di inammissibilita’ e’ quindi preclusiva di un’eventuale rimodulazione del trattamento sanzionatorio, anche dinanzi alla declaratoria di incostituzionalita’ della pena (nello stesso senso alcune decisioni recenti relative al tema delle modifiche che hanno interessato la pena per le droghe “leggere”: Sez. 4, n. 24638 del 06/05/2014, Valle, Rv. 259381; Sez. 4, n. 24544 del 06/05/2014, Chourabi, Rv. 260908).
13. Puo’ quindi affermarsi il seguente principio:
“Nel giudizio di cassazione l’illegalita’ della pena conseguente a dichiarazione di incostituzionalita’ di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio e’ rilevabile d’ufficio anche in caso di inammissibilita’ del ricorso, tranne che nel caso di ricorso tardivo”.
14. Deve procedersi ora alla disamina del ricorso proposto nell’interesse dell’imputato.
L’ordinanza ha rimesso alle Sezioni Unite le due questioni oggetto di contrasto giurisprudenziale sul presupposto dell’inammissibilita’ del ricorso, tale ritenuto sulla base di una mera delibazione.
Questa valutazione puo’ essere condivisa.
14.1. Riguardo al primo motivo si rileva che costituisce ormai ius receptum nella giurisprudenza di legittimita’ quello secondo cui la sentenza che applica la pena su richiesta si fonda sulla concorde volonta’ delle parti autonomamente espressa e che il giudice e’ tenuto a compiere, da un lato, l’accertamento positivo in ordine alla validita’ del consenso prestato, alla corretta qualificazione giuridica del fatto, all’applicazione e alla comparazione di eventuali circostanze, alla congruita’ della pena ed alla concedibilita’ dei benefici (ove a questi l’applicazione della pena sia subordinata) e, dall’altro, deve accertare la non ricorrenza delle cause di non punibilita’, non procedibilita’ o estinzione del reato di cui all’articolo 129 cod. proc. pen..
Quest’ultimo accertamento negativo, incidente sul merito dell’imputazione, esonera il giudice dall’obbligo di una specifica ed analitica motivazione, soprattutto quando le ragioni di proscioglimento di cui all’articolo 129 cod. proc. pen. non siano state allegate dall’imputato o non risultino concretamente dagli atti. In sostanza, e’ sufficiente che il giudice enunci l’esito negativo dell’indagine senza ulteriormente diffondersi sulla ricerca degli elementi di colpevolezza dell’imputato, sottesi al consenso prestato ed alla rinuncia dello stesso a contestare, mediante la richiesta di applicazione della pena, le ragioni dell’accusa.
A tali principi si e’ strettamente attenuto il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Perugia nella sentenza impugnata che, anzi, ha verificato l’inconciliabilita’ di una sentenza di proscioglimento ex articolo 129 cod. proc. pen. rispetto agli elementi probatori contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, tra cui il verbale di arresto, le spontanee dichiarazioni rese dall’imputato nel corso dell’udienza di convalida dell’arresto, dal verbale di sequestro e dalla relazione tecnica sulla natura dello stupefacente detenuto.
14.2. Per quanto concerne l’altro motivo si osserva che, dopo le modifiche intervenute con la Legge 27 marzo 2001, n. 97, articolo 2, con la sentenza di patteggiamento il giudice puo’ sottoporre a confisca facoltativa il denaro che rappresenta il profitto ricavato dalla cessione di sostanze stupefacenti e l’ablazione deve essere giustificata con l’esistenza di un nesso pertinenziale con l’illecito, che impone la sottrazione dei beni alla disponibilita’ del colpevole per impedire la agevolazione di nuovi fatti criminosi.
Nella specie, il ricorrente sostiene la mancanza dei presupposti necessari per disporre la confisca ai sensi dell’articolo 240 cod. pen., in quanto non sarebbero state prese in considerazione le giustificazione offerte circa la legittima disponibilita’ del denaro sequestrato.
Invero, nella sentenza impugnata vengono confutate le giustificazioni che l’imputato ha dato in ordine al possesso del denaro, rilevandone l’inverosimiglianza, sottolineando come l’entita’ della somma sia totalmente incongrua rispetto alle condizioni di vita dell’imputato, clandestino, privo di attivita’ lavorative e senza fonti di reddito.
In sostanza, entrambi i motivi sono manifestamente infondati, al limite della genericita’, in quanto propongono censure del tutto scollegate rispetto ai contenuti della sentenza impugnata, lamentando carenze della motivazione che invece risulta completa e adeguata al tipo di pronuncia, peraltro insistendo su questioni del tutto pacifiche nella giurisprudenza di legittimita’.
15. Tuttavia, in base a quanto detto in precedenza, nonostante l’inammissibilita’ del ricorso deve rilevarsi l’illegalita’ della pena.
L’accordo delle parti, ratificato dal giudice di merito, si e’ formato tenendo presente i limiti edittali indicati dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 1, come modificato dalla Legge n. 49 del 2006, che per le condotte di detenzione illecita e cessione di sostanza stupefacente, senza distinguere tra droghe leggere e droghe pesanti, prevedeva una pena detentiva da sei a venti anni: utilizzando tali parametri edittali le parti hanno raggiunto l’accordo sulla pena di due anni e otto mesi di reclusione ed euro 14.000 di multa in relazione alla detenzione di un quantitativo di hashish del peso complessivo di circa kg. 4, suddivisi in diversi panetti, pena che il giudice ha ritenuto, all’epoca, congrua.
Successivamente alla sentenza e nelle more del ricorso proposto nell’interesse dell’imputato e’ intervenuta la sentenza n. 32 del 2014 che, come si e’ visto, ha dichiarato incostituzionale l’intera Legge n. 49 del 2006, con l’effetto di realizzare la reviviscenza della precedente disciplina introdotta con la Legge n. 162 del 1990, poi trasfusa nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, che invece prevede un diverso trattamento sanzionatorio per le diverse tipologie di droga, punendo con l’articolo 73, comma 4, le condotte illecite relative alle droghe leggere con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 5.164 a 77.468.
Sulla base di quanto si e’ detto in precedenza, la pena oggetto dell’accordo deve ritenersi illegale anche se e’ ricompresa nella forbice edittale indicata dalla disposizione rivissuta, considerando che nella specie la pena-base e’ stata individuata in sei anni di reclusione, che all’epoca dell’accordo corrispondeva al minimo edittale, ma che oggi e’ pari al massimo della sanzione comminata dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 4. E’ evidente che la volonta’ delle parti e lo stesso controllo del giudice hanno avuto come riferimento un reato la cui gravita’ e’ profondamente mutata per effetto dell’intervento della Corte costituzionale che ha ripristinato una disciplina sanzionatoria diversa e piu’ favorevole per l’imputato, sicche’ il procedimento di commisurazione della pena si e’ formato su criteri edittali incostituzionali e la illegalita’ sopravvenuta della pena appare ancor piu’ evidente in presenza della discrasia che si e’ determinata nella stessa valutazione che le parti (e il giudice) hanno fatto in rapporto al grado e alla misura della sanzione, ancorata originariamente al minimo edittale della caducata fattispecie, ma corrispondente oggi al massimo edittale della pena ripristinata. In questo modo il rapporto gravita’ del reato-proporzionalita’ della pena risulta profondamente viziato, dal momento che la sanzione concordata e ritenuta congrua dal giudice e’ stata determinata su valori edittali dichiarati incostituzionali, con effetto ex tunc, valori da ritenere come mai esistiti. Il procedimento che ha condotto all’applicazione della pena risulta del tutto scollegato e inadeguato rispetto all’entita’ del fatto cosi’ come oggi configurato: in altri termini, non si rinviene alcun rapporto tra fatto e sanzione, con la conseguente violazione del principio di proporzionalita’ della pena, che la rende illegale nei termini sopra indicati.
15.1. Trattandosi di sentenza di patteggiamento, la pena non puo’ essere rideterminata ex officio, dal momento che la misura della pena costituisce l’oggetto essenziale dell’accordo, che si deve considerare nullo perche’ formatosi sulla base di criteri edittali incostituzionali. Infatti, la Corte di cassazione, nell’adottare la decisione che comporti l’annullamento per illegalita’ della pena concordata dalle parti ed applicata dal giudice non puo’ ricorrere all’articolo 620 c.p.p., comma 1, lettera l), in quanto la modificazione della pena inciderebbe sui termini di un possibile accordo delle parti, presupponendone il consenso, e dovendo escludersi ogni ipotesi di intervento ex articolo 619 cod. proc. pen., non ricorrendone i presupporti (Sez. 3, n. 1883 del 22/09/2011, La Sala; Sez. 1, n. 16766 del 07/04/2010, Ndiaye; Sez. 3, n. 34302 del 14/06/2007, Catuogno; Sez. 5, n. 1411 del 22/09/2006, Braidich; Sez. 1, n. 8377 del 11/06/1992, Sania).
L’illegalita’ della pena comporta l’esclusione della validita’ dell’accordo intervenuto tra le parti e ratificato dal giudice. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio con trasmissione degli atti al Tribunale di Perugia per l’ulteriore corso, consentendo alle parti di poter rinegoziare l’accordo sulla base dei legali limiti edittali ovvero proseguire con il rito ordinario.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio e dispone la trasmissione degli atti al Tribunale di Perugia per l’ulteriore corso.
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