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13. Va poi sottolineato che anche in occasione del parere reso da questo Consiglio di Stato sulle Linee guida ANAC n. 6 (Indicazione dei mezzi di prova adeguati e delle carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto che possano considerarsi significative per la dimostrazione delle circostanze di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. c) del codice) si è evidenziato che la nozione di illecito professionale accolta da quest’ultima disposizione «abbraccia molteplici fattispecie, anche diverse dall’errore o negligenza, e include condotte che intervengono non solo in fase di esecuzione contrattuale, come si riteneva nella disciplina previgente [Cons. St., V, 21.7.2015 n. 3595], ma anche in fase di gara» (parere della Commissione speciale 3 novembre 2016 n. 2286).
14. Palesemente inconferente è invece l’ulteriore precedente della Corte di giustizia richiamato dal giudice di primo grado, e cioè la sentenza 13 dicembre 2012, C-465/11.
In quel caso la questione pregiudiziale verteva sulla conformità all’art. 45, comma 2, lett. d), della direttiva 2004/18/CE della legislazione polacca nella parte in cui prevedeva come causa di esclusione automatica dalle procedure di gara ipotesi di risoluzione o inadempimento contrattuali. Quindi, come sottolinea il CNS, nella pronuncia in esame la Corte di giustizia ha ritenuto tale ipotesi di esclusione automatica non conforme alla normativa europea.
15. Sul punto, nondimeno, la Te. ha affermato nei propri scritti conclusionali che la soluzione cui è pervenuto il precedente di questa Sezione ora in esame «appare certamente insoddisfacente sul piano assiologico e valoriale», nella misura in cui consente alle amministrazioni di valutare la credibilità di un operatore economico per inadempimenti commessi nell’esecuzione di precedenti contratti pubblici «e non anche comportamenti particolarmente disdicevoli come quelli descritti dall’Agcm nel provvedimento con cui si è inflitta la pesante sanzione al Cns».
Ad ulteriore sostegno di questa tesi è richiamato il parere di questo Consiglio di Stato sullo schema del nuovo codice dei contratti pubblici, in cui si afferma che: «la condotta anticoncorrenziale è ritenuta pericolosa dall’ordinamento UE (e da quello nazionale) non solo quando abbia un effetto violativo delle regole concorrenziali, ma anche quando abbia soltanto ad oggetto il conseguimento di una siffatta violazione» (Comm. speciale, 1 aprile 2016, n. 855).
Richiamata quindi una diffusa giurisprudenza amministrativa di primo grado che ha affermato il principio opposto, la Te. ha quindi chiesto, in ragione di questo contrasto giurisprudenziale e della «obiettiva complessità delle questioni», di sollevare davanti alla Corte di giustizia dell’Unione la questione pregiudiziale della conformità della lett. f) dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 all’art. 45, comma 2, lett. d) della citata direttiva 2004/18/CE (secondo il quale – come accennato in precedenza – può essere escluso dalla partecipazione a procedure di affidamento di contratti pubblici ogni operatore economico che «nell’esercizio della propria attività professionale, abbia commesso un errore grave, accertato con qualsiasi mezzo di prova dall’amministrazione aggiudicatrice»).
16. La richiesta non può tuttavia essere accolta.
In primo luogo, come si è sopra evidenziato la norma interna è sostanzialmente riproduttiva di quella europea. Entrambe si imperniano in particolare sul concetto di grave errore commesso nell’esercizio dell’attività professionale, cosicché non si possono nutrire dubbi sulla corretta trasposizione interna del precetto comunitario.
Deve poi sottolinearsi che, diversamente da quelle previste nel comma 1 dell’art. 45 della direttiva, la causa di esclusione su cui si controverte nel presente giudizio è di carattere facoltativo: recita infatti il comma 2 dell’art. 45 in esame: «Può essere escluso dalla partecipazione all’appalto ogni operatore economico». In questo caso la direttiva europea attribuisce quindi un potere discrezionale allo Stato membro, che nel caso di specie l’Italia ha legittimamente ritenuto di esercitare in linea con la previsione normativa contenuta nella direttiva.
Inoltre, contrariamente a quanto deduce la Te. la questione non riveste i pretesi caratteri di complessità che ne giustificherebbero la rimessione alla Corte di giustizia. Del pari, sono irrilevanti a questo fine i precedenti contrari dei Tribunali amministrativi, a fronte di un orientamento di questo Consiglio di Stato invece uniforme nel senso finora espresso. Quanto al parere 1 aprile 2016, n. 855, richiamato dall’originaria ricorrente, va rimarcato che esso concerne il nuovo codice dei contratti pubblici.
17. La richiesta di sollevare la questione pregiudiziale europea in esame sottende in realtà il tentativo di ricevere dalla Corte di giustizia l’avallo ad un’interpretazione analogica, in malam partem, di una norma interna conforme a quella sovraordinata, di cui costituisce puntuale attuazione nell’ordinamento giuridico nazionale. Infatti, con essa non si prospetta un contrasto tra questo duplice livello normativo, ma si lamenta «sul piano assiologico e valoriale» l’inidoneità della legge nazionale a “colpire” le imprese in tesi immeritevoli di aggiudicarsi contratti pubblici, della quale si prospetta quindi una lettura interpretativa di carattere additivo volta a colmarne le lacune.
A fronte di ciò non sussistono quindi i presupposti per sollevare la questione pregiudiziale, tanto in ragione della c.d. teoria dell’atto chiaro (sul punto è sufficiente richiamare la sentenza capostipite della Corte di giustizia 6 ottobre 1982, C-283/81, Cilfit; da ultimo: Cons. Stato, VI, 12 ottobre 2017, n. 4732), quanto sulla base della funzione di “filtro” che le autorità giurisdizionali nazionali sono chiamate a svolgere rispetto a interpretativo di carattere soggettivo e che non esibiscano requisiti minimi di idoneità per devolvere la questione al giudice europeo (cfr. in questo senso Cons. Stato, IV, 2 novembre 2017, n. 5048; V, 22 agosto 2016, n. 3667).
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