Cassazione 10

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza 1 marzo 2016, n. 8389

Ritenuto in fatto

1. Con decreto in data 5 febbraio 2015, la Corte di appello di Bari, in accoglimento dell’impugnativa proposta da C.R. e da B.A. avverso il decreto del Tribunale del 12 giugno 2013, ha ridotto la misura personale della sorveglianza speciale di PS applicata al C. , confermando nel resto l’impugnato decreto quanto alle prescrizioni correlate alla misura ed alla disposta confisca preventiva dei beni appartenenti al proposto ed ai suoi congiunti.
In adesione all’impianto motivatorio del primo giudice, la Corte di appello ha così stimato l’elevata pericolosità sociale del C. e riaffermato la misura della confisca preventiva: apprezzando la sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del proposto; ritenendo l’irrilevanza dei proventi derivanti da evasione fiscale; stimando come fittizia l’intestazione dei beni ai familiari conviventi, nella conclusiva considerazione di una diacronica correlazione temporale tra i beni attinti da misura reale e i reati valorizzati quali indicatori di pericolosità sociale del ricorrente in quanto soggetto raggiunto da misura personale di prevenzione.
2. C.R. e B.A. propongono ricorso per cassazione avverso l’indicato decreto, affidando il proposto mezzo ad un unico articolato motivo con il quale in sintesi fanno valere plurime violazioni della legge penale, sostanziale e processuale, e vizio di motivazione (art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., in relazione agli artt. 125 e 546 lett. e) cod. proc. pen.; artt. 1, 2-bis, comma 4 e 2-ter, legge n. 575 del 1965; artt. 20, 24 e 26 d.lgs. n. 159 del 2011).
2.1. Con il primo profilo di censura, il C. e la B. denunciano la violazione in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale che, nel formulare il giudizio sulla pericolosità sociale del proposto, avrebbe disatteso i criteri individuati dalla giurisprudenza di legittimità, non effettuando una globale valutazione della personalità del soggetto.
La Corte di appello di Bari non avrebbe valorizzato l’assoluzione del C. dal reato associativo contestatogli (art. 416 cod. pen.), qualificando invece come rilevante un unico episodio di usura, per cui era intervenuta condanna che, circoscritto all’anno 2009, nella natura occasionale rivestita, non avrebbe predicato il necessario disvalore della personalità del proposto.
Manifestamente illogico ed errato nei presupposti applicativi di diritto sarebbe poi stato il richiamo operato dalla Corte di Bari ad una remota denuncia del 1997 per tentato furto di un bulbo di cycas.
Siffatto episodio, mancando l’applicazione di una pregressa misura di prevenzione personale, non avrebbe assunto il ruolo di elemento sintomatico di spiccata potenzialità criminosa del proposto così non valendo ad anticipare il necessario giudizio di pericolosità qualificata.
I giudici di appello avrebbero poi svilito il dato obiettivo dello svolgimento da parte del C. di una regolare attività lavorativa presso un ente pubblico, attività che, protraendosi da oltre trenta anni, non sarebbe stata risolta dagli esiti del celebrato giudizio per usura.
2.2. Per il secondo profilo del dedotto motivo, i ricorrenti lamentano come la Corte sarebbe incorsa in violazione di regole di diritto per aver attribuito efficacia retroattiva alla disposta confisca preventiva.
La misura ablativa avrebbe travolto, per la richiesta correlazione tra capitale di provenienza delittuosa ed incrementi patrimoniali, acquisizioni di gran lunga anteriori al manifestarsi della pericolosità qualificata del proposto risalente all’anno 2009 e come tali non in grado di sostenere, saldandosi all’indicata manifestazione, un giudizio di concreta ed attuale pericolosità.
La Corte territoriale avrebbe poi espresso erronee valutazioni di congruità e proporzione quanto al rapporto tra redditi familiari del proposto ed entità delle acquisizioni patrimoniali, estromettendo dal calcolo dei redditi leciti quanto conseguito dal C. per attività, i cui proventi erano stati oggetto di evasione fiscale.
Questi ultimi invero non avrebbero dovuto essere computati in quanto produttivi di reddito illecito nei soli limiti di superamento della soglia di punibilità del relativo reato e quindi nei soli termini dell’imposta evasa (d.lgs. n. 74 del 2000).
D’altro canto, prosegue la difesa, il mancato riscontro nella specie di una assoluta commistione tra redditi leciti, o infra soglia di punibilità, e proventi dell’evasione non avrebbe sostenuto la confisca dell’intero patrimonio.
Ogni contraria interpretazione sarebbe stata destinata a tradursi in una espropriazione integrata dal solo fatto dell’evasione fiscale di contro alla ratio legis.
Contestati ancora i criteri di stima della spesa familiare, in quanto affidati ad indici meramente presuntivi elaborati dal perito nominato in corso di giudizio sulla base dei dati pubblicati dall’Istat ed il carattere arbitrario della stimata sperequazione tra redditi ed acquisizioni patrimoniali, la difesa ha concluso per l’annullamento del decreto impugnato.
3. Sono state depositate “Note” con le quali, reiterate e iniziali difese, si è altresì prospettata alla Corte l’intervenuta approvazione di un disegno di legge, licenziato dalla Camera ed all’esame del Senato, recante “Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 – omissis –“.
Deduce la difesa come quest’ultimo, in modifica dell’art. 24 d.lgs. n. 159 del 2011, all’art. 5, comma 8, preveda, per la prima volta e quindi con conseguente esclusione dell’applicabilità dell’argomento per il passato, l’impossibilità del proposto di giustificare la legittima provenienza dei beni confiscati adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale.

Ritenuto in diritto

1. Il ricorso è fondato nei termini di seguito indicati.
Nell’unico formale motivo di ricorso è necessario distinguere tra quanto attiene ai presupposti applicativi della misura personale di prevenzione della sorveglianza speciale, da cui risulta attinto il C. , e quanto invece più direttamente è argomento diretto a contestare la misura patrimoniale della confisca preventiva che involge le posizioni del terzo, B.A. .
Il rapporto di univoca correlazione che intercorre tra gli indicati provvedimenti, personale e reale, sostiene, in punto di interesse, il ricorso laddove lo stesso viene Indistintamente condotto contro la misura personale anche dal coniuge del proposto, terzo proprietario dei beni confiscati.
2. Per costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, secondo il disposto dell’art. 4 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, richiamato dall’art. 3-ter, secondo comma, legge 31 maggio 1965, n. 575.
Per l’indicato principio di diritto, il sindacato che la Corte è chiamata a condurre rinviene proprio contenuto e cornice di definizione nell’ambito di quella figura sintomatica della violazione di legge rappresentata dalla motivazione inesistente o apparente (art. 125, comma 3, cod. proc. pen.).
È sindacabile quindi dinanzi alla Corte quella “carenza” del percorso di giustificazione della decisione tale da tradursi nella redazione di una motivazione priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e logicità o, ancora, di un testo del tutto inidoneo a far comprendere lo svolgimento logico osservato dal giudice (tra le altre: Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci; Sez. 1, n. 31209 del 24/03/2015, Scagliarini, in motivazione, p. 17; Sez. 6, n. 35240 dei 27/06/2013, Cardone, Rv. 256263; Sez. 5, n. 19598 del 08/04/2010, Palermo, Rv. 247514).
3. Il procedimento origina dalla richiesta di applicazione congiunta della misura preventiva della confisca e di quella personale della sorveglianza speciale, espressiva di una pericolosità qualificata, ai sensi degli artt. 1 e 2-bis e ss. della legge n. 575 del 1965 (norma applicabile al procedimento che era in corso, quale quello di specie, alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011), nei confronti del ricorrente C.R. .
Per i fissati termini di scrutinio riservati al giudizio di legittimità, la Corte di appello di Bari, con motivazione che non sconfina nell’indicata carenza, ha apprezzato la qualificata pericolosità sociale del C. , per inquadramento in una delle “categorie” normative di riferimento (ora descritte dagli artt. 1 e 4 del d.lgs. n. 159 del 2011).
La Corte di merito ha così fatto applicazione del principio dell’”autonomia valutativa” (tra le altre: Sez. 1, n. 7585 del 22/01/2014, Bonavota; Sez. 6 n. 2269 del 15/12/2009, dep. 2010, Del Vento, in motivazione, p. 4), operando una libera utilizzazione degli elementi di fatto accertati all’interno di un giudizio penale, anche allontanandosi dai relativi esiti.
Per i fatti di usura continuata (artt. 81 cpv e 644 cod. pen.) tradottisi nella condanna del 2009, la Corte territoriale, analiticamente valutando gli esiti dell’accertamento penale, è giunta a dare legittima composizione al necessario quadro sintomatico dell’estremo qualificato di pericolosità, valorizzando le peculiari condizioni ambientali di contesto in cui la condotta ha avuto espressione (rapporto tra il reo e le vittime, soggetti deboli da cui il C. traeva vantaggio; elevatissimo tasso di interessi applicato dal proposto; collegamento del proposto con altri usurai, espressivo di maggior pericolo per le vittime; consistenza del periodo lungo il quale si è svolta la condotta).
Per l’autonomia di giudizio che governa l’accertamento di prevenzione rispetto a quello di cognizione, i giudici della misura, nel dare composita costruzione al necessario quadro indiziario, si sono avvalsi di quegli indizi che (così per i reati di associazione a delinquere pure contestato nel medesimo contesto dell’usura), pur non avendo superato la soglia della concludenza, per i necessari caratteri di gravità, precisione e concordanza tale da condurre a condanna, sono comunque in grado di esprimere la pericolosità sociale della persona (Sez. 1, n.1575 del 07/04/1994, Sorgiovanni; Sez. 6, n. 3153 del 10/09/1992, Longordo).
La motivazione della Corte territoriale si apprezza ancora come condotta in un ambito di legittima e non apparente composizione della cornice indiziaria, laddove valorizza la confisca penale disposta ai danni del proposto (per il reato di cui all’art. 12-sexies, commi 1 e 2, d.l. 8 giugno 1992 n. 306, convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 1992, n. 356) nel giudizio di condanna per fatti di usura infine uscita indenne dal vaglio di questa Corte (Sez. 6, n. 30430 del 21/05/2015, Carlucci, non massimata).
4. Quanto ai profili di ricorso che attengono alla misura patrimoniale della confisca preventiva, i temi della proporzione tra i redditi del proposto e la spesa familiare (temi trattati per richiamo, quanto all’ultimo indicato elemento, ai parametri Istat), o ancora il tema della computabilità nel reddito prodotto di quanto sia conseguenza dell’evasione fiscale, rinvengono piena risposta nelle motivazione spesa dalla Corte di appello.
Quest’ultima si è infatti dispiegata in modo legittimo.
Risponde infatti a principio fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità quello per il quale, in tema di confisca di prevenzione di cui all’art. 2-ter legge 31 maggio 1965, n. 575 (attualmente art. 24 D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159), la sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del proposto non può essere giustificata adducendo proventi da evasione fiscale, atteso che le disposizioni sulla confisca mirano a sottrarre alla disponibilità dell’interessato tutti i beni che siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, senza distinguere se tali attività siano o meno di tipo mafioso (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260244).
La motivazione sul punto quindi sfugge come tale ad ogni sindacato rimesso alla Corte.
Né in contrario avviso può valere quanto argomentato dal ricorrente nella “Nota per udienza”, laddove si richiama il disegno di legge n. 2134, approvato dalla Camera dei deputati in data 11 novembre 2015 e recante “Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione”.
Il dedotto elemento de iure condendo (modifica dell’art. 24 del d.lgs. n. 159 del 2011 per inserimento di espressa previsione, nel nuovo testo, dell’impossibilità del proposto di giustificare la legittima provenienza dei beni adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale) non vale univocamente a ricondurre al previgente testo normativo la possibilità, per converso, del proposto di fornire giustificazione dei redditi in quanto provento o reimpiego di evasione fiscale.
Il nuovo testo normativo licenziato da uno dei rami del Parlamento può infatti ed invece ben intendersi quale espressione di una volontà del legislatore di fare proprio l’indirizzo interpretativo già adottato dalla giurisprudenza di legittimità ed inteso dal primo quale diritto vivente.
5. Come rilevato dalla Corte di merito, la confiscabilità dei beni (ai sensi dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 (contenente disposizioni contro la mafia) è in stretto rapporto di derivazione dalla pericolosità del soggetto, non solo nel senso che quest’ultima è presupposto della prima, ma anche nel senso non può disporsi confisca di quei beni che non siano stati acquistati nel periodo temporale in cui la condotta del proposto non si è connotata come espressiva di pericolosità sociale.
Da ciò consegue che, con riferimento alla c.d. pericolosità qualificata, il giudice deve accertare se questa investa l’intero percorso esistenziale del proposto o se sia invece individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato (Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014, dep.2015, Spinelli, Rv. 262605).
L’affermazione di un diverso ed imprescindibile nesso pertinenziale e temporale tra misura e pericolosità sarebbe infatti incompatibile con i principi affermati in Costituzione quanto alla libera iniziativa economica ed alla proprietà privata (artt. 41 e 42 Cost.) ed i principi convenzionali (art. 1, Protocollo 1, CEDU) (Sez. U, n. 4880, cit.).
Ciò posto, la Corte di appello delinea un giudizio di pericolosità qualificata che si spinge a ricomprendere l’intero percorso esistenziale del proposto (gli acquisti attinti dalla confisca ricomprendono un arco temporale che si distende dal 1990 al 2009) pur in assenza di convincenti dati indiziari che tale dilatazione temporale della pericolosità riscontrino.
Un riscontro siffatto non può essere rappresentato da una sola condanna per usura, preceduta da episodi modesti e remoti (denuncia per un tentativo di furto di una cycas e precedente non identificato del 1976).
6. Il decreto impugnato va pertanto annullato limitatamente alla confisca, dovendo la Corte di merito nuovamente valutare se e per quale arco temporale ne ricorrano i presupposti applicativi, attenendosi al seguente principio di diritto:
“in tema di confisca di prevenzione poiché la pericolosità sociale qualificata oltre ad essere presupposto della confisca stessa è anche misura temporale del suo ambito applicativo, il giudice di merito che la disponga, in difetto di perspicui dati indiziari che riscontrino una dilatazione temporale della prima destinata a ricomprendere l’intero percorso di vita del proposto, è tenuto a circoscriverla al periodo in cui si è avuta la manifestazione di pericolosità, debitamente valorizzando le relative condotte”.
7. I ricorsi restano nel resto rigettati.

P.Q.M.

Annulla il decreto impugnato limitatamente alla confisca e rinvia per nuovo esame sul punto ad altra Sezione della Corte di appello di Bari.
Rigetta nel resto i ricorsi

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