Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 4 giugno 2014, n. 12571
Svolgimento del processo
Nel 1948 decedeva Ca.An., che lasciava in proprietà ai cinque figli un appartamento sito in (omissis) (fg. 13 part. 143), gravato da usufrutto vedovile.
Una delle figlie nel 1960 cedeva la sua quota alla sorella M.C. .
Nel 1968 veniva a mancare la vedova Ch.Is. .
Nel 1986 C.M.C. , rappresentata dalla figlia F.T. , in seguito succedutale mortis causa, conveniva in giudizio i fratelli P. , U. e A. per la divisione del compendio.
Chiedeva altresì che la coerede A. , che deteneva il bene, fosse condannata a rendere il conto.
C.A. resisteva e in via riconvenzionale chiedeva l’accertamento dell’intervenuta usucapione in forza di possesso ultraventennale.
Questa domanda veniva respinta dal tribunale di Salerno il 5 febbraio 2003.
Con sentenza definitiva del 20 dicembre 2006, il tribunale attribuiva l’appartamento, ritenuto indivisibile, alla attrice, previo versamento dei conguagli di circa ventimila Euro in favore di ciascuno dei fratelli o dei loro eredi, essendo nelle more deceduti U. e A. .
Condannava i quattro eredi di quest’ultima, signori Ca.An. , S. , A. e L. , quest’ultimo autonomamente difeso, al pagamento di circa 18.000 Euro oltre interessi in ragione del godimento dell’immobile.
La pronuncia di primo grado veniva integralmente confermata il 7 settembre 2010 dalla Corte di appello salernitana, che rigettava i quattro motivi di gravame proposti da Ca.An. e A. .
In particolare la Corte d’appello rilevava che gli appellanti non avevano fornito la prova di un possesso esclusivo della cosa, in capo alla propria madre, incompatibile col permanere del compossesso altrui.
Negava inoltre la comoda divisibilità del bene, in funzione di attribuzione di una quota in natura ai due fratelli C. .
Al ricorso per cassazione, notificato il 27 novembre 2010 e imperniato su due motivi, F.T. ha resistito con controricorso.
Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.
Ordinata l’integrazione del contraddittorio, dopo rinvii a tal fine disposti il 28 marzo 2012 e il 14 giugno 2013, la causa veniva discussa all’odierna udienza.
Motivi della decisione
2) Con il primo motivo parte ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 1142, 2697 e 1140 c.c.. Omessa o comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo.
La censura concerne la pretesa usucapione dell’intero compendio immobiliare da parte della madre dei ricorrenti.
La Corte di appello con esauriente e congrua motivazione ha già esaminato e respinto gli argomenti che il ricorso ripropone a pag 7.
I giudici di appello hanno escluso che la dante causa dei ricorrenti abbia posseduto in via esclusiva l’immobile a partire dal 1957 e ha indicato alcuni elementi, quali le visite assidue che la usufruttuaria faceva nell’immobile e il deposito in esso di beni (apparecchiature sanitarie) di altro erede (C.P. ) per desumere che non sussisteva quella vasta signoria sulla cosa che contraddistingue il possesso ad usucapionem.
Per scalfire questa tesi il ricorso muove dal presupposto che l’usufruttuaria aveva dismesso il possesso del bene perché vi aveva “insediato” (questo il verbo usato) la figlia e la sua famiglia, sicché le circostanze valorizzate dalla Corte di appello costituivano invece “episodici casi di affettuosa ospitalità”.
2.1) La censura è manifestamente infondata.
Proprio la circostanza che ad “insediare” la figlia nell’uso dell’immobile sia stata la madre, che continuava a recarvisi, dimostra che l’inizio della fase di uso del bene da parte della figlia A. non fosse espressione di impossessamento, ma di una detenzione benevolmente concessa dall’usufruttuario, titolare del diritto di godere della casa, secondo un costume familiare diffuso nel nostro paese (si veda Cass. SU 13603/04 in tema di comodato di casa coniugale).
Per dimostrare di aver usucapito, la dante causa dei ricorrenti avrebbe dovuto dimostrare ben maggiori elementi di valutazione comprovanti un possesso pieno, esclusivo e manifestamente contrastante con i diritti degli altri eredi e dell’usufruttuaria, di quelli (pagamento di imposte e oneri per una pratica amministrativa) che asserisce essere stati malvalutati.
3) Anche il secondo motivo è infondato.
Esso concerne la mancata assegnazione di una porzione dell’immobile oggetto di divisione.
Parte ricorrente sostiene che il ctu aveva ammesso la divisibilità dell’immobile in due appartamenti e che essa aveva domandato in appello l’assegnazione del più piccolo (74,61 mq), che corrispondeva, secondo la consulenza, al valore di due quinti del compendio.
La Corte di appello ha notato che gli eredi di C.A. sono proprietari solo di un quinto dell’immobile (la F. invece di due quinti), quota che non giustificava l’attribuzione di un appartamento di entità pari a due quinti del complesso.
La Corte ha poi sottolineato la non comoda divisibilità del bene anche secondo la ipotesi “ventilata” dal consulente “in via straordinaria”, rimarcando l’alterazione strutturale dell’immobile, che rendeva più logica l’attribuzione totale al comunista avente maggior quota.
3.1) Questa decisione è razionale e incensurabile in sede di legittimità.
Va rilevato che i due ricorrenti non sono portatori di una quota di un quinto dell’immobile, non essendo gli unici eredi di C.A. : essi sono proprietari di un decimo dell’appartamento. Dei quattro fratelli C. , due – S. e L. – hanno infatti omesso di impugnare la decisione del tribunale, facendovi acquiescenza.
La valutazione resa dalla Corte di appello, già congrua rispetto alla titolarità di una quota del 20% di un appartamento, circostanza che di regola non giustifica la suddivisione di un immobile in due parti, quando, come nella specie, l’eredità sia da dividere in quattro parti (i quattro gruppi di discendenti della comune genitrice Ch.Is. ved. C. , residuati dopo la cessione della quinta quota) e vi sia un condividente titolare di quota maggiore, appare ancor più corretta e ineccepibile se si considera questa circostanza (la titolarità di un decimo soltanto del bene), opportunamente sottolineata in controricorso (pag. 11).
Il ricorso è rigettato.
Segue la condanna alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo, in relazione al valore della controversia.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente alla refusione a controparte delle spese di lite, liquidate in Euro 3.500 per compenso, 200 per esborsi, oltre accessori di legge.
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