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La societa’ ricorrente sostiene che entrambe le statuizioni contestate sono basate sull’erronea attribuzione della natura retributiva, anziche’ previdenziale, al credito di cui si tratta.
II – Esame delle censure.
2. La questione – qualificata “di massima di particolare importanza” – sottoposta all’attenzione di queste Sezioni Unite dall’ordinanza di rimessione riguarda l’applicabilita’, o meno, del divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi previsto per le prestazioni previdenziali dalla L. n. 412 del 1991, articolo 16, comma 6, anche ai crediti al credito maturati dal lavoratore, con riguardo alle somme versate nei fondi integrativi, come quello di cui si tratta nel presente giudizio.
3. Tale questione e’ gia’ stata da tempo esaminata dalla giurisprudenza di questa Corte e la soluzione che ad essa e’ stata data e’ del tutto da condividere e va quindi confermata – per le ragioni di seguito esposte – non essendo stati offerti argomenti idonei a modificarla.
4. Deve essere, in primo luogo, ricordato che la menzionata L. 30 dicembre 1991, n. 412, articolo 16, comma 6, innovando la disciplina degli effetti del ritardo nella corresponsione delle prestazioni dovute dagli “enti gestori di forme di previdenza obbligatoria”, ha stabilito che tali enti “sono tenuti a corrispondere gli interessi legali sulle prestazioni dovute a decorrere dalla data di scadenza del termine previsto per l’adozione del provvedimento sulla domanda che risulti completa”, precisando, nell’ultimo periodo, che “l’importo dovuto a titolo di interessi e’ portato in detrazione delle somme eventualmente spettanti a ristoro del maggior danno subito dal titolare della prestazione per la diminuzione del valore del suo credito”.
Con quest’ultima disposizione e’ stato sancito il cosiddetto “divieto di cumulo” fra interessi legali e rivalutazione monetaria riguardo alle prestazioni erogate in ritardo dagli enti suddetti, con la conseguenza che la mora deve essere risarcita mediante la corresponsione della maggior somma rispettivamente risultante dal calcolo degli interessi e da quello della rivalutazione monetaria.
5. Con sentenza 15 ottobre 2002, n. 14617 di queste Sezioni Unite e’ stato chiarito che quest’ultima disposizione – nella sua formulazione originaria, non ancora attinta dalle successive modifiche legislative apportate dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296, articolo 1, comma 783, e, successivamente, dal Decreto Legge 9 febbraio 2012, n. 5, articolo 16, comma 8, lettera b), convertito dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, le quali, peraltro, sono ininfluenti rispetto all’interpretazione offerta nella suindicata sentenza ai fini che qui interessano – e’ stata dettata per assolvere ad una funzione riequilibratrice e di contenimento della maggiore spesa cui erano stati sottoposti i suddetti enti previdenziali per effetto della estensione, riguardo ai crediti per accessori sulle prestazioni da essi erogate in ritardo, del meccanismo di rivalutazione proprio dei crediti di lavoro, imposto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 156 del 12 aprile 1991.
6. Con tale ultima decisione era stata infatti dichiarata l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 442 c.p.c. “nella parte in cui non prevede che il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti relativi a prestazioni di previdenza sociale, deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal titolare per la diminuzione del valore del suo credito”. Nella stessa ottica, con la successiva sentenza n. 196 del 27 aprile 1993, la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittima la stessa norma, nella parte in cui non prevede il medesimo trattamento dei crediti relativi a prestazioni di previdenza sociale “nel caso in cui il ritardo dell’adempimento sia insorto anteriormente al 31 dicembre 1991”.
Mentre poi, con la sentenza n. 361 del 1996, e’ stata dichiarata la non fondatezza della questione di legittimita’ costituzionale della L. n. 412 del 1991, articolo 16, comma 6, cit., rilevandosi che con la norma in esame il legislatore, dopo la sentenza n. 156 del 1991, ha fatto valere la necessita’ di una piu’ adeguata ponderazione dell’interesse collettivo al contenimento della spesa pubblica in un contesto di progressivo deterioramento degli equilibri finanziari, con una scelta compatibile con l’articolo 38 Cost..
7. Nel frattempo, con la L. 23 dicembre 1994, n. 724, articolo 22, comma 36, seconda parte, la disciplina dettata dalla L. n. 412 del 1991, articolo 16, comma 6, e’ stata estesa “anche agli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale, per i quali non sia maturato il diritto alla percezione entro il 31 dicembre 1994, spettanti ai dipendenti pubblici e privati in attivita’ di servizio o in quiescenza”.
E con la sentenza n. 450 del 2000 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale di tale norma per violazione dell’articolo 36 Cost., limitatamente alla sua applicazione ai rapporti di lavoro subordinato privato.
Nell’occasione la Corte costituzionale ha sottolineato la evidente non riferibilita’ al rispetto del parametro di cui all’articolo 36 Cost. con riferimento ai crediti di lavoro derivanti da rapporti di diritto privato dell’unica ragione giustificatrice, dal punto di vista costituzionale, dell’articolo 16, comma 6, cit. individuata nella sentenza n. 361 del 1996 nella necessita’ di fare fronte ad un contesto di progressivo deterioramento degli equilibri della finanza pubblica, configurata come “ratio autonoma” della norma.
8. Puo’ dirsi, pertanto, che a seguito della suddetta evoluzione interpretativa, si e’ giunti sia nella giurisprudenza di questa Corte – a partire dalla suindicata sentenza di queste Sezioni Unite, cui si e’ uniformata la successiva giurisprudenza (vedi, per tutte: Cass. 30 gennaio 2003, n. 1477; Cass. 6 dicembre 2003, n. 19264; Cass. 19 aprile 2004, n. 7392; Cass. 12 luglio 2004, n. 12868; Cass. 23 febbraio 2009, n. 4366) – sia nella giurisprudenza della Corte costituzionale a stabilire che la regola della non cumulabilita’ di interessi e rivalutazione monetaria sulle prestazioni dovute – dagli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria, si riferisce esclusivamente ai crediti previdenziali vantati verso tali enti, trovando la sua giustificazione nelle suindicate ragioni di tipo finanziario che non possono che riguardare esclusivamente tali enti, che sono gli unici per i quali la tutela degli interessati ad ottenere le prestazioni di spettanza incontra un limite compatibile con l’articolo 38 Cost. nel necessario contemperamento con le disponibilita’ del bilancio- pubblico, a carico del quale e’ finanziato in buona parte il sistema previdenziale (Corte cost., sentenze n. 220 del 1988; n. 119 del 1991; n. 361 del 1996).
9. Nella citata sentenza di queste Sezioni Unite n. 14617 del 2002 e’ stato anche precisato che ai fini del divieto del cumulo in argomento non rileva soltanto la natura dell’ente ma anche quella dei crediti degli assicurati, sempre che si tratti di crediti da far valere nei confronti dei suddetti enti.
Al riguardo e’ stato precisato che l’individuazione, da parte dell’articolo 16, comma 6, cit., della “data di scadenza del termine previsto per l’adozione del provvedimento sulla domanda” come momento iniziale della decorrenza degli interessi legali porta chiaramente a ritenere che la norma possa trovare applicazione soltanto per i crediti relativi a prestazioni che abbiano natura previdenziale, le quali sono erogate previa domanda proposta dall’interessato, a differenza di quelle aventi natura retributiva.
Infatti, mentre per queste ultime vale la regola dell’esigibilita’ della relativa obbligazione nel momento stesso in cui matura il diritto, invece i crediti previdenziali possono – di norma – essere fatti valere dagli interessati esclusivamente dopo la presentazione di un’apposita domanda all’ente di competenza, cui da quel momento e’ riconosciuto un certo lasso di tempo per provvedervi.
10. In questo contesto, a partire da Cass. 28 ottobre 2008, n. 25889, nella giurisprudenza di questa Corte si e’ affermato l’indirizzo secondo cui la regola della non cumulabilita’ di interessi e rivalutazione monetaria di cui all’articolo 16, comma 6, cit. non e’ applicabile alle prestazioni pensionistiche integrative dovute dal datore di lavoro, tramite Fondi del tipo di quello della (OMISSIS) s.p.a., di natura pacificamente privatistica.
A tale conclusione si e’ pervenuti ribadendosi che il divieto di cumulo d’interessi e rivalutazione monetaria previsto dalla suddetta disposizione si riferisce esclusivamente ai crediti previdenziali vantati verso gli enti gestori di previdenza obbligatoria, in quanto tale divieto ha la sua ratio nella scelta legislativa di contemperare la tutela degli interessati ad ottenere le prestazioni di spettanza con le disponibilita’ del bilancio pubblico, scelta che in tali termini e’ compatibile con l’articolo 38 Cost. e che, all’evidenza, non si giustifica con riguardo alle prestazioni di natura privatistica corrisposte dai datori di lavoro, come quelle del FIP di cui si tratta nella presente controversia.
Questo indirizzo – che e’ da condividere – si e’ consolidato nel tempo ed e’ stato ribadito anche in molte sentenze che si sono pronunciate in merito alle prestazioni pensionistiche integrative corrisposte dal Fondo della (OMISSIS) s.p.a. (vedi: Cass. 14 settembre 2015, 18041; Cass. 13 ottobre 2015, n. 20526; Cass. 14 ottobre 2015, n. 2017; Cass. 4 settembre 2017, n. 20738; Cass. 5 settembre 2017, n. 20775; Cass. 6 ottobre 2017, n. 23417; Cass. 25 ottobre 2017, n. 25358).
11. Nel frattempo – in continuita’ con la sentenza della Corte costituzionale n. 421 del 1995, integrata dalla sentenza n. 178 del 2000 – con sentenza di questa Sezioni Unite 9 marzo 2015, n. 4684 e’ stato stabilito che i contributi dei datori di lavoro al finanziamento dei fondi di previdenza integrativa, fin dalla istituzione di tali fondi, non possono definirsi emolumenti retributivi con funzione previdenziale ma costituiscono contribuzioni di natura strutturalmente previdenziale (nella stesso senso: Cass. 4 aprile 2013, n. 8228 e Cass. 14 giugno 2017, n. 14758), ponendosi l’accento soprattutto sulla mancanza di un nesso di corrispettivita’ diretta fra contribuzione e prestazione lavorativa e sulla sostanziale autonomia tra rapporto di lavoro e previdenza complementare.
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