SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI
SENTENZA 26 febbraio 2016, n.8018
Ritenuto in fatto
V.M. ricorre contro la sentenza della Corte d’appello di Taranto, sezione distaccata della Corte d’appello di Lecce, con la quale è stata confermata la decisione 28 luglio 20011 del Tribunale che lo dichiarò responsabile di peculato aggravato perché, quale capo del 9 settore dei lavori pubblici del Comune di Taranto, si appropriava della somma complessiva di 400.000.000 di lire, della quale aveva la disponibilità, in ragione delle funzione di ‘responsabile del procedimento’ per la procedura, disciplinata dall’art. 31 bis legge n. 109 del 1994, di ‘bonario componimento’ per il riconoscimento della ‘revisione prezzi e riserve’ reclamate dalla Guerrini Generali S.p.A., società capofila del ‘raggruppamento temporaneo di imprese’ cui erano stati affidati in concessione dal comune di Taranto i lavori ‘ per il ‘recupero produttivo della città vecchia’.
Il predetto incarico fu conferito a V.M. dal dr. L.M. , Prefetto del comune di Taranto, a sua volta nominato Commissario straordinario per far fronte alle difficoltà sorte nell’esecuzione dei lavori, per i ritardi dei finanziamenti.
V.M. , quale ‘responsabile del procedimento’ – conclusa la procedura di ‘bonario componimento’ e approvato l’accordo dal Commissario straordinario – il 18 luglio 2000 inviò alla società concessionaria ‘Servizi tecnici S.p.A.’ una nota che riportava in oggetto: ‘Recupero produttivo della Città Vecchia di Taranto – art. 31 bis legge 109/94. Compenso per responsabile del procedimento’ e con la quale comunicava di dover procedere alla liquidazione di quanto dovuto e concordato’ in favore del ‘Responsabile del procedimento’ e indicava le modalità dei pagamenti.
In particolare, precisava ai responsabili della società che la somma di L. 400.000.000, avrebbe dovuto essere corrisposta ‘mediante storno di quanto dovuto alla società’, da effettuare in due rate di L. 200.000.000 ciascuna.
La concessionaria, attenendosi a quanto richiesto da V. , con due ‘note di credito in favore del Comune di Taranto’, l’una del 31 luglio 2000 e l’altra del 2 febbraio 2000, entrambe per l’importo di L. 200.000.000 oltre IVA, ebbe a stornare parzialmente due fatture in misura pari all’8%, rispetto a quanto ad essa dovuto.
, quale responsabile del procedimento e capo Settore lavori pubblici del Comune di Taranto, adottò due determine n. 6107 del 5 ottobre 2000 e n. 8143 del 30 dicembre 2000 – riportanti entrambe il riferimento alla nota del 18 luglio 2000 – con le quali ebbe ad ‘attestare’ il diritto alla percezione di ‘compensi per l’elaborazione dello schema di accordo bonario ex art. 31 bis legge n.109 del 1994 in suo favore nonché in favore dei dipendenti Comunali addetti al medesimo ufficio, il pagamento della somma dianzi indicata, a titolo di compenso per la definizione della procedura di ‘accordo bonario’.
Questi in sintesi i punti siginificativi della operazione compiuta da V.M. , rispetto alla quale entrambi i giudici di merito affermano la “impropria e falsa giustificazione” dell’erogazione delle somme a titolo di compenso per i dipendenti e per il responsabile del procedimento, poiché all’epoca non previsto e vietato dall’art. 31 bis legge n. 109 del 1994.
A tale ultimo riguardo, la Corte d’appello – dopo avere elencato le ragioni della eterogeneità tra la procedura svolta e quella prevista dall’art. 31 bis legge n. 109 del 1994 (p. 16, p. 14 della sentenza d’appello) – ribadisce che le attività svolte sono del tutto diverse rispetto a quelle di cui al citato art. 31 bis legge n. 109 del 1994. Nelle note 5 ottobre 2000 n. 6107 e 30 dicembre 2000 n. 8143, V.M. fa riferimento, come già innanzi precisato nella nota 18 luglio 2000 al “Compenso per Responsabile del procedimento art. 31 bis legge n. 104 del 1994”. Note nelle quali non è richiamato l’art. 18 delle legge 105 del 1994, riferimento normativo che, ad avviso della Corte d’appello, è indicato successivamente per giustificare la condotta arbitraria.
Per i giudici merito, l’attività svolta è da ricondurre a quella dell’ufficio tecnico, il cui compenso avrebbe dovuto essere quello previsto per il ‘lavoro straordinario’ e, in ogni caso, si richiama il principio generale della ‘onnicomprensività’ della retribuzione del personale degli enti locali, stabilita dagli artt. 19 d.p.r. n.191 del 1979 e 31 d.r. n.347 del 1983.
Il giudice d’appello, dunque, ha rigettato le censure della difesa volte a ribadire la legittimità dell’operato e, in ogni caso, ricondurre ad altre fattispecie incriminatrici, quali quelle di abuso d’ufficio o truffa, e ha condiviso invece la qualificazione di peculato, integrabile anche nell’ipotesi in cui non vi sia ‘detenzione materiale’ della res o della pecunia ‘altrui’ in ragione dell’ufficio o del servizio, bensì in un’accezione più ampia da ricomprendere la ‘occasionalità’ tra il possesso e l’esercizio delle funzioni e, in particolare, allorché il pubblico ufficiale abbia, in ogni caso, il potere di disporre della ‘res o pecunia’ altrui mediante atti giuridici.
Per il giudice d’appello, non rileva che le due determine, firmate da V.M. , furono inviate al Settore Finanziario del Comune di Taranto – ufficio cui spettava verificare ‘la legittimità della spesa’, a norma del regolamento di contabilità del Comune di Taranto del 1996 – poi al Dirigente del Settore Finanziario che, prima di firmare i due mandati di pagamento, avrebbe dovuto verificare la regolarità amministrativa, contabile e fiscale del provvedimento inviato da altro Dirigente di settore del Comune, come previsto dagli artt. 184 e 185 del T.0 degli enti locali oltre che il controllo della ‘legalità della spesa, come stabilito dall’art. 53 della legge n. 142 del 1990.
Al riguardo, il giudice d’appello rileva che anche la Corte dei Conti ebbe a sottolineare che il settore Finanziario avrebbe dovuto rilevare l’illegittimità della corresponsione.
La Corte di merito ritiene che il danaro ‘è uscito dalle casse del comune’ per effetto dei provvedimenti firmati da V.M. che, quale dirigente del Settore lavori pubblici del comune, ebbe a disporre ‘di pagare e liquidare’ gli importi; autonomia che ha fondamento nell’art.107 del decreto legislativo n. 267 del 2000 sulle responsabilità della dirigenza, esprimendo il giudizio sulla regolarità tecnica previsto dal citato art. 53 della legge n. 142 del 1990 sull’ordinamento delle autonomie locali. La giurisprudenza di legittimità si è espressa nel senso che il titolare del potere dispositivo risponderà, anche in tal caso, di peculato e non di truffa, poiché il profilo fraudolento ha l’unica finalità di mascherare l’inganno.
I difensori di V.M. , avv.ti Francesco Paolo Sisto e Luca Ballestreri, con due distinti atti rispettivamente deducono:
2.1. L’avvocato Sisto, dopo una premessa ricostruttiva dei fatti, deduce:
2.1.1. Violazione di legge sostanziale e vizio di motivazione, in relazione alla contestata ipotesi di peculato, con particolare riferimento all’elemento soggettivo.
La Corte d’appello ha condiviso gli argomenti posti a fondamento dal giudice di primo grado senza considerare la documentazione prodotta dalla difesa e la assoluta legittimità del compenso al responsabile del procedimento, come previsto dal regolamento del comune di Taranto.
Il regolamento del comune di Taranto del 9 settembre 1999 ha rimodulato i predetti compensi, non ancorabili alla percentuale dell’1,5% dell’importo base dei lavori, come previsto dagli altri regolamenti degli altri Comuni e delle Regioni. Documentazione rilevante non considerata affatto dalla Corte d’appello.
Dall’art. 18 della legge n.109 del 1994 discende la tendenza a ricomprendere le attività professionali in questione nei compiti d’ufficio con ampliamento delle prestazioni del contratto di lavoro.
L’art.18 della legge n. 109 del 1999 è stato fatto proprio dal regolamento interno adottato dall’amministrazione comunale tarantina che ha previsto un compenso spettante al responsabile del procedimento per l’accordo bonario.
L’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, ha altresì previsto, con le deliberazion n.51 del 25 maggio 2005 e n. 26 del 9 marzo 2005, la corresponsione dell’incentivo di cui al citato art. 18 al personale con qualifica dirigenziale e la rimodulazione di incentivi per i dipendenti che svolgono attività professionali connesse alla realizzazione delle opere pubbliche.
Sono dati minimizzati dalla Corte d’appello. La difesa ritiene che, senza alcuna giustificazione, la Corte d’appello ha ritenuto del tutto arbitraria che il compenso al responsabile del procedimento sia compreso tra gli oneri accessori previsti dalla Convenzione stipulata tra il Comune di Taranto e la Edifer.
Per la difesa, quanto alla legittimità dell’accordo del 18 luglio 2000, non possono sollevarsi obiezioni, né la presunta illiceità dello stesso può ancorarsi al semplice mancato riferimento all’art. 10 lett.b) della convenzione tra comune di Taranto e la concessionaria.
La convenzione stipulata autorizzava legittimamente, a differenza di quanto ritenuto dalla Corte d’appello, il compenso, tanto che la concessionaria Edilfer, poi divenuta Servizi tecnici, emetteva due note di credito di storno parziale relative agli oneri della concessionaria in misura de1 8% sull’importo dell’accordo bonario.
La circostanza è importante perché le somme in questione appartenevano di fatto alla concessionaria e non al Comune di Taranto e ciò evidenzia la violazione di legge in cui è incorsa la sentenza impugnata,qualificando i fatti nell’ipotesi di reato di peculato.
La difesa censura l’affermazione secondo cui la semplice canalizzazione della somma in oggetto nel bilancio dell’ente avrebbe comunque impresso natura pubblica al denaro. Mentre, le complessive somme che la concessionaria aveva ricevuto per il lavori espletati, erano stati, in parte, stornati, ovvero restituiti al comune di Taranto esclusivamente per ricompensare l’operato del responsabile del procedimento e dei suoi collaboratori, come previsto dalle disposizioni richiamate.
Per la difesa, le somme stornate dalla Concessionaria non erano nel possesso nè nella disponibilità di V. .
Peraltro, l’adozione delle determine adottate da V. erano consentite ex art. 107 d.lgs. 267 del 2000,che qualifica agenti contabili tutti i dirigenti dei singoli settori.
2.1.2. Violazione ex art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., in relazione all’elemento psicologico del reato.
Argomento non adeguatamente considerato è quello che le due ‘note’ (determine) furono trasmesse dall’imputato al settore finanziario per la verifica di legittimità della spesa.
La Corte d’appello rileva tale elemento privo di ogni significato per l’esclusione del reato. Elemento che per la difesa avrebbe dovuto rilevare per escludere l’elemento soggettivo del reato, sottolineando la trasparenza e chiarezza della procedura seguita da V. .
Per la difesa, mancano del tutto sia la ‘abusività’ dell’appropriazione’ sia il danno per la pubblica amministrazione, richiamando al riguardo decisione di questa Corte.
Anche il richiamo della giurisprudenza sul possesso mediato e riconducibile a più pubblici ufficiali’ non giustifica la ‘irrilevanza penale’ della complicità del servizio finanziario. Improprio e non chiaro il riferimento agli artt. 40 e 41 c.p., senza considerare che l’invio al settore finanziario giustifica la buona fede dell’imputato. Peraltro, la motivazione si caratterizza per illogicità là dove si assolvono dal reato di peculato gli altri dipendenti che han percepito il compenso, senza alcuna specifica motivazione sul punto.
2.1.3. Si censura il trattamento sanzionatorio, in base ai parametri previsti dagli artt. 133 e 62 bis c.p..
2.2. L’avvocato Luca Balistreri deduce:
2.2.1. Nullità della sentenza impugnata ex art. 6061 lett. e) e lett. b), cod. proc. pen., per contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione e inosservanza o erronea applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche.
Con il ricorso si ripercorre la scansione temporale dei fatti e le ragioni per le quali il giudice di primo grado ha ritenuto l’integrazione del reato di peculato, ritenendo che sia stato un atto dispositivo di V. a determinare l’appropriazione. Soluzione condivisa dal giudice d’appello. Per il giudice d’appello, solo dall’anno 2002 sarebbe stata introdotta la previsione di un compenso per i membri della commissione di cui all’art. 31 bis legge n. 109 del 1994, mediante la legge n.166 del 1 agosto 2002.
La Corte d’appello non ha condiviso che la giustificazione del compenso era nella disposizione dell’art. 18 della stessa legge 109, che prevede un incentivo premiale nel caso in cui i dipendenti abbiano direttamente redatto il progetto esecutivo di un opera o di un lavoro. Le ragioni della condivisione di tale assunto sono, ad avviso della Corte, da rivenire nel fatto che l’operatività dell’art. 18 cit. è condizionata all’adozione da parte dell’amministrazione di regolamento con cui si stabiliscono i criteri di riparto del compenso.
Tale regolamento vi è ed è stato adottato con delibera della Giunta municipale n.826 del 9 agosto 1999, con l’espressa previsione della figura del Responsabile unico del procedimento e del compenso a lui spettante.
La Corte d’appello ha respinto l’assunto che l’art. 10 lett. b) della convenzione stipulata tra il Comune di Taranto e la Edilfer S.p.a. prevede il compenso per il responsabile del procedimento ex art. 31 bis.
Tale accordo, per i giudici di merito, è solo una mera affermazione contenuta nella nota del 18 luglio 2000 trasmessa alla Edifer S.p.a..
La Corte d’appello esclude che l’attività sia quella prevista dall’art. 18 legge 104, bensì, come riferito da altri imputati, quella dell’art.31 bis della stessa legge.
La sentenza è del tutto illogica là dove non considera l’attività svolta con impegno dal responsabile unico del procedimento. Per il compenso, non essendoci alcuna previsione nell’art. 31 bis, si è fatto riferimento all’art. 18.
La Corte ha poi riconosciuto la natura pubblica del danaro erogato, soltanto perché vi è stata una canalizzazione della somma nel bilancio del dell’ente locale.
La motivazione è illogica poiché non tien conto che la concessionaria servizi tecnici, emise due note di credito con la descrizione storno parziale relative agli oneri della concessionaria nella misura del 8%.
2.2.2. Nullità della sentenza impugnata per manifesta illogicità della motivazione.
La Corte d’appello non ha tenuto conto che il compito svolto da V.M. trova la sua genesi nell’art. 18, ove appunto si parla del Responsabile del procedimento che si è occupato della progettazione dell’opera.
Tale dato normativo, disatteso dai giudici di merito, lo si evince dal Regolamento di attuazione della legge 109 del 1994 ovvero dal d.p.r. 554 del 1999 che disciplina le funzione e compiti e prevede che a questi spetta di proporre la definizione bonaria del procedimento e delle controversie che insorgono in ogni fase di realizzazione dei lavori.
La difesa rileva che l’art. 12 dello stesso decreto prevede ‘fondo per accordi bonari’, prevedendo l’obbligatorietà di una espressa revisione di bilancio. Previsioni che sono state rispettate, tanto che l’incentivo da elargire a V. e ai suoi collaboratori è stato di fatto previsto mediante una delibera di giunta n. 826 del 9 agosto 1999.
Peraltro, l’art. 31 bis è stato novellato dalla riforma del 2002.
2.2.3. Nullità della sentenza impugnata per manifesta illogicità della motivazione ed erronea applicazione dell’art. 314 c.p.: l’assenza del requisito del possesso o della disponibilità di danaro pubblico e della conseguente appropriazione.
Le somme percepite da V. sono state dai giudici di merito qualificate come danaro pubblico, mentre in realtà si trattava di danaro proveniente dalla Concessionaria e sono da considerare un costo sostenuto dalla concessionaria, non gravante affatto sull’ente pubblico. La somma è transita nelle casse del comune soltanto per retribuire gli aventi diritto.
Considerato in diritto
Il rigore argomentativo e descrittivo della sentenza impugnata rende evidente che la condotta dii V. è tale da configurare il delitto di abuso di ufficio e non quello di peculato, delitto quest’ultimo anch’esso, peraltro, da dichiarare estinto per prescrizione il 25 settembre 2013, trattandosi di condotte commesse, l’una il 18 ottobre del 2000 e l’altra 21 febbraio 2001, come risulta dalla stessa sentenza di appello.
A seguito della legge n.86 del 1990, l’elemento oggettivo del reato di peculato è, in ogni caso, costituito esclusivamente dall’appropriazione, la quale si realizza con una condotta del tutto incompatibile con il titolo per il quale si possiede, da cui deriva una estromissione totale del bene dal patrimonio dell’avente diritto con il conseguente incameramento dello stesso da parte dell’agente.
Dopo lo novella del 1990 si affermò che per aversi appropriazione fosse necessaria una condotta che non risultasse giustificata o giustificabile come pertinente all’azione della pubblica amministrazione; e che pertanto fosse configurabile la distrazione quando in presenza di pagamenti indebiti in favore di terzi, operati pur sempre in nome e per conto della pubblica amministrazione e, dunque, senza negare l’appartenenza pubblica del danaro, utilizzato nell’apparente rispetto di finalità istituzionali. Di appropriazione avrebbe potuto parlarsi solo quando la creazione di una falsa apparenza di legalità fosse sopravvenuta alla già realizzata sottrazione del danaro e tendesse ad occultarla o dissimularla; non quando gli artifici contabili o documentali fossero essi stessi strumento di un illecito profitto realizzato mediante un infedele esercizio di pubbliche funzioni. Pertanto, la distrazione a profitto altrui fosse da ricondurre al delitto di abuso d’ufficio e non più al peculato (Sez. V, 24 giugno 1996,dep.7 agosto 1996, in Cass. Pen. n.1175 1997).
Ciò non significa che la soppressione del riferimento alla ‘distrazione’ nell’economia del nuovo testo dell’art. 314 c.p. elimini la rilevanza della distrazione dalla fattispecie di peculato, poiché il deviare una cosa da una finalità a un’altra implica che il soggetto agente si comporti rispetto a essa come proprietario e, pertanto, se ne appropria.
Ne discende che il possesso qualificato dalla ragione dell’ufficio o del servizio non è solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto di inserirsi di fatto nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento (Sez. VI, 12 febbraio 2015, dep. 5 marzo 2015, n. 9660).
Altrettanto, vi è appropriazione nell’ipotesi in cui l’agente, mediante un atto dispositivo di sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell’ufficio, sia in grado di inserirsi nel maneggio o nella disponibilità di danaro e di conseguire quanto divenga poi oggetto di appropriazione(Sez. VI, 24 febbraio 2015, dep.29 aprile 2015, n. 18015).
Pertanto può ben integrare il requisito del possesso di fatto e di poter disporre di danaro mediante ordini di pagamento, mandati di accreditamento e, dunque, la nozione di disponibilità del denaro pubblico da parte del pubblico ufficiale non può essere ristretta al caso della detenzione materiale della ‘cassa’. Invero, l’uscita del denaro dalla ‘cassa’ è il momento terminale di quello che normalmente è un procedimento complesso, al quale il ‘cassiere’ è estraneo se non per quanto concerne l’erogazione materiale del denaro disposta da altri (Sez. VI, 24 giugno 1999, dep. 28 settembre 1999, n. 11095).
Su queste premesse, è da escludere che, nel nostro caso, si sia verificato un impossessamento di danaro, poiché V.M. , quale ‘responsabile del procedimento’ e capo del 9 settore dei lavori pubblici del Comune di Taranto, ha adottato un atto del procedimento, che, al di là delle formule usate, di per sé solo non era tale da determinare l’erogazione delle somme per sé e per gli altri dipendenti. Atti che erano da sottoporre al controllo di legalità e contabile, del Capo Settore dell’ufficio finanziario.
In realtà, gli atti furono trasmessi al Capo del Settore Finanziario e alla Ragioneria, uffici cui spettavano i predetti controlli, i quali adottarono i ‘mandati di pagamento’.
In questo contesto, assume significato quanto affermato dalla Corte dei Conti, secondo cui il ‘Settore Finanziario, prima della registrazione dell’impegno’, a norma dell’art. 124 del Regolamento del Comune di Taranto all’epoca vigente, ‘era tenuto’, afferma il giudice contabile, ‘a verificare, tra l’altro, la legalità della spesa e la regolarità della documentazione’. Verifica ‘indispensabile e obbligatoria’ per il parere di regolarità contabile’.
Quanto al profilo della palese illegittimità dei due atti n. 6107 del 5 ottobre 2000 e n.8143 del 6 febbraio 2001, nella decisione della Corte dei Conti, si legge che le predette deliberazioni facevano espresso riferimento ‘al pagamento per compenso per il responsabile del procedimento a norma dell’art. 31 bis della legge n. 109 del 1934’ e ciò rendeva ben evidente all’Amministrazione la ‘illegittimità della erogazione delle somme’.
Tale norma, come più volte posto in rilievo dai due giudici di merito, nel testo vigente all’epoca dei fatti non prevedeva alcun compenso per i dipendenti che partecipavano alla predisposizione dei fatti.
Ne discende la evidente e indiscutibile ‘illegittimità delle due determine a firma di V. ‘ e, dunque, la ‘illegale corresponsione della somma’ di L. 400.000.000; somma all’epoca già transitata – in ragione dei versamenti effettuati dalla società concessionaria – nel bilancio del Comune di Taranto, acquistando in tal modo giuridicamente ‘natura pubblica’.
Tali profili fattuali e giuridici pongono in rilievo, con incontrovertibile chiarezza, che, sotto il profilo ‘strutturale’, la condotta fu realizzata da una pluralità di persone, sebbene l’imputazione sia ‘mono soggettiva’.
Ne discende che il ‘vantaggio patrimoniale’, quale evento del delitto di abuso d’ufficio, intenzionalmente procurato da V.M. a sé e agli altri dipendenti si è realizzato all’esito dei due mandati di pagamenti, palesemente adottati in violazione di norme di legge e di regolamento e ciononostante posti in esecuzione da altri agenti pubblici, che avrebbero dovuto verificarne la legalità e respingere la illegale richiesta di erogazione del danaro.
Concorso, dunque, solo ‘strutturale di persone’ che rende responsabile del diverso e meno grave reato di abuso d’ufficio il Capo Settore che diede avvio alla illegale procedura che si concluse con l’atto ‘dispositivo’, il ‘mandato di pagamento’, che il Settore finanziario del Comune, inspiegabilmente e senza che risulti realizzata alcuna condotta decettiva, non ritenne di impedire nonostante la ‘palese’ violazione dell’art. 31 bis della legge n. 109 del 1944.
Questa Corte, in una pressoché analoga questione nel risolvere i rapporti tra truffa e peculato, ha ritenuto configurabile il delitto di truffa, aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 9, c. p., e non quello di peculato quando l’atto che in concreto produce l’effetto di appropriazione si inserisce in una procedura articolata, nella quale più soggetti sono chiamati a intervenire e l’agente infedele, per ottenere il trasferimento della cosa nella sua materiale e personale disponibilità, deve ricorrere ad una condotta decettiva che gli procuri il compimento di atti di disposizione aventi natura costitutiva la cui adozione compete a terzi (Sez. VI, 4 aprile 2014, dep. 16 luglio 2014, n. 31243).
3.1. Le deduzioni difensive con le quali si sostiene la regolarità delle due ‘determine’ adottate da V. , non sono altro che ripetitive di quanto già posto in rilievo al giudice d’appello che ha risposto in termini chiari e specifici, facendo riferimento a circostanze di fatto, oltre che giuridiche, per le quali ha rigettato la diversa ipotesi difensiva
In conclusione non è configurabile il delitto di peculato bensì quello di abuso d’ufficio nel caso in cui l’agente pubblico, pur titolare del potere di emettere provvedimenti che diano avvio a procedure volte a dare alla res o alla pecunia altrui una diversa destinazione e non anche titolare del potere di adottare ‘mandati o ordini di pagamento’, attribuiti per legge o per norme di regolamento ad altri organi della stessa amministrazione, adotti determinazioni illegittime che, senza alcuna condotta decettiva o di concorso con gli agenti pubblici preposti al controllo e a disporre, all’esito, i pagamenti, diano poi luogo all’emissione di mandati o ordini di pagamento di somme che recepiscano quale presupposto le determinazioni illegittime delle proposte formulate, in tal modo intenzionalmente procurando a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale.
La diversa qualificazione del fatto quale abuso d’ufficio aggravato ex art. 61 n. 7 c.p., al pari del più grave delitto di peculato, comporta anch’essa la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, poiché il fatto è stato commesso nel lontano 21 febbraio del 2001.
Non vi sono elementi che possano comportare – in base all’esame delle ragioni per le quali vi è stata condanna in primo grado, poi confermata in appello – l’assoluzione nel merito dell’imputato ex art. 129, cpv. c.p.. La ricostruzione dei fatti come delineate in motivazioni impone la conferma delle statuizioni civili.
P.Q.M.
Qualificato il fatto come abuso d’ufficio ex att.323 e 61 n.7 c.p., annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il reato è estinto per prescrizione, ferme restando le statuizioni civili. Condanna il ricorrente a rifondere alla parte civile, Comune di Taranto, le spese sostenute in questo grado, liquidate in euro 10.500 complessivi, oltre IVA e CPA.
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