Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 21 aprile 2015, n. 8094
Rilevato che
1. II Tribunale di Rovigo, con sentenza n. 85/11 del 22 febbraio 2011, ha dichiarato la separazione personale di A.V. e I.T.T. rigettando le reciproche domande di addebito della separazione, di imposizione di un assegno di mantenimento pari a 600 euro mensili, di assegnazione della casa coniugale proposte in via principale dal T. e in via riconvenzionale dalla V..
2. Ha proposto appello la V. rilevando che la Corte di appello non aveva valorizzato gli elementi che portavano a identificare un quadro di mala gestiti dell’azienda agricola comune, posto in essere dal T. che non aveva mai coinvolto la moglie nella gestione e aveva posto in essere atti di sottrazione dei cespiti comuni.
3. Il gravame è stato respinto dalla Corte di appello di Venezia, con sentenza n. 171/2012, nella quale si afferma che non è rilevante valutare la gravità o meno dei comportamenti gestori del marito e se questi ha posto o meno in essere distrazioni dei beni comuni dovendo tale comportamento essere inquadrato nell’ambito di quel potere semiassoluto, noto nelle campagne padane e implicitamente accettato in famiglia, che lascia ogni decisione e arbitrio al padre riconosciuto dominus della gestione familiare. La Corte di appello ha rilevato che per anni la moglie ha accettato questo stato di fatto e solo nel 2007, in relazione al problema della partecipazione dei figli all’economia familiare, sono sorti i contrasti fra i coniugi che hanno portato poi alla separazione. Da tali considerazioni la Corte di appello ha dedotto che su questo punto specifico la vita familiare si è disgregata e proprio i diversi schieramenti dei figli rispetto alla posizione dei genitori evidenziano che non certo e non solo ai comportamenti del padre è possibile ricollegare detta disgregazione.
4. Propone ricorso per cassazione A.V. affidandosi ad un unico motivo di impugnazione con il quale deduce violazione degli artt. 143 e 144 c.c. e contraddittoria motivazione. La ricorrente ritiene la sentenza impugnata contrastante con le norme citate che impongono ai coniugi l’obbligo reciproco di collaborazione e di concorde determinazione dell’indirizzo della vita familiare con la conseguenza che se i coniugi esercitano congiuntamente un’attività economica per trarne i mezzi di sostentamento della famiglia essi debbono collaborare in posizione paritaria nell’esercizio e nella gestione dell’attività comune senza che l’uno possa pretendere di gestirla ad esclusione dell’altro. Ritiene inoltre la ricorrente contraddittoria la motivazione che, per un verso ha accertato che la rottura del rapporto coniugale è derivata da un unico e ben individuato fattore causale e cioè la pretesa del marito di gestire l’azienda agricola comune, alla quale ha partecipato la moglie con il proprio lavoro e la comproprietà dei terreni, in modo unilaterale e a proprio esclusivo arbitrio, senza renderne alcun conto e addirittura appropriandosi e distraendo per sé i proventi e le risorse dell’azienda. Mentre per altro verso ha, contraddittoriamente, negato la responsabilità del T. nel provocare la intollerabilità della convivenza e nella fine del rapporto coniugale.
Ritenuto che
5. il ricorso è fondato. Al di là dell’accertamento di una mala gestio del T. nella conduzione dell’impresa familiare la domanda di addebito proposta dalla V. aveva ad oggetto un comportamento interpersonale dispotico del marito che ha lentamente ma irreparabilmente minato l’affectio coniugalis. A fronte di un riscontro effettivo di questo dato esistenziale che ha contraddistinto la vita familiare la Corte di appello ha valorizzato elementi sociologici e psicologici che non possono avere rilievo se rapportati ai principi che ispirano il diritto di famiglia da almeno quarant’anni. Ci si riferisce cioè al principio di uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi (art. 3 Cost.) e all’affidamento della costituzione e conservazione del rapporto matrimoniale (art. 29 della Costituzione) a un criterio di regolazione dei rapporti coniugali basato sulla ricerca dell’accordo dei coniugi e sul rispetto della pari dignità dei coniugi nella conduzione della vita familiare (cfr. Cass. civ. sezione i n. 13983 dei 19 giugno 2014). In tale quadro di riferimento ai valori costituzionali fondamentali in materia familiare non è possibile giustificare uno scostamento da tali principi basato sul permanere della rilevanza, in alcune aree sociali, di quel ruolo gerarchico che legittimava l’autorità del marito nelle società patriarcali.
6. Per altro verso il principio per cui l’addebito della separazione richiede la rigorosa prova sia del compimento da parte del coniuge di specifici atti consapevolmente contrari ai doveri del matrimonio – quelli tipici previsti dall’art. 143 c.c., e quelli posti a tutela della personalità individuale di ciascun coniuge in quanto singolo e membro della formazione sociale familiare ex artt. 2 e 29 Cost. – sia del nesso di causalità tra gli stessi atti e il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza non consente di attribuire valore a un atteggiamento di tolleranza del coniuge che subisce atti lesivi della propria dignità e del proprio diritto all’uguaglianza nelle relazioni familiari. Infatti tale atteggiamento, anche se giustificato, più o meno consapevolmente, da una finalità di conservazione dei legame coniugale e familiare determinato da una dipendenza psicologica dal coniuge dominante o dalla subordinazione a un interesse presunto o reale dei figli, non può valere a rendere disponibili valori e diritti di rango costituzionale la cui violazione è certamente valutabile ai fini dell’accertamento della responsabilità per la crisi irreversibile del matrimonio anche se quest’ultima costituisce l’esito di un lungo processo di evoluzione psicologica del coniuge più debole tale da rendere alla fine intollerabili comportamenti subiti per lungo tempo nel corso del matrimonio. Né infine l’insorgenza e la insanabilità del conflitto su una specifica questione di contenuto economico può rendere irrilevante la considerazione di un pregresso comportamento lesivo della pari dignità del coniuge che rivendica infine il diritto a partecipare alla decisione su questioni di rilevante importanza per la vita familiare in posizione di uguaglianza e con il rispetto del principio della ricerca dell’accordo dei coniugi.
7. Per la riconsiderazione della vicenda matrimoniale alla luce dei predetti principi la sentenza della Corte di appello va cassata con rinvio alla stessa Corte che, in diversa composizione, regolerà anche le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Venezia anche per le spese del giudizio di cassazione. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del decreto legislativo n. 196/2003.
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