Il termine “animali” utilizzato dall’imputato nel rivolgersi alle p.o. si presenta offensivo dell’onore e decoro dei destinatari, con esso volendosi attribuire alle persone offese mancanza di senso civico e di educazione, caratteristica questa, secondo la comune sensibilità, lesiva dell’ altrui reputazione. Se, infatti, il bene giuridico tutelato dalla norma ex art. 595 c.p., è l’onore nel suo riflesso in termini di valutazione sociale (alias reputazione) di ciascun cittadino e l’evento è costituito dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno (parola, disegno) lesivo, che sia diretto, non in astratto, ma concretamente ad incidere sulla reputazione di uno specifico cittadino, l’espressione oggetto di contestazione è obiettivamente pregiudizievole della reputazione della persona offesa, concretizzando un pregiudizio anche la divulgazione di qualità negative idonee ad intaccarne l’opinione tra il pubblico dei consociati

Suprema Corte di Cassazione

sezione V penale

sentenza 26 agosto 2016, n. 35540

Ritenuto in fatto

1.Con sentenza in data 2.2.2015 il Tribunale di Messina confermava la sentenza dei locale Giudice di Pace con la quale L. C. era stata condannata alla pena di euro 400,00 di multa, oltre al risarcimento danni in favore della parte civile, per il reato di cui all’art. 595 c.p., perché in presenza di più persone, nel corso dell’udienza pubblica tenutasi dinanzi al Giudice di Pace di Messina, nel rendere spontanee dichiarazioni ex art. 494 c.p.p., nella qualità di imputata, offendeva la reputazione di N.A. e M. N. (quest’ultimo coimputato nello stesso procedimento) affermando: questi “non sono persone, ma animali”.
2. Avverso tale sentenza l’imputata, a mezzo dei suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi di ricorso, con i quali lamenta:
-con il primo motivo, la violazione, l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 42 e 595 C.P.; in particolare, la condotta ascritta alla ricorrente non integra l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 595 c.p., per mancanza, sia dell’elemento soggettivo del reato, che di quello oggettivo, non avendo l’imputata inteso offendere, né diffamare, i coniugi M. ed ha utilizzato la suddetta frase al fine di far meglio comprendere al Giudice di Pace i fatti per i quali era maturata l’imputazione di cui al procedimento; nelle dichiarazioni spontanee rese dall’imputata è emerso il mero sfogo e l’esasperazione subita sin dal 1999, epoca in cui i coniugi M. trasferiti nell’appartamento sovrastante, iniziavano ad assumere atteggiamenti persecutori nei confronti dell’imputata e del marito; parimenti inesistente deve ritenersi l’elemento oggettivo del reato, atteso che il Giudice dell’appello, con motivazione insufficiente e/o illogica, ha disatteso il consolidato principio, secondo cui non integrano la condotta di diffamazione le espressioni verbali che si risolvano in dichiarazioni di insofferenza rispetto all’azione del soggetto nei cui confronti sono dirette e sono prive di contenuto offensivo nei riguardi dell’altrui onore o decoro, persino se formulate con terminologia scomposta ed ineducata; nel caso di specie, è emerso un contesto di rapporti tesi e contrastati a causa di fatti pregressi e proprio nel procedimento in cui la L. ha reso le dichiarazioni spontanee il M. rivestiva la qualità di imputato, per aver cagionato al marito P. P., colpendolo al viso ed al costato, lesioni personali volontarie, fatti questi per i quali l’imputato è stato condannato;
-con il secondo motivo, la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione ed erronea applicazione dell’ art. 599 c.p., atteso che la motivazione della sentenza impugnata non esplica adeguatamente le ragioni di diritto che hanno condotto alla statuizione giudiziale, in palese violazione del principio di certezza del diritto; se i Giudici di merito avessero adeguatamente analizzato le emergenze processuali ed anche le dichiarazioni del P., marito della ricorrente, avrebbero applicato l’esimente in questione;
-con il terzo motivo, nel caso in caso di ritenuta responsabilità dell’imputata, applicarsi in subordine la causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131-bis c.p. sussistendone tutti i presupposti di legge.

Considerato in diritto

Il ricorso è inammissibile, siccome in più punti generico e, comunque, manifestamente infondato.
1. Ed invero, con il primo motivo di ricorso l’imputata contesta la ricorrenza degli elementi oggettivo e soggettivo dei reato di diffamazione contestatole, laddove le sentenze di merito, senza incorrere in vizi, con congrua motivazione hanno dato atto della sussistenza di entrambi tali elementi dei reato. Non merita censura, infatti, la valutazione, secondo cui il termine “animali” utilizzato nel rivolgersi alle p.o. si presenta offensivo dell’onore e decoro dei destinatari, con esso volendosi attribuire alle persone offese mancanza di senso civico e di educazione, caratteristica questa, secondo la comune sensibilità, lesiva dell’ altrui reputazione.
Se, infatti, il bene giuridico tutelato dalla norma ex art. 595 c.p., è l’onore nel suo riflesso in termini di valutazione sociale (alias reputazione) di ciascun cittadino e l’evento è costituito dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno (parola, disegno) lesivo, che sia diretto, non in astratto, ma concretamente ad incidere sulla reputazione di uno specifico cittadino (Sez. V, n. 5654 del 19/10/2012), l’espressione oggetto di contestazione è obiettivamente pregiudizievole della reputazione della persona offesa, concretizzando un pregiudizio anche la divulgazione di qualità negative idonee ad intaccarne l’opinione tra il pubblico dei consociati (Sez. V, n. 43184 del 21/09/2012).
2. In merito, poi, alla ricorrenza della scriminante di cui all’art. 599/2 c.p. dedotta con il secondo motivo di ricorso, il giudice d’appello ha evidenziato come nella fattispecie non si ravvisa alcun fatto ingiusto altrui che abbia potuto determinare lo stato d’ira dell’imputata, consentendo di ritenere non punibile la sua condotta. In particolare, la sentenza impugnata con ragionamento logico immune da censura ha evidenziato come il fatto ingiusto non può ritenersi integrato dall’avere le parti offese querelato la L. in relazione ai fatti per cui era processo, avendo le stesse esercitato un legittimo diritto, né si configura alla luce della pronuncia di assoluzione, in grado di appello, della medesima imputata nel giudizio n. 31/06 e 469/05 RGNR, assoluzione peraltro che si fonda – come emerge dalla lettura della motivazione della sentenza, versata in atti – sulla mancanza di riscontri al dichiarato delle persone offese, ritenuti, nella specie, necessari in ragione dei rapporti conflittuali tra le parti, né vi è prova, che l’imputata fosse stata calunniata e che ciò avesse determinato la sua reazione offensiva nei confronti delle parti civili. Piuttosto, è emerso inequivocabilmente come la stessa nutrisse ragioni di astio nei confronti del M. e della N., legate, a futili litigi tra condomini.
3. Per quanto concerne, infine, la richiesta di applicazione delle disposizioni relative al novello art. 131 bis c.p. in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, introdotte dal Decreto Legislativo 16 marzo 2015, n. 28 a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67, si osserva che la valutazione di tale richiesta risulta preclusa dalla declaratoria di inammissibilità del ricorso. Invero , una volta ritenuta la possibilità di rilevare in sede di legittimità la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p., sulla base di più pronunce di questa Corte, non essendo a ciò di ostacolo la natura del giudizio per cassazione, la causa di non punibilità non può essere rilevata nel caso in cui il ricorso per cassazione si presenti inammissibile.
Depongono senz’altro per tale interpretazione i principi più volte affermati da questa Corte a S.U., secondo cui l’inammissibilità del ricorso per cassazione, dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi, non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, ogni possibilità di dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. (Sez. Un., n. 32 del 22/11/2000 Rv. 217266), sia nel senso di farle valere, sia di rilevarle di ufficio (Sez. Un., n. 23428 del 22/03/2005).
L’inidoneità di un ricorso inammissibile a costituire il rapporto giuridico processuale di impugnazione rende, quindi, irrilevante lo “ius superveniens”, più favorevole che appunto non può essere rilevato.
Né può ritenersi che, nel caso di specie, si verta in un’ipotesi di abolitio crimínis che risulterebbe rilevabile, comunque, in questa sede, oltre che innanzi al giudice dell’esecuzione ex art. 673 cod. proc. pen.
Ed invero, come evidenziato in premessa, nel caso di specie, il reato sussiste e la non punibilità per la particolare tenuità è applicabile solo all’esito della verifica della sussistenza del fatto e della sua illiceità penale, come emerge chiaramente dal disposto dell’art. 651-bis c.p.p., sicchè non può ritenersi configurabile nella fattispecie una situazione riconducibile a quella contemplata dall’art. 673/1 c.p. comportante la revoca della sentenza “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”.
4. Alla declaratoria di inammissibilità segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile a colpa del ricorrente (Corte Costituzionale n. 186 del 7-13 giugno 2000), al versamento, a favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 1000,00, ai sensi dell’art. 616 c.p.p.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

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