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In ogni caso i motivi in esame, risolventesi tutti al di la’ del nomen juris delle relative rubriche in censure di ordine motivazionale, non individuano in relazione ad alcuno dei passaggi censurati, concrete fratture motivazionali od illogicita’ manifeste della sentenza impugnata le quali soltanto potrebbero configurare il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera e). Il vizio motivazionale deducibile in sede di legittimita’ deve essere diretto ad individuare un preciso difetto del percorso logico argomentativo offerto dalla Corte di merito, che va non solo identificato come illogicita’ manifesta della motivazione o come omissione argomentativa, intesa sia quale mancata presa in carico degli argomenti difensivi, sia quale carente analisi delle prove a sostegno delle componenti oggettive e soggettive del reato contestato, ma deve essere altresi’ decisivo, ovverosia idoneo ad incidere sul compendio indiziario cosi’ da incrinarne la capacita’ dimostrativa, non potendo il sindacato di legittimita’, riservato a questa Corte, dilatarsi nella indiscriminata rivalutazione dell’intero materiale probatorio che si risolverebbe in un nuovo giudizio di merito. Invero coerentemente con la ratio sottesa al giudizio di legittimita’ nel momento del controllo della motivazione, la Corte di cassazione non e’ tenuta a stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, ne’ a condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilita’ di apprezzamento. Pertanto, essendo la contraddittorieta’ logica intrinseca al testo stesso del provvedimento impugnato, l’esame consentito in questa sede e’ fisiologicamente limitato al controllo se la motivazione dei giudici del merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito (Cass. Sez. U. n.6402 del 30.4.1997, Dessimone, Rv 207944, Cass. Sez. 2 n.30918 del 07/05/2015, Falbo, Rv. 264441, Cass., sez. 1, 16.11.2006, n. 42369, De Vita, Rv. 235507, Cass., Sez.4 n.4842 del 2.12.2003, Elia, Rv 229369,).
Passando alla disamina del primo motivo, il medesimo deve ritenersi inammissibile anche sotto il profilo dell’indeterminatezza non essendo dato evincere dalle censure in punto di una non meglio specificata valutazione frazionata della deposizione della p.o. e delle dichiarazioni dei testi (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), neppure sinteticamente riprodotte, quali siano i passaggi della sentenza impugnata censurati sul piano dell’asserita illogicita’ o carenza motivazionale rispetto all’asserita incongruenza tra le dichiarazioni rese dalla vittima e le altre fonti di prova. Genericita’ questa che preclude ogni possibile disamina da parte di questo Collegio.
2. In ordine al secondo motivo, del tutto correttamente la Corte capitolina ha escluso alla radice la configurabilita’ di un consenso putativo da parte della p.o. ritenendo la relativa eccezione preclusa dalla negazione da parte dell’imputato di aver commesso il fatto criminoso. Dal momento che la scriminante putativa del consenso dell’avente diritto si concretizza nella ragionevole persuasione in capo all’agente di operare con l’approvazione della persona che puo’ validamente disporre del diritto, e’ evidente che, vertendosi in un caso di errore sulla sussistenza di una causa di giustificazione, in tanto possa invocarsi un errore di percezione sull’antigiuridicita’ della condotta ritenendosi sussistente una causa di giustificazione che invece non e’ tale, e dunque possa escludersi il dolo, in quanto vi sia l’ammissione da parte dell’imputato di aver posto in essere la condotta astrattamente corrispondente alla fattispecie incriminata, non essendovi altrimenti spazio per invocare cause esimenti, putative o meno che siano, e conseguentemente l’applicabilita’ dell’articolo 59 c.p., comma 4. In ogni caso, muovendo dal principio univocamente acclarato dalla giurisprudenza cosi’ come da parte autorevole della dottrina, secondo il quale l’esimente putativa del consenso dell’avente diritto non e’ configurabile nel delitto di violenza sessuale, in quanto la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e l’errore sul dissenso si sostanzia pertanto in un errore inescusabile sulla legge penale, deve ritenersi che ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, e’ sufficiente che l’agente abbia la consapevolezza del fatto che non sia stato chiaramente manifestato il consenso da parte del soggetto passivo al compimento degli atti sessuali a suo carico, con conseguente irrilevanza dell’eventuale errore sull’espressione del dissenso anche ove questo non sia stato esplicitato (Sez. 3, n. 49597 del 09/03/2016 – dep. 22/11/2016, S, Rv. 268186; Sez. 3, n. 17210 del 10/03/2011 – dep. 03/05/2011, Rv. 250141). Peraltro” anche a voler ammettere la ricorribilita’ di un consenso presunto, si deve vertere in un contesto che, per le specifiche contingenze ed il complessivo contesto del fatto, lasci ragionevolmente presumere la persuasione in capo all’agente di operare con l’approvazione della persona che puo’ validamente disporre del diritto, certamente da escludersi nell’ipotesi di abuso sessuale da parte di un ispettore di polizia nell’esercizio delle sue funzioni nei confronti di una ragazza fermata perche’ a bordo di un’autovettura contenente sostanza stupefacente e dunque in evidente posizione se non di soggezione comunque di timore tale da condizionarne le reazioni.
3. In relazione al terzo motivo va premesso che, secondo l’univoco orientamento di questa Corte, il diritto all’ammissione delle prove indicate a discarico sui fatti oggetto delle prove articolate dall’accusa che l’articolo 495 c.p.p. riconosce all’imputato, deve armonizzarsi con il potere-dovere attribuito al giudice del dibattimento di valutare la rilevanza della prova richiesta al di la’ della definizione che ne venga data dalla parte istante in punto di decisivita’, cosi’ da contemperare il diritto di difesa, estrinsecantesi anche con l’offerta di prove a discarico, con il principio di ragionevole durata del processo, entrambi consacrati dall’articolo 111 della Carta Costituzionale. Pertanto il diritto alla prova contraria, garantito all’imputato anche dall’articolo 6, par. 3, lettera d) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo non si configura come assoluto, ma e’ subordinato ai poteri discrezionali del giudice cui e’ consentito il diniego, purche’ supportato da apposita motivazione immune da vizi logici e giuridici, della relativa richiesta allorquando si tratti di prove superflue o irrilevanti in conformita’ a quanto disposto dall’articolo 190 c.p.p., con la conseguenza che il giudice di appello, innanzi a quale sia dedotta la violazione dell’articolo 495 c.p.p. deve decidere sull’ammissibilita’ della prova sulla base degli stessi requisiti di pertinenza e rilevanza rispetto alla reiudicanda di cui al medesimo articolo 190 c.p.p. (Sez. U, n. 15208 del 25.2.2010, Mills, Rv. 246585; Sez. 6, n. 48645 del 6.11.2014, G. e altro, Rv. 261256; Sez. 6, n. 761 del 10.10.2006, Randazzo, Rv. 235598). Di tali principi la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione avendo ritenuto con motivazione congrua ed intrinsecamente logica che nessuna utilita’ avrebbero potuto apportare al processo, in cio’ compendiandosi la ritenuta superfluita’ posta fondamento del rigetto della richiesta, le deposizioni dei testi indicati dalla difesa, essendo gia’, in relazione alle circostanze sui quali erano stati chiamati a deporre, ampiamente acclarata dalla documentazione fotografica acquisita la presenza di un tatuaggio sull’inguine dell’imputato, ne’ un’ulteriore escussione della p.o. che aveva gia’ esaustivamente deposto in sede di incidente probatorio, nel corso del quale gli avvocati della difesa l’avevano sottoposta ad una serie di domande e di chiarimenti.
3. Manifestamente infondato per le ragioni gia’ esposte in premessa e’ anche il quarto motivo, avendo la Corte territoriale dato ampiamente conto dei presupposti legittimanti l’applicazione dell’aggravante di cui all’articolo 609 septies c.p., comma 3, n. 4) costituiti dalla stessa posizione pubblicistica dell’agente diretta di per se’ ad ingenerare un condizione di timore e di soggezione nella ragazza, tanto piu’ per avere egli posto in essere la condotta abusante nell’esercizio delle sue funzioni di commissario ed all’interno del Commissariato dove prestava la sua attivita’ lavorativa. Con coerente e logica motivazione i giudici di merito hanno percio’ ritenuto irrilevante il fatto che l’imputato non avesse mai in concreto correlato l’acquiescenza della ragazza alla posizione dei suoi amici dandole invece, sin dall’inizio, la certezza che non sarebbero stati mai arrestati, come del resto dalla medesima riconosciuto, al riguardo affermando che era la stessa posizione autoritativa derivante dal pubblico ufficio ricoperto dal prevenuto ad aver ingenerato nella vittima, in condizioni di naturale soggezione e timore all’interno di un Commissariato nell’attesa di conoscere le sorti dei ragazzi che erano stati fermati con lei in flagranza di un possibile illecito, la costrizione a subire il compimento degli atti sessuali, indipendentemente dalle convinzioni nello specifico da costei raggiunte circa i suoi effettivi poteri rispetto alle sorti dei compagni.
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