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1. Il primo motivo e’ inammissibile, giacche’ tutto versato in fatto e finalizzato ad una rivalutazione delle prove.
Rispondendo all’analoga doglianza proposta con l’atto di appello, la sentenza in esame (si veda pag. 4) ha indicato in maniera puntuale, coerente ed esaustiva gli elementi in base ai quali ha ritenuto con certezza che il redattore dei due articoli diffamatori fosse il (OMISSIS).
In presenza di una doppia conforma affermazione di responsabilita’, va, peraltro, ritenuta l’ammissibilita’ della motivazione della sentenza d’appello per relationem a quella della decisione impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli gia’ esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nell’effettuazione del controllo della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non e’ tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite dall’appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate.
In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruita’ della motivazione, tanto piu’ ove i giudici dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicche’ le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entita’ (Sez. 2, n. 1309 del 22 novembre 1993, Albergamo ed altri, rv. 197250; sez. 3, n. 13926 del 10 dicembre 2011, Valerio, rv. 252615).
2. Sebbene non risulti dedotto con l’atto di appello, deve essere accolto il secondo motivo di ricorso in quanto la relativa questione e’ rilevabile di ufficio.
2.1. Come si e’ detto, e’ stato contestato anche il reato di cui al Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 167 (trattamento illecito di dati).
Tale norma, tuttavia, contiene la clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca piu’ grave reato”, sicche’ va accertato se nel caso in esame il reato di diffamazione, contestato al capo 1, debba ritenersi in concreto piu’ grave rispetto a quello di trattamento illecito di dati.
2.2. Il collegio e’ consapevole che un risalente (ed isolato) orientamento ha in passato ritenuto che la maggior gravita’ del reato deve stabilirsi in relazione alla pena edittale detentiva, in particolare avendo riguardo alla pena massima in astratto comminata, oppure – in caso di pari gravita’ della massima – alla pena minima (sez. 5, n. 2817 del 16 gennaio 1986, D’Amato, rv. 172419).
Tuttavia, ritiene il collegio che la maggiore gravita’ del reato, comportando l’assorbimento di una fattispecie nell’altra in considerazione del suo effettivo minor disvalore dell’una a fronte dell’effettivo maggior disvalore dell’altra, va necessariamente valutata avendo riguardo alla pena in concreto irrogabile, e quindi tenendo anche conto delle circostanze in concreto ritenute e dell’esito dell’eventuale bilanciamento tra esse (Sez. 2, n. 36365 del 07/05/2013, Braccini e altri, Rv. 256877).
Nel caso in esame, pertanto, per effetto del diniego delle circostanze attenuanti generiche, la diffamazione aggravata (ai sensi dell’articolo 595 c.p., comma 3) risulta piu’ grave (perche’ punita con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore ad Euro 516) rispetto al reato di cui all’articolo 167, come contestato nella specie (punibile con la reclusione pari nel massimo a due anni).
2.3. Va quindi annullata senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 167 ed eliminata la relativa pena di mesi uno di reclusione, cosi’ come determinata dai giudici di merito in aumento ex articolo 81 c.p. rispetto a quella base per il reato piu’ grave di cui all’articolo 595 c.p..
P.Q.M.
La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 167 ed elimina la relativa pena di mesi uno di reclusione.
Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.

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