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Va osservato che questa Corte ha avuto gia’ modo di affermare che il potere gerarchico o, comunque, di sovraordinazione, non consente di esorbitare dai limiti della correttezza e del rispetto della dignita’ umana con espressioni che contengano un’intrinseca valenza mortificatrice della persona e si dirigano, piu’ che all’azione censurata, alla figura morale del dipendente, traducendosi in un attacco personale sul piano individuale, che travalichi ogni ammissibile facolta’ di critica (Sez. 5, n. 6758 del 21/01/2009 – dep. 17/02/2009, Bertocchi, Rv. 243335).
Essenziale e’ quindi accertare se l’espressione pronunciata dal titolare di una posizione sovraordinata si sia limitata alla censura di una determinata condotta lavorativa o professionale del sottoposto, ovvero, pur prendendo spunto da essa, sia trasmodata in un attacco personale all’individuo, atteso che non esorbitano dall’area della liceita’ penale le contestazioni che non censurino la persona in se’ e per se’ considerata ma la condotta professionale del dipendente (Sez. 5, n. 31624 del 24/06/2008 – dep. 29/07/2008, Bregoli, Rv. 241179).
La sentenza impugnata ha fatto buon governo di tali principi, avendo coerentemente evidenziato che nella lettera “incriminata”, oltre a non essere stato oltrepassato il limite della continenza, non compaiono valutazioni gratuite sulla persona o sulla condotta in generale della parte civile. E’ stata, infatti, valutata in maniera pesantemente negativa, con toni aspri, solo la sua condotta lavorativa, essendole stato rimproverato, oltre che uno scarso rendimento in uno specifico settore lavorativo, un atteggiamento improntato a marcata ostilita’ nei confronti della stessa dirigente.
Peraltro, su questo specifico ultimo punto, la sentenza impugnata ha messo in luce come tale rilievo trovi un riscontro oggettivo nella relazione ispettiva del dott. (OMISSIS), da cui emerge che il (OMISSIS) aveva firmato un esposto contro l’imputata, integrandolo nell'(OMISSIS), all’esito del quale, dopo nota di risposta della (OMISSIS) del 21.9.2010, la relazione ispettiva non aveva formulato contestazioni formali all’operato della prevenuta, avendo concluso che “..molta dell’ostilita’ verso la d.ssa (OMISSIS) era stata artatamente promossa da un gruppo di dipendenti per motivi.. probabilmente legati a posizioni di “potere” detenute all’interno dell’istituto e venute meno con la presa di servizio” dell’imputata (pag. 6 sentenza impugnata). All’imputata, era stato quindi mosso l’unico appunto di aver stentato ad assumere un rapporto con i dipendenti all’inizio del suo servizio.
Ne’ e’ persuasivo l’assunto del ricorrente secondo cui la Dirigente non avrebbe potuto inviare una nota negativa sul dipendente ai superiori, non essendo questa formalita’ prevista dalla legge che regola il rapporto di pubblico impiego. A prescindere dal rilievo che in questa sede si deve valutare non la correttezza amministrativa dell’operato della prevenuta (se dovesse o meno esercitare il potere disciplinare), ma la rilevanza penale delle espressioni contenute nella missiva “incriminata”, va osservato che, a seguito dell’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, il rapporto di pubblico impiego e’ stato attratto nell’orbita civilistica – l’articolo 2, comma 2 della legge citata prevede al comma 2 che i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinate dalle disposizioni del capo 1, titolo 2, del libro 5 del codice civile e dalle legge sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, e l’articolo 63 che le eventuali controversie sono devolute alla cognizione del giudice ordinario – con la conseguenza anche il potere disciplinare del datore di lavoro pubblico ha assunto una connotazione piu’ marcatamente di natura privatistica.
Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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