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1.Conviene prendere le mosse dall’analisi del secondo motivo di ricorso, che e’ fondato. In tema di sindacato del vizio di motivazione, infatti, il compito del giudice di legittimita’ non e’ quello di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta dai giudici di merito bensi’ di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni, a preferenza di altre (Sez. U., 13-12-1995, Clarke, Rv. 203428). Il sindacato del giudice di legittimita’ sulla motivazione del provvedimento impugnato deve pertanto essere volto a verificare che quest’ultima: a) sia “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente illogica”, perche’ sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente “contraddittoria”, ovvero sia esente da antinomie e da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo”, indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente, nei motivi posti a sostegno del ricorso, in misura tale da risultare radicalmente inficiata sotto il profilo della razionalita’ (Cass., Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, Rv. 251516).
2. Nel caso in disamina, l’apparato logico posto a base della sentenza di secondo grado non e’ esente da vizi, non evincendosi con chiarezza sulla base di quali argomentazioni i giudici di merito siano pervenuti all’asserto relativo alla sussistenza dell’aggravante della colpa con previsione. Come e’ noto, in
giurisprudenza, si e’ ritenuto che quest’ultima ricorra ove l’agente, pur rappresentandosi l’astratta possibilita’ della realizzazione del fatto costituente reato, abbia agito nella convinzione (Cass., Sez. 4, n. 16232 del 9-1-2014) o nella sicura fiducia (Cass., Sez 1, n. 31449 del 14-2-2012) che esso non si verifichera’. Non e’ dunque sufficiente la mera prevedibilita’ dell’evento, che costituisce requisito generale della colpa, ma occorre la prova della sua effettiva previsione, accompagnata dal convincimento che l’evento, in considerazione di tutte le circostanze del caso concreto, non accadra’ (Cass., Sez. 4, n. 24612 del 10-4-2014). Si pensi ai classici casi del giocoliere che lanci dei coltelli intorno ad una persona o dell’automobilista che, confidando nella propria abilita’ nella guida, effettui slalom spericolati tra altre auto. Si aggiunge, in dottrina, che quest’atteggiamento psicologico, in sostanza, si traduce nel passaggio da una rappresentazione generica in ordine alla idoneita’ di un comportamento, come quello tenuto dall’agente, a sfociare in astratto in un reato, ad una previsione concreta, che, per particolari circostanze, quel fatto non si verifichera’. Nel quadro di tale impostazione, pertanto, la colpa cosciente e’ connotata da una previsione astratta che si evolve nel superamento del dubbio e si risolve in una previsione negativa in merito al verificarsi dell’evento, in quanto nella colpa cosciente il verificarsi dell’evento rimane un’ipotesi teorica, che, nella coscienza del soggetto, non viene percepita come suscettibile di effettiva concretizzazione (Cass., Sez. 1, 26-6-1987, Arnone, Rv. 177670; Sez. 1, 3-6-1993, Piga, Rv. 195270; Sez. 1, 24-2-1994, Giordano, Rv.198272). E si e’ sottolineato, in giurisprudenza, come la colpa cosciente sia caratterizzata dal tratto tipico della colpa, che e’ la controvolonta’ dell’evento, che invece non e’ presente nel dolo eventuale (Cass., Sez. 1, 20-10-1986, Amante; Sez. 1, 21-4-1987, De Figlio, Rv. 176382). In quest’ottica, di recente, le Sezioni unite hanno affermato che ricorre la colpa cosciente allorche’ la volonta’ non sia diretta verso l’evento e l’agente, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l’evento illecito, si astenga dall’agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo. L’indagine giudiziaria, volta a ricostruire l’iter e l’esito del processo decisionale, puo’ fondarsi su una serie di indicatori, quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalita’ e le pregresse esperienze dell’agente; c) la durata e la ripetizione dell’azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilita’ con esso delle conseguenze collaterali; f) il grado di probabilita’ di verificazione dell’evento; g) le conseguenze negative anche per l’autore, in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si e’ svolta l’azione; i) la possibilita’ di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che I’ agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento (c.d. prima formula di Frank): Sez. U., n. 38343 del 24-4-2014, Espenhahn, Rv. 261104.
3. Nel caso in esame, il giudice di secondo grado ha evidenziato come l’imputato, viaggiando ad una velocita’ di 90 km/h, con le luci anabbaglianti inserite, abbia avvistato l’area in cui stazionava il mezzo dei Carabinieri a una distanza di soli 60 m; distanza che, secondo la consulenza, ha percorso in un tempo pari a due secondi e mezzo. Dunque l’investimento della vittima e’ avvenuto in un arco temporale estremamente ristretto. E la Corte d’appello ha sottolineato l’inverosimiglianza dell’ipotesi secondo la quale l’imputato, in quei due secondi e mezzo, si sia prospettato l’uccisione del militare, tanto piu’ che la scena era drammaticamente in movimento, atteso che il Carabiniere, cosi’ come riferito dal capopattuglia, testimone oculare, non era affatto rimasto fermo ma si era spostato fin quasi al centro della carreggiata, luogo nel quale e’ stato localizzato il punto d’urto. Dunque non solo il tempo era estremamente limitato ma la situazione materiale, in quei due secondi e mezzo, si era modificata, con l’importante conseguenza che l’automobilista avrebbe dovuto, a sua volta, modificare le proprie determinazioni e il proprio agire. Di qui la conclusione della Corte d’appello secondo cui non vi e’ alcun elemento da cui desumere che il momento rappresentativo si fosse definito nella mente dell’imputato.
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