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1. In funzione dell’accertamento della sussistenza di dedotta violazione dell’art. 3 della CEDU, si osserva che per la determinazione dello spazio minimo individuale, inteso come spazio funzionale al movimento della persona chiusa all’interno di cella detentiva, soprattutto alla luce delle specifiche indicazioni recate dal paragrafo 114 della sentenza emessa il 20 ottobre 2016 dalla Grande Camera della Corte EDU a definizione del caso Mu. contro Croazia (i detenuti debbono essere in grado di muoversi normalmente all’interno della cella) – la cui complessiva motivazione non è peraltro scevra da talune ambiguità -, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di precisare, conformando, con una scelta ispirata all’espansione dei diritti soggettivi dei detenuti, la propria interpretazione di spazio minimo individuale a quella data dalla sentenza da ultimo citata (è appena il caso di ricordare che l’art. 35-ter ord. pen. indica espressamente, per quanto qui interessa, quale presupposto dell’insorgere del diritto alla riparazione da essa sancito che le condizioni di detenzione debbono essere «tali da violare l’articolo della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali…, come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo»; senza che sia necessario, in funzione della decisione sul ricorso, soffermarsi sulla specifica novità, quanto meno sotto il profilo formale, costituita dall’inserimento fra le norme di rango primario dell’interpretazione data all’art. 3 della citata Convenzione dalle sentenze della Corte EDU, da considerare peraltro, quanto a contenuti, nei limiti più volte affermati dalla giurisprudenza costituzionale), che per la determinazione dello spazio destinato al movimento del detenuto è necessario escludere dal relativo computo, oltre l’area destinata ai servizi igienici, le superfici «occupate da strutture tendenzialmente fisse – tra cui il letto – mentre non rilevano gli altri arredi facilmente amovibili»; conseguentemente affermando il principio secondo cui «per spazio minimo individuale in cella collettiva va intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto ed idonea al movimento, il che comporta la necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi ma anche quello occupato dal letto» (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, n. 52819 del 9 settembre 2016, Sc., Rv. 268231).
La sentenza testé citata contiene, peraltro, proprio in considerazione dello stato di evoluzione della giurisprudenza della Corte EDU da essa presa in considerazione, la quanto mai significativa precisazione secondo cui l’accertamento della sussistenza di uno spazio interno della cella inferiore ai 3 mq. non determina, di per sé, violazione dell’art. 3 della Convenzione, «ma una forte presunzione di trattamento inumano o degradante, superabile solo attraverso l’esame congiunto e analitico delle complessive condizioni detentive e della durata di tale restrizione dello spazio minimo», dal momento che la sentenza della Grande Camera del 20 ottobre 2016 nel caso Mu. contro Croazia:
a) ha confermato che l’esigenze dei 3 mq. di superficie al suolo per detenuto in cella collettiva deve restare la norma minima fondante l’apprezzamento delle condizioni di detenzione sotto l’aspetto dell’art. 3 della Convenzione (paragrafo 110);
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