Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 23 novembre 2017, n. 53323. Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente: i c.d. “disturbi della personalità”

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Ciò nonostante, la motivazione sul punto è ampia (mentre quella della sentenza di primo grado era scarna) e ha toccato tutti i punti rilevanti della valutazione: l’assenza di qualsiasi precedente anamnestico indicativo di una malattia psichiatrica, l’esistenza di un mero disturbo dell’adattamento con sintomatologia ansioso-depressiva, l’irrilevanza dei sintomi percepiti dall’imputato (fenomeni parestesici, comuni negli stati d’ansia e in quelli depressivi), il distacco emotivo mostrato, la non significatività dei medicinali somministrati al soggetto per dimostrare l’esistenza di una patologia psichiatrica, l’inesistenza di una schizofrenia paranoidea, che si sarebbe manifestata nella giovane età, l’esito dei test psicologici, la mancanza di valenza dimostrativa di dichiarazioni di testi non esperti nel campo psichiatrico.
Il ricorrente definisce erroneamente il disturbo dell’adattamento come “vera e propria malattia mentale”, mentre si tratta di condizione psicologica. Il punto di riferimento è la sentenza delle Sezioni Unite Raso, secondo cui, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità”, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale i fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità” (Sez. U, n. 9163 del 25/01/2005 – dep. 08/03/2005, Raso, Rv. 23031701).
Il ricorrente, partendo da tale erronea classificazione del disturbo di adattamento, ravvisa un’insussistente contraddizione nel passaggio della motivazione in cui si dà atto dell’inesistenza di precedenti psichiatrici: al contrario, l’inesistenza di tali precedenti è del tutto coerente con l’assenza di una malattia psichiatrica.
In realtà, il tentativo è di convincere questa Corte che la mancanza di contatti con strutture psichiatriche nel passato era attribuibile alle condizioni economiche precarie di C. – argomentazione del tutto generica – e che la condotta antisociale, di cui la sentenza dà atto, era sintomo di una patologia psichiatrica nascosta; viene riproposto il tema dei medicinali somministrati in carcere all’imputato e richiamate – del tutto genericamente e senza relativa allegazione – le dichiarazioni di terze persone ritenute ininfluenti dalla sentenza.
In definitiva, il motivo di ricorso non rientra affatto nella denuncia del vizio di motivazione contemplato dall’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen..
Analoga considerazione deve essere fatta con riferimento al secondo motivo di ricorso, avente ad oggetto l’aggravante della premeditazione.
In effetti, il ricorrente tralascia del tutto la motivazione della sentenza impugnata, in base alla quale la premeditazione del delitto poteva essere facilmente dedotta dalle dichiarazioni dello stesso imputato e dalle condotte precedenti tenute nei confronti della moglie, riferite dalla figlia della coppia, sostenendo che dalla sua lettura non emergerebbe l’individuazione del momento di insorgenza del proposito criminoso: ma, appunto, la sentenza dimostra ampiamente che esso risaliva ad epoca assai precedente e che la risoluzione era rimasta ferma nel tempo, fino a giungere alla lucida realizzazione dell’orribile delitto.
Alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione consegue ex lege, in forza del disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma, tale ritenuta congrua, di Euro 2.000 (duemila) in favore delle Cassa delle Ammende, non esulando profili di colpa nel ricorso palesemente infondato (v. sentenza Corte Cost. n. 186 del 2000); consegue, altresì, la condanna al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili nel presente giudizio.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 2.000 alla Cassa delle Ammende; condanna, altresì, il ricorrente alla rifusione delle spese sopportate nel grado dalle parti civile costituite D.F.E. e C.F. nonché Di.Fr.El. , che liquida in favore dell’avv. Alessandro Motta in Euro 4.000 ed in favore dell’avv. Alfredo Nello in Euro 3.500 oltre, per entrambi i difensori, spese generali, IVA e CAP come per legge, con distrazione in favore dei difensori antistatari.

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