Amministratore di fatto della societa’ fallita. Sindaci responsabili anche per la gestione della cassa della società. L’affidamento in via esclusiva all’amministratore delegato non li esonera, infatti, dalla responsabilità per le indebite restituzioni da parte dell’Ad

Sentenza 18 settembre 2017, n. 21567
Data udienza 17 maggio 2017

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPPI Aniello – Presidente

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 16349/2015 R.G. proposto da:

(OMISSIS), rappresentato e difeso dagli Avv. Prof. (OMISSIS), con domicilio eletto presso lo studio del primo in (OMISSIS);

– ricorrente e controricorrente –

contro

FALLIMENTO DELLA (OMISSIS) S.R.L. in liquidazione, in persona del curatore p.t. Avv. (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’Avv. (OMISSIS), con domicilio eletto in (OMISSIS);

– controricorrente e ricorrente incidentale –

e

(OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 7769/14 depositata il 19 dicembre 2014.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 17 maggio 2017 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino;

uditi gli Avv. (OMISSIS);

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del quarto motivo del ricorso principale e del secondo motivo del ricorso incidentale.

FATTI DI CAUSA

1. Il curatore del fallimento della (OMISSIS) S.r.l. in liquidazione convenne in giudizio (OMISSIS), per sentirlo condannare, in qualita’ di amministratore di fatto della societa’ fallita, al pagamento di una somma pari alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo realizzato, o di quella necessaria all’integrale soddisfacimento dei creditori.

A sostegno della domanda, affermo’ che il (OMISSIS) aveva attivamente partecipato alla gestione ed all’attivita’ della societa’ fallita, condizionandone le scelte strategiche ed operative per volgerle al conseguimento di propri fini personali, in modo tale da determinare il dissesto della societa’.

Si costitui’ il convenuto e resistette alla domanda, chiedendone il rigetto.

1.1. Il giudizio, dapprima riunito a quello promosso dal curatore del fallimento nei confronti degli amministratori di diritto e dei sindaci, ed avente anch’esso ad oggetto la condanna al risarcimento dei danni arrecati alla societa’, fu successivamente separato dallo stesso.

In seguito, spiego’ intervento volontario (OMISSIS), gia’ amministratore della societa’, il quale, premesso di essere stato condannato al risarcimento nell’altro giudizio, aderi’ alle difese del curatore, chiedendo accertarsi la responsabilita’ esclusiva del (OMISSIS), con la condanna dello stesso alla rivalsa delle somme dovute al fallimento.

1.2. Con sentenza del 20 luglio 2011, il Tribunale di Roma accolse la domanda proposta dal curatore, condannando il (OMISSIS) al pagamento della somma di Euro 19.053.657,88, oltre interessi, e dichiarando invece inammissibile l’intervento del (OMISSIS).

3. L’impugnazione proposta dal (OMISSIS) e’ stata parzialmente accolta dalla Corte d’Appello di Roma, che con sentenza del 19 dicembre 2014 ha rideterminato in Euro 5.970.758,21, oltre interessi legali dalla domanda, la somma dovuta dall’appellante.

A fondamento della decisione, la Corte ha innanzitutto escluso che la separazione dei giudizi comportasse la nullita’ della sentenza di primo grado, osservando che tale provvedimento, non precluso dall’iniziale riunione e non lesivo dell’integrita’ del contraddittorio, trovava giustificazione nella circostanza che, mentre il giudizio promosso nei confronti degli amministratori di diritto era ormai maturo per la decisione, quello promosso nei confronti dell’amministratore di fatto richiedeva l’acquisizione di ulteriori elementi di prova, e segnatamente l’assunzione della prova testimoniale dedotta dal curatore.

Nel merito, la Corte ha ritenuto che lo svolgimento di fatto delle funzioni di amministratore da parte del convenuto fosse comprovato proprio dalle deposizioni rese dai testi, confermandone l’attendibilita’: ha infatti escluso che la credibilita’ del teste (OMISSIS) fosse compromessa dall’insinuazione dello stesso al passivo del fallimento o dalla genericita’ della deposizione, rilevando che il coinvolgimento del (OMISSIS) avrebbe inciso esclusivamente sull’individuazione dei soggetti obbligati al pagamento, mentre l’oggetto della prova, costituito dall’intromissione nella gestione sociale, non richiedeva la specifica indicazione degli atti posti in essere; questi ultimi potevano d’altronde essere stati compiuti anche in un luogo diverso dalla sede della societa’, in considerazione della precisazione del teste, secondo cui le priorita’ individuate dai dirigenti dovevano comunque passare al vaglio del (OMISSIS). La Corte ha altresi’ confermato l’attendibilita’ del teste (OMISSIS), osservando che la circostanza da lui riferita, secondo cui il (OMISSIS) aveva l’abitudine di partecipare alle riunioni del consiglio d’amministrazione, pur non rivestendo alcuna carica, confermava l’intromissione del convenuto nella gestione della societa’. Ha invece escluso la rilevanza della deposizione del teste (OMISSIS), rilevando che la dichiarazione negativa da lui resa poteva essere spiegata anche con l’ignoranza delle attivita’ del (OMISSIS). Cio’ posto, la Corte ha ritenuto irrilevante la circostanza che il (OMISSIS) fosse socio della societa’ fallita, osservando che tale posizione da un lato non era incompatibile con l’esercizio delle funzioni di amministratore, dall’altro non ne consentiva di per se’ l’esercizio, potendo il socio concorrere esclusivamente all’approvazione del bilancio. Premesso che l’ingerenza del convenuto trovava giustificazione proprio nell’interesse personale alla gestione della societa’, sotteso al possesso delle relative azioni, ha ritenuto provato che nel corso degli anni egli avesse compiuto una pluralita’ di atti di pertinenza esclusiva degli amministratori.

Quanto ai danni arrecati alla societa’, la Corte ha ritenuto che la mancata riscossione dei crediti vantati dalla societa’ fallita nei confronti della (OMISSIS) S.r.l. fosse astrattamente sufficiente ai fini dell’affermazione della responsabilita’ del convenuto, indipendentemente dall’idoneita’ a determinare il dissesto della societa’; ne ha tuttavia escluso l’addebitabilita’ al (OMISSIS), rilevando che l’unico atto idoneo ad evitare il danno, consistente nella proposizione di una domanda giudiziale, richiedendo il conferimento della procura ad un avvocato, poteva essere compiuto esclusivamente dagli amministratori di diritto. Ha invece confermato la responsabilita’ del (OMISSIS) per l’erogazione della somma complessiva di Euro 11.000.000 circa in favore di due societa’ facenti parte della compagine di quella fallita e da lui controllate, osservando che egli stesso aveva riconosciuto di essere possessore delle relative quote, ed affermando l’idoneita’ di tale circostanza a far presumere che egli avesse aderito alla decisione degli amministratori di erogare la predetta somma. Ha reputato irrilevante, al riguardo, la circostanza che il convenuto avesse immesso nelle casse sociali somme superiori a Lire 30.000.000.000, ritenendo non provato che le predette dazioni costituissero prestiti concessi alla societa’, idonei a far sorgere il diritto alla restituzione o suscettibili di compensazione.

La Corte ha poi escluso che il cumulo della condanna con quelle pronunciate nei confronti degli amministratori di diritto comportasse una locupletazione per la societa’, osservando che tale pericolo era scongiurato dall’espresso riferimento al carattere solidale dell’obbligazione. Rilevato peraltro che l’atto di mala gestio addebitato al (OMISSIS) aveva condotto alla condanna dello stesso al pagamento di una somma superiore a quella posta a carico degli altri amministratori, ha ritenuto che tale differenziazione, dovuta al riconoscimento della rivalutazione monetaria maturata tra le due sentenze di primo grado, non fosse compatibile con la solidarieta’ passiva e non potesse trovare giustificazione neppure nella separazione dei giudizi, oltre a trovare ostacolo nella trasformazione dell’obbligazione in debito di valuta, conseguente alla liquidazione della somma dovuta.

4. Avverso la predetta sentenza il (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi. Il curatore del fallimento ha resistito con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale, articolato in tre motivi, al quale il (OMISSIS) ha replicato con controricorso. Il (OMISSIS) non ha svolto attivita’ difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la nullita’ della sentenza impugnata, per violazione dell’articolo 102 c.p.c. e degli articoli 2392, 2393 e 2394 c.c., nonche’ del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, articolo 146, comma 2, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto legittima la separazione dei giudizi di responsabilita’, nonostante la configurabilita’ di un litisconsorzio necessario di natura quanto meno processuale tra le parti. Premesso che la riunione dei giudizi trovava giustificazione nell’allegazione, a sostegno della domanda, di una condotta unitaria, attribuita collettivamente e collegialmente a tutti i soggetti coinvolti nella gestione e nel controllo della societa’, afferma che il relativo accertamento poteva aver luogo soltanto nei confronti di tutti i compartecipi, determinandosi, per effetto della realizzazione del simultaneus processus, un cumulo processuale inscindibile.

1.1. Il motivo e’ infondato.

Premesso che il provvedimento di separazione delle cause non e’ di per se’ censurabile in sede di legittimita’, costituendo espressione di un potere discrezionale del giudice di merito (cfr. Cass., Sez. 6, 18/11/2014, n. 24496; Cass., Sez. 3, 8/09/2006, n. 19299; Cass., Sez. lav., 5/08/2003, n. 11831), deve escludersi che, nella specie, la trattazione separata delle cause connesse abbia impedito lo svolgimento del giudizio nei confronti di tutti i soggetti che avrebbero dovuto parteciparvi, con conseguente lesione dell’integrita’ del contraddittorio.

In tema di responsabilita’ degli amministratori di societa’, la giurisprudenza di legittimita’ e’ infatti orientata pacificamente nel senso che, ove l’azione venga proposta nei confronti di una pluralita’ di soggetti, in ragione della comune partecipazione degli stessi, anche in via di mero fatto, alla gestione amministrativa e contabile, tra i convenuti non si determina una situazione di litisconsorzio necessario, tenuto conto della natura solidale della obbligazione dedotta in giudizio, che, dando luogo ad una pluralita’ di rapporti distinti, anche se collegati tra loro, esclude l’inscindibilita’ delle posizioni processuali degli amministratori, consentendo quindi di agire separatamente nei confronti di ciascuno degli stessi (cfr. Cass., Sez. 1, 29/10/2013, n. 24632; 18/05/2012, n. 7907; 25/07/2008, n. 20476). Tale orientamento non trova smentita nei precedenti indicati dal ricorrente, i quali, nell’affermare l’inscindibilita’ delle azioni, in caso di fallimento della societa’, non si riferiscono alla posizione delle parti, ma alla confluenza delle azioni previste dagli articoli 2393 e 2394 c.c., nell’unica azione di responsabilita’ contemplata dalla L. Fall., articolo 146, esercitabile esclusivamente dal curatore, la cui autonomia rispetto alle prime, derivante dalla sua configurazione come strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato, a garanzia sia dei soci che dei creditori, implica una modifica della legittimazione attiva, ma non ne immuta i presupposti (cfr. Cass., Sez. 1, 20/09/2012, n. 15955; 21/06/2012, n. 10378; 23/06/2008, n. 17033).

La natura solidale della responsabilita’ consente di escludere anche la sussistenza di un litisconsorzio c.d. unitario o processuale, configurabile allorquando, in relazione alla disciplina sostanziale del rapporto, la legge estende a tutti gl’interessati gli effetti della pronuncia emessa nei confronti di uno soltanto di essi, ovvero nei casi in cui, una volta divenuti parti del giudizio (ad esempio, mediante la chiamata in causa iussu judicis o per effetto di successione a titolo universale o particolare), uno o piu’ soggetti, che non siano litisconsorti necessari fin dall’origine, debbano rimanerlo in tutte le sue fasi. Tale situazione, ritenuta configurabile anche in tema di responsabilita’, nel caso di proposizione in via alternativa di una domanda di risarcimento fondata su un unico fatto illecito nei confronti di una pluralita’ di soggetti (cfr. Cass., Sez. lav., 20/01/2016, n. 986; Cass., Sez. 3, 12/05/2014, n. 10243), non e’ ravvisabile in riferimento all’azione di responsabilita’ nei confronti degli amministratori e dei sindaci di societa’, ciascuno dei quali e’ chiamato a rispondere del proprio comportamento, giustificandosi il nesso di solidarieta’ in virtu’ dell’apporto personale fornito alla produzione dei danni complessivamente arrecati alla societa’, con la conseguenza che, sotto il profilo processuale, il cumulo soggettivo passivo non da’ luogo all’inscindibilita’ delle cause.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la falsa applicazione degli articoli 2392, 2393 e 2394 c.c., sostenendo che, nel ravvisare nel suo comportamento un’ingerenza nell’amministrazione della societa’, la sentenza impugnata non ha considerato che a tal fine non e’ sufficiente un’attivita’ caratterizzata da continuita’ e sistematicita’, occorrendo altresi’ il connotato della completezza, il quale implica che l’attivita’ debba svolgersi in tutti gli ambiti tipici della gestione amministrativa, ed in particolare attraverso il compimento di atti conformativi dell’operato della societa’ ed aventi rilevanza esterna. A tal fine, non potevano considerarsi sufficienti le attivita’ d’interlocuzione con gli amministratori di diritto, prodromiche alla formazione dei bilancio ed all’individuazione di linee di condotta nella gestione di trattative commerciali, ben potendo le stesse provenire da un socio, e non essendo stato provato il diretto esercizio di poteri gestionali da parte di esso ricorrente o il suo intervento nei rapporti con i terzi, non accertabili in via presuntiva o sulla base di mere illazioni.

2.1. Il motivo e’ infondato.

Ai fini dell’affermazione della responsabilita’ del ricorrente, in qualita’ di amministratore di fatto della societa’ fallita, la sentenza impugnata si e’ infatti attenuta, pur senza richiamarlo espressamente, al principio, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimita’, secondo cui la predetta figura ricorre allorche’ un soggetto si sia ingerito nella gestione sociale in assenza di una qualsivoglia investitura, sia pure irregolare o implicita, sempre che le funzioni gestorie svolte in via di fatto abbiano carattere sistematico e non si esauriscano, quindi, nel compimento di alcuni atti di natura eterogenea e ed occasionale (cfr. Cass., Sez. 1, 5/12/2008, n. 28819; 14/09/1999, n. 9795).

Lo svolgimento delle predette funzioni, ravvisabile nell’assoggettamento della societa’ alle direttive impartite dal soggetto privo d’investitura e, in linea piu’ generale, dal condizionamento esercitato da quest’ultimo sulle scelte operative (cfr. Cass., Sez. 1, 1/03/2016, n. 4045; Cass., Sez. 5, 5/02/2014, n. 2586; 12/03/2008, n. 6719), e’ stato correttamente desunto da una pluralita’ di elementi emersi dalle deposizioni dei testi, e segnatamente dalla sottoposizione di tutte le decisioni assunte dagli amministratori al vaglio del (OMISSIS), nonche’ dalla sistematica partecipazione del convenuto alle riunioni del consiglio di amministrazione, non giustificata dalla mera qualita’ di socio che egli rivestiva all’interno della societa’. E’ proprio il carattere continuativo di tale intervento, attestante la pervasivita’ del controllo esercitato sulla gestione sociale, a far apparire giustificate le conclusioni cui e’ pervenuta la Corte di merito, non risultando una cosi’ ampia intromissione riconducibile all’ordinaria interlocuzione tra soci ed amministratori; il carattere esclusivo della competenza spettante a questi ultimi nella gestione dell’impresa sociale esclude d’altronde che, al di fuori delle ipotesi previste dalla legge o dallo statuto, la relativa discrezionalita’ possa subire restrizioni, non giustificate dalla mera attribuzione all’assemblea del potere di approvare i bilanci e di determinare gl’indirizzi generali dell’attivita’ sociale.

Non puo’ d’altronde condividersi neppure la tesi sostenuta dalla difesa del ricorrente, secondo cui il riconoscimento della qualita’ di amministratore di fatto postulerebbe un’ingerenza nella gestione sociale non solo continuativa e sistematica, ma estesa “a tutti gli ambiti tipici della gestione amministrativa”, in tal senso dovendosi intendere il requisito della completezza piu’ volte menzionato dalla giurisprudenza di questa Corte: l’analisi dei precedenti segnalati dimostra infatti che non e’ affatto richiesta la riferibilita’ degli atti compiuti all’intero spettro delle attivita’ amministrative, risultando sufficiente un intervento incisivo e non occasionale, che, in quanto idoneo ad influenzare le scelte imprenditoriali in settori chiave, sia tale da improntare di se’ l’operato complessivo della societa’. In quest’ottica, pur dovendosi riconoscere che un siffatto condizionamento non puo’ non trasparire nei rapporti con i terzi, deve altresi’ escludersi la necessita’ che esso si traduca nel diretto compimento di atti a rilevanza esterna, risultando invece sufficiente che le determinazioni riguardanti la gestione sociale siano riconducibili alla volonta’ dell’amministratore di fatto, eventualmente anche in concorso con l’amministratore di diritto, il quale non deve necessariamente rivestire il ruolo di mero prestanome (cfr. al riguardo Cass. pen., Sez. 5, 19/09/2008, n. 35955, De Carolis).

3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione degli articoli 2392, 2393, 2394 e 2697 c.c., osservando che, nell’addebitargli le erogazioni effettuate dalla societa’ fallita in favore delle societa’ controllanti, in virtu’ della mancata dimostrazione del suo dissenso dalle relative decisioni, la sentenza impugnata non ha tenuto conto della natura extracontrattuale della responsabilita’ dell’amministratore di fatto, la quale, imponendo al danneggiato l’onere di provare l’effettiva partecipazione del soggetto estraneo all’attivita’ dannosa, cosi’ come il nesso causale e il danno lamentato, escludeva la possibilita’ di desumere tale prova dalla mera titolarita’ delle quote delle societa’ beneficiarie dei rimborsi.

3.1. Il motivo non merita accoglimento, pur dovendosi procedere, ai sensi dell’articolo 384c.p.c., u.c., alla correzione della motivazione della sentenza impugnata, il cui dispositivo sul punto risulta peraltro conforme al diritto.

Premesso infatti che, come correttamente osservato dalla sentenza impugnata, l’amministratore di fatto e’ titolare, nello svolgimento della sua gestione, dei medesimi poteri degli amministratori di diritto, ed e’ correlativamente assoggettato agli obblighi previsti dalla legge, ivi compreso, ai sensi dell’articolo 2392 c.c. (nel testo, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, anteriore alle modifiche introdotte dal Decreto Legislativo 17 gennaio 2003, n. 6), quello generale di vigilanza sull’andamento della gestione, il quale non viene meno neppure in caso di attribuzione di determinate funzioni al comitato esecutivo o ad uno o piu’ amministratori, deve ritenersi superflua l’indagine compiuta dalla Corte di merito in ordine al consenso prestato dal ricorrente all’effettuazione dei versamenti eseguiti dalla societa’ fallita in favore delle controllanti, in quanto, non essendo stato neppure dedotto il suo dissenso da tali operazioni, incombeva al (OMISSIS) l’onere di provare che, pur essendosi diligentemente attivato a tal fine, non aveva potuto esercitare la predetta vigilanza, a causa della condotta ostativa degli altri amministratori (cfr. Cass., Sez. 2, 13/05/2010, n. 11643; Cass., Sez. 1, 11/11/2010, n. 22911; 29/08/2003, n. 12696). Non dovendosi accertare il consenso del ricorrente alle operazioni, non puo’ assumere alcun rilievo, ai fini dell’accertamento della responsabilita’, la circostanza che il ricorrente fosse titolare di quote di partecipazione alle societa’ beneficiarie dei versamenti, la cui portata pregiudizievole doveva d’altronde considerarsi in re ipsa, non essendone stata neppure prospettata una possibile giustificazione causale. Conseguentemente, non risulta necessario, in questa sede, stabilire il titolo della responsabilita’ dell’amministratore di fatto, la cui individuazione, com’e’ noto, e’ ancor oggi controversa, nonostante l’opinione favorevole alla natura contrattuale, chiaramente espressa in passato da questa Corte (cfr. Cass., Sez. 1, 14/09/1999, n. 9795).

4. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia, in via subordinata, la falsa applicazione dell’articolo 1241 c.c. e la violazione degli articoli 1223 e 2056 c.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini dell’accertamento del danno derivante dalle erogazioni effettuate in favore delle societa’ controllanti, ha ritenuto irrilevanti i versamenti da lui eseguiti in favore della societa’ fallita. Afferma infatti che la Corte d’appello avrebbe dovuto procedere ad una valutazione non atomistica dell’attivita’ da lui asseritamente svolta nella gestione amministrativo-patrimoniale della societa’ fallita, quanto meno ai fini della compensatio lucri cum damno, da ritenersi nella specie ammissibile, in considerazione dell’unitarieta’ del rapporto nello ambito del quale avevano avuto luogo esborsi ed introiti.

5. Con il quinto motivo, il ricorrente insiste sull’omessa valutazione dei versamenti da lui effettuati, sostenendo che dagli stessi avrebbe dovuto evincersi che egli non aveva alcun interesse ad indurre gli amministratori della societa’ fallita a rimborsare alle societa’ controllanti le somme erogate.

6. I predetti motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto riflettenti.

profili diversi della medesima questione, sono infondati.

Nel contestare l’accertato depauperamento della societa’ fallita in conseguenza dei versamenti eseguiti in favore delle societa’ controllanti, il ricorrente ripropone sostanzialmente le censure mosse alla sentenza di primo grado, ribadendo il gia’ dedotto collegamento funzionale con gl’importi da lui immessi nelle casse sociali per il tramite delle predette societa’ e lamentandone la valutazione atomistica, senza pero’ censurare il rilievo della Corte di merito, secondo cui, non essendo stato dimostrato che quelli ricevuti dalla societa’ fallita costituissero dei prestiti, doveva escludersi il diritto delle societa’ controllanti alla restituzione. Tale conclusione deve ritenersi pienamente condivisibile, in quanto conforme al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimita’, secondo cui i versamenti operati dai soci in conto capitale (o con altra analoga dizione indicati), pur non incrementando immediatamente il capitale sociale, e pur non attribuendo alle relative somme la condizione giuridica propria del capitale (onde non occorre che siano conseguenti ad una specifica deliberazione assembleare di aumento dello stesso), hanno tuttavia una causa che, di norma, e’ diversa da quella del mutuo ed e’ assimilabile a quella del capitale di rischio, con la conseguenza che essi non danno luogo a crediti esigibili nel corso della vita della societa’, e possono essere chiesti dai soci in restituzione soltanto per effetto dello scioglimento della societa’, e nei limiti dell’eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione (cfr. Cass., Sez. 1, 23/03/2012, n. 2758; 31/03/2006, n. 7692).

Non essendo configurabile un credito esigibile delle societa’ controllanti, risulta incensurabile anche l’affermazione della sentenza impugnata, secondo cui i predetti versamenti non erano suscettibili di compensazione con quelli ricevuti dalla societa’ fallita. Peraltro, anche a voler ritenere che, come sostiene il ricorrente, l’effetto da lui invocato consistesse non gia’ nella compensazione legale, ma nella compensatio lucri cum damno, avrebbe dovuto ugualmente escludersi la fondatezza dell’eccezione: il principio secondo cui, ove dal fatto dannoso derivi qualche vantaggio per il danneggiato, deve tenersene conto nella liquidazione del danno, sottraendolo dal risarcimento, e’ infatti applicabile esclusivamente nel caso in cui il pregiudizio e l’incremento patrimoniale costituiscano la conseguenza diretta ed immediata del medesimo fatto (cfr. Cass., Sez. Un., 25/11/2008, n. 28056; Cass., Sez. lav., 12/09/2008, n. 23563; Cass., Sez. 3, 22/06/2005, n. 13401); nella specie, invece, l’incremento patrimoniale ed il pregiudizio riportati dalla societa’ fallita avevano il loro titolo in fatti diversi, e precisamente nei versamenti reciprocamente effettuati dalla stessa e dalle societa’ controllanti in esecuzione delle determinazioni rispettivamente adottate.

7. Con il primo motivo del ricorso incidentale, il curatore del fallimento deduce la falsa applicazione degli articoli 1223, 2056, 2392, 2393, 2394 e 2697 c.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la responsabilita’ del (OMISSIS) per la mancata riscossione dei crediti vantati dalla societa’ fallita nei confronti della (OMISSIS), in ragione della natura omissiva della condotta addebitata e della mancata prova del nesso causale con il danno lamentato. Premesso che non era stato provato che l’unico atto idoneo a recuperare le somme fosse la proposizione della domanda giudiziale, per la quale occorreva il conferimento del mandato ad un avvocato, osserva che la Corte d’appello non ha tenuto conto del condizionamento esercitato dall’amministratore di fatto sull’operato degli amministratori di diritto, i quali si limitavano ad eseguire le decisioni del (OMISSIS).

7.1. Il motivo e’ fondato.

Pur riconoscendo la portata pregiudizievole del mancato recupero dei crediti vantati nei confronti della (OMISSIS), in quanto idonea a determinare una corrispondente riduzione del patrimonio della societa’ fallita e quindi della garanzia dei creditori, la sentenza impugnata ha infatti escluso la sussistenza del nesso causale tra il predetto evento e la condotta tenuta dal ricorrente, in virtu’ di un giudizio controfattuale imperniato sulla necessita’ del conferimento di una procura ad litem ad un avvocato, ai fini della riscossione, e sulla conseguente inidoneita’ di un eventuale intervento del (OMISSIS) ad impedire il danno, per difetto della legittimazione a rilasciare la predetta procura.

In quanto incardinato sul carattere meramente informale del condizionamento esercitato dall’amministratore di fatto sulla gestione della societa’, e sulla conseguente carenza del potere di rappresentare la societa’ nei rapporti con i terzi, il predetto ragionamento non puo’ essere peraltro condiviso, ponendosi in contrasto con l’essenza stessa del fenomeno in esame: questo ultimo si caratterizza infatti proprio per la mancanza di un’investitura formale, cui fa pero’ riscontro, sotto il profilo sostanziale, un’influenza che trascende la titolarita’ delle funzioni, consentendo all’amministratore di fatto di esercitare, sia pure indirettamente, poteri analoghi se non addirittura superiori a quelli spettanti agli amministratori di diritto, i quali, quando non si limitano ad agire come meri prestanomi del dominus, concorrono con l’amministratore di fatto nella conduzione dell’impresa sociale, se del caso assumendo collegialmente le relative decisioni, e dandovi esecuzione di comune accordo. La natura del fenomeno e’ stata riconosciuta dalla stessa giurisprudenza di legittimita’, la quale, pur appellandosi alla carenza di potere rappresentativo per giustificare il mancato riconoscimento all’amministratore di fatto dei diritti che competono al fallito nell’ambito della procedura fallimentare, ha tenuto a distinguere il dato formale inerente all’individuazione del legale rappresentante della societa’ da quello sostanziale riguardante l’accertamento della responsabilita’ per gli atti di gestione (cfr. Cass., Sez. 1, 13/12/2013, n. 22957; 23/04/2003, n. 6478).

In quest’ottica, la mera impossibilita’ di conferire direttamente la procura ad un avvocato, in virtu’ del difetto del potere di rappresentare la societa’ nei rapporti con i terzi, non poteva essere considerata di per se’ idonea ad interrompere il nesso eziologico con il danno derivante dal mancato recupero dei crediti vantati dalla societa’ fallita, in quanto, essendo stato accertato il condizionamento esercitato dal (OMISSIS) sulla gestione della medesima societa’, in particolare attraverso la sottoposizione di ogni decisione alla sua approvazione, non poteva escludersi la sua capacita’ di provocare in proposito una determinazione del consiglio di amministrazione e di promuoverne l’esecuzione attraverso gli amministratori di diritto, unici soggetti legittimati a rappresentare anche processualmente la societa’.

8. Con il secondo motivo, il controricorrente lamenta la falsa applicazione degli articoli 1224, 1277, 2392, 2393 e 2394 c.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la possibilita’ di liquidare il risarcimento dovuto dall’amministratore di fatto in misura diversa da quella posta a carico degli amministratori di diritto. Sostiene infatti che, indipendentemente dalla diversita’ dei fattori che hanno determinato le rispettive condanne, il risarcimento doveva essere liquidato in riferimento all’epoca del relativo accertamento, non assumendo alcun rilievo la liquidazione compiuta nel giudizio promosso nei confronti degli obbligati solidali, in mancanza di una norma che preveda un collegamento funzionale della responsabilita’ e degli effetti del giudicato.

8.1. Il motivo e’ fondato.

Nel confermare la condanna del ricorrente al risarcimento del danno cagionato dalle erogazioni effettuate dalla societa’ fallita in favore delle societa’ controllanti, la Corte di merito ha infatti ritenuto di non poter liquidare, a titolo di risarcimento, un importo superiore a quello riconosciuto al fallimento, per il medesimo titolo, nel giudizio di responsabilita’ promosso nei confronti degli amministratori di diritto, affermando che la solidarieta’ passiva configurabile tra questi ultimi e l’amministratore di fatto escludeva la possibilita’ di una diversificazione del quantum debeatur, indipendentemente dalla separazione dei giudizi. In particolare, la sentenza impugnata ha escluso la possibilita’ di riconoscere, sulla somma liquidata, la rivalutazione monetaria maturata nel periodo trascorso tra le due decisioni, osservando che, una volta cristallizzato definitivamente con la prima sentenza, passata in giudicato, il debito risarcitorio si era trasformato in debito di valuta, non suscettibile di ulteriore rivalutazione, ma solo di adeguamento “nominalistico” per effetto dell’applicazione degl’interessi legali.

Tale ragionamento, nella parte concernente la rivalutazione della somma liquidata a titolo di risarcimento, non appare condivisibile, non trovando giustificazione nel disposto dell’articolo 1306 c.c., comma 2, il quale, nel consentire al debitore solidale di opporre ai creditore la sentenza piu’ favorevole pronunciata nei confronti del condebitore, esclude, ove il primo abbia manifestato la volonta’ di avvalersi del giudicato, la possibilita’ di porre a suo carico un importo superiore a quello precedentemente liquidato nei confronti del secondo, ma non preclude l’ulteriore rivalutazione dell’importo riconosciuto: per ciascun debitore, la trasformazione dell’obbligazione risarcitoria da debito di valore in debito di valuta si verifica infatti soltanto per effetto della condanna pronunciata nei suoi confronti, con la conseguenza che, ferma restando la necessita’ che gl’importi liquidati in riferimento alla data del fatto illecito (c.d. aestimatio) si equivalgano, la maggior somma posta a carico del primo debitore viene a dipendere esclusivamente dal ritardo con cui, rispetto al secondo, ha avuto luogo l’adeguamento ai valori monetari attuali (c.d. taxatio) (cfr. Cass., Sez. 3, 11/04/1988, n. 2832). Non risulta pertinente, in contrario, il richiamo della sentenza impugnata ad un precedente della giurisprudenza di legittimita’, il quale, nel confermare il riconoscimento al debitore della possibilita’ di avvalersi del giudicato formatosi nei confronti del debitore, non ha specificamente affrontato la questione in esame, essendosi limitato ad affermare che la trasformazione del credito di valore in credito di valuta non impedisce la produzione degli effetti previsti dall’articolo 1224 c.c., nel periodo successivo alla liquidazione (cfr. Cass., Sez. 3, 8/03/2005, n. 5008).

9. Il ricorso principale va pertanto rigettato, mentre il ricorso incidentale va accolto, restando assorbito il terzo motivo, con cui il controricorrente ha denunciato la violazione e la falsa applicazione degli articoli 91 e 92 c.p.c., censurando il regolamento delle spese processuali risultante dalla sentenza d’appello.

10. La sentenza impugnata va conseguentemente cassata, nei limiti segnati dai motivi accolti, con il rinvio della causa alla Corte d’Appello di Roma, che provvedera’, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimita’.

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale, accoglie il primo ed il secondo motivo del ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte di appello di Roma, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimita’.

Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis.

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