Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 3 aprile 2014, n. 7776
Svolgimento del processo
1. Nel 2000 il sig. L.D.R.L. accettò nel proprio studio privato una proposta contrattuale sottopostagli da un funzionario della Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. (d’ora innanzi, per brevità, “MPS”).
2. Il contratto in tal modo concluso aveva ad oggetto una articolata operazione finanziaria, denominata “Visione Europa”, costituita dalla giustapposizione di tre diverse operazioni:
(a) la formale concessione da parte della banca di un finanziamento al cliente, per l’importo di £ 100.000.000;
(b) il contestuale acquisto da parte della MPS e per conto del cliente, con parte della provvista derivante da tale finanziamento, di titoli obbligazionari c.d. zero coupon (ovvero titoli il cui rendimento è pari alla differenza tra la somma che il sottoscrittore riceve alla scadenza e la somma che versa al momento della sottoscrizione) emessi dalla MPS e non quotati;
(c) il contestuale acquisto, con la parte restante della provvista derivante dal finanziamento, sempre da parte della MPS e per conto del cliente, di quote di un fondo d’investimento a carattere azionario denominato “Ducato Azionario Europa”; tale fondo fu istituito dalla Ducato Gestioni s.p.a., società controllata dalla MPS, e le quote di esso erano collocate presso il pubblico dalla stessa MPS.
L’operazione era completata dalla previsione che i titoli sub (b) e (c) fossero costituiti in pegno in favore della banca a garanzia della restituzione del finanziamento, e dall’assunzione dell’obbligo da parte del risparmiatore di restituire il capitale in rate trimestrali per il periodo di 15 anni ed al saggio di poco meno dell’8%.
3. Dopo che il contratto ebbe esecuzione per circa due anni, nel 2003 l’investitore convenne la MPS dinanzi il Tribunale di Mantova, allegando che:
(a) aveva manifestato alla MPS la volontà di recedere dal contratto;
(b) solo in seguito a tale manifestazione di volontà aveva appreso che il valore delle quote dei fondi comuni d’investimento acquistate in esecuzione del suddetto contratto era diminuito notevolmente; che le obbligazioni “zero coupon” acquistate sempre in esecuzione del suddetto contratto non erano quotate e potevano essere vendute solo alla stessa MPS, la quale ne determinava unilateralmente il prezzo.
Sulla base principalmente di tali allegazioni l’attore formulò una serie di domande tra loro subordinate, ma tutte comunque volte a privare il contratto della sua efficacia, e cioè:
(a) la dichiarazione di nullità ai sensi dell’art. 30, comma 7, del d.lgs. 24.2.1998 n. 51, per non avere ricevuto l’avviso della facoltà di recesso entro i sette giorni successivi alla stipula;
(b) la dichiarazione di nullità ai sensi dell’art. 1418 c.c., sul presupposto che il contratto integrasse gli estremi d’una truffa penalmente rilevante;
(c) la dichiarazione di annullamento del contratto per dolo determinante;
(d) la dichiarazione di annullamento o di risoluzione del contratto per la violazione da parte della MPS degli obblighi precontrattuali di informazione del cliente e di offerta di prodotti adeguati, ai sensi degli artt. 21, 27, 28 e 29 del Regolamento Consob 1 luglio 1998, n. 11522.
3. Il Tribunale di Mantova, con sentenza 13.7.2005 n. 886, ritenne il contratto stipulato tra il sig. L.D.R.L. e la MPS nullo per violazione dell’art. 30, comma 7, d.lgs. 24.2.1998 n. 58, ovvero per non essere stato il risparmiatore informato dell’esistenza della facoltà di recesso entro sette giorni dalla stipula.
Condannò, di conseguenza, la MPS a restituire all’attore la somma di Euro 13.635,03.
4. La sentenza venne impugnata dalla MPS dinanzi la Corte d’appello di Brescia.
Il giudice d’appello accolse l’appello con la sentenza 4.11.2010 n. 920.
La Corte d’appello di Brescia escluse che il contratto stipulato tra il sig. L.D.R.L. e la MPS potesse ritenersi nullo per mancanza dell’avviso sul diritto di recesso.
La sentenza di secondo grado fu motivata con un ragionamento così riassumibile:
(a) l’operazione finanziaria oggetto del giudizio era rappresentata dalla giustapposizione di tre diversi contratti: un contratto di mutuo, un contratto di acquisto di obbligazioni ed un contratto di acquisto di quote di un fondo d’investimento;
(b) l’obbligo di informare il risparmiatore del diritto di ripensamento, di cui all’art. 30, comma 6, d.lgs. 58/98, sussiste soltanto nel caso di stipula fuori sede dei contratti di collocamento di strumenti finanziari. Nel caso di specie, dunque, quell’obbligo informativo doveva essere osservato solo per la vendita delle quote del fondo di investimento “Ducato”, e non per la vendita di obbligazioni, e tanto meno per l’erogazione del mutuo;
(c) nel caso di specie, la MPS prima della stipula del contratto di collocamento delle quote del fondo d’investimento aveva fornito al cliente il prospetto informativo, nel quale era contenuta l’informazione sul diritto di ripensamento.
La Corte d’appello soggiunse che l’informazione sul diritto di ripensamento, pur se contenuta nel solo prospetto informativo concernente l’operazione di acquisto di quote di fondo d’investimento, era idonea a salvaguardare l’interesse del risparmiatore: se, infatti, egli avesse scelto di recedere dal V contratto di collocamento di strumenti finanziari, l’intera operazione sarebbe venuta meno, a causa della intima connessione dei tre contratti che la componevano.
5. La sentenza della Corte d’appello di Brescia è stata impugnata per cassazione dal sig. L.D.R.L. , sulla base di otto motivi. La MPS ha resistito con controricorso; ambo le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., e partecipato alla discussione in pubblica udienza.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe incorsa nel vizio di violazione di legge (di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c.).
Si assume in particolare che essa avrebbe violato l’art. 30, comma 6, d.lgs. 24.2.1998 n. 58, là dove ha ritenuto che la MPS abbia assolto l’onere – previsto dalla legge a pena di nullità – di informare il cliente del diritto di ripensamento.
1.2. Espone, al riguardo, il ricorrente che il piano finanziario “Visione Europa” costituiva uno strumento contrattuale essenzialmente unitario, sebbene composto dalle tre distinte operazioni di finanziamento, acquisto di obbligazioni e sottoscrizione di quote del fondo “Ducato”.
Dalla natura unitaria dell’operazione discenderebbe la necessità che l’informazione sull’esistenza del diritto di ripensamento da un lato doveva essere contenuta non già nel prospetto informativo concernente l’acquisto delle quote del fondo “Ducato”, ma nel modulo contrattuale relativo all’intero piano finanziario; e dall’altro tale informazione avrebbe dovuto prevedere espressamente che l’esercizio del diritto di ripensamento avrebbe avuto per effetto lo scioglimento dell’intero rapporto contrattuale, e non solo del contratto di acquisto delle quote del fondo d’investimento “Ducato”. Soggiunge, infine, il ricorrente che in ogni caso l’obbligo di informare il risparmiatore del diritto di ripensamento sussiste non solo nell’ipotesi di stipula fuori sede di operazioni di collocamento di strumenti finanziari, ma anche nell’ipotesi di vendita fuori sede di obbligazioni, pur essa rientrante nelle operazioni di “collocamento” di cui all’art. 30 d.lgs. 58/98.
1.3. Il motivo è fondato.
La sentenza della Corte d’appello è incorsa infatti in tre errori di diritto:
(a) avere ritenuto inapplicabile l’art. 30, comma 7, d.lgs. 58/98 ai contratti di negoziazione di strumenti finanziari conclusi al di fuori di un servizio di collocamento per conto terzi;
(b) avere escluso che il contratto denominato “Visione Europa” costituisse di per sé e nel suo complesso un servizio di investimento, consistente nella vendita di strumenti finanziari;
(c) avere ritenuto che nell’ambito del contratto denominato “Visione Europa” la banca potesse assolvere il proprio obbligo di informare il cliente del diritto di recesso limitandosi ad inserire la relativa clausola non già nel testo del contratto, ma nel prospetto informativo concernente la sola operazione di vendita di quote del fondo d’investimento.
1.4. Il primo errore commesso dalla Corte d’appello è consistito nella violazione dell’art. 30, comma 7, d.lgs. 58/98.
Il giudice di secondo grado ha infatti affermato che “la clausola relativa al diritto di ripensamento doveva essere prevista unicamente quanto alla sottoscrizione delle quote del fondo comune di investimento”. E poiché il prospetto informativo concernente la suddetta sottoscrizione prevedeva l’informazione sul diritto di recesso, nessuna nullità si era verificata nel caso di specie.
Questa decisione tuttavia non è conforme all’interpretazione che dell’art. 30, comma 7, d.lgs. 58/98 hanno dato le Sezioni Unite della Corte di cassazione, sia pure in epoca successiva alla pronuncia della Corte bresciana.
1.4.1. L’art. 30, comma 7, d.lgs. 58/98 nel testo applicabile ratione temporis prevedeva che nel caso di stipula di contratti di “collocamento di strumenti finanziari” al di fuori della sede del proponente o dell’intermediario, “l’omessa indicazione della facoltà di recesso nei moduli o formulari comporta la nullità dei relativi contratti, che può essere fatta valere solo dal cliente”.
Le Sezioni Unite di questa Corte, componendo il contrasto sorto in seno alla Prima sezione, con sentenza n. 13905 del 03/06/2013 hanno chiarito il senso da attribuire alla norma sopra trascritta.
Essa deve trovare applicazione, attesa la evidente identità di ratio, sia ai contratti stipulati in esecuzione di un contratto di collocamento in senso stretto, stipulato tra l’emittente del titolo e l’intermediario che in tal modo si obbliga alla rivendita di esso al pubblico; sia a tutti gli altri contratti di vendita di strumenti finanziari conclusi nell’ambito di un “servizio di investimento” come definito dall’art. 1, comma 5, d.lgs. 58/98.
Tra i “servizi di investimento” di cui al citato art. 1, comma 5, d.lgs. 58/98 rientra anche la vendita per conto proprio o per conto di terzi di obbligazioni [art. 1, comma 3, lettera (b), d.lgs. 58/98]; di quote di fondi comuni d’investimento [art. 1, comma 3, lettera (c), d.lgs. 58/98], e le combinazioni dei contratti appena ricordati [art. 1, comma 3, lettera (j), d.lgs. 58/98]. Ergo, l’informazione sul diritto di recesso deve essere fornita a pena di nullità anche nel caso di vendita per conto proprio o di terzi di obbligazioni o quote di fondi comuni.
1.4.2. Le Sezioni Unite sono pervenute a tale conclusione sulla base di due argomenti:
(a) l’interpretazione finalistica;
(b) l’interpretazione comunitariamente orientata.
Sotto il primo aspetto, le Sezioni Unite hanno ritenuto che lo scopo della norma sul diritto di recesso dell’investitore nel caso di contratti stipulati fuori sede è evitare che esso possa trovarsi vincolato da contratti sui quali non abbia potuto adeguatamente riflettere; adeguata riflessione che deve per contro presumersi già avvenuta quando sia il risparmiatore a recarsi di propria iniziativa nei locali dell’intermediario o della banca (ovvero, come si esprime oggi il d.lgs. 58/98, d’un “soggetto abilitato” a svolgere servizi di investimento).
Questo essendo lo scopo della norma, l’esigenza di tutela da essa sottesa sussiste tanto nell’ipotesi in cui il risparmiatore sia raggiunto, fuori sede, da una proposta contrattuale avente ad oggetto titoli che l’intermediario possiede od acquista da terzi (c.d. “negoziazione”); quanto nella diversa ipotesi in cui siano offerti in vendita al risparmiatore strumenti finanziari che l’intermediario si sia previamente obbligato nei confronti dell’emittente a “collocare” (ovvero rivendere a terzi, ove si volesse prescindere dal lessema linguisticamente inappropriato coniato dalla prassi e prescelto dal legislatore, il quale etimologicamente deriva da locus, e non esprime un concetto di trasferimento, ma il ben diverso concetto di “assegnare”, “attribuire”, “sistemare”).
Sotto il secondo aspetto (l’interpretazione “comunitariamente orientata”) le Sezioni Unite di questa Corte hanno osservato come anche a prescindere dalla ratio dell’art. 30, comma 7, d.lgs. 58/98, comunque non vi può essere dubbio che la lettera di essa sia ambigua. Infatti, se si aderisse alla tesi restrittiva (secondo cui l’obbligo di informazione varrebbe solo per i contratti stipulati nell’ambito di servizi di collocamento), dovrebbe pervenirsi alla inaccettabile conclusione che il legislatore avrebbe usato il lemma “collocamento” con significati diversi nel primo e nel settimo comma della norma in esame.
Di fronte a questa ambiguità, ed al cospetto di interpretazioni divergenti ma tutte teoricamente consentite dal testo della norma, l’interprete – proseguono le SS.UU. – ha l’obbligo di adottare l’interpretazione maggiormente coerente con i precetti del diritto comunitario. E poiché l’art. 38 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sancisce il principio per cui è compiuto dell’Unione garantire “un livello elevato di protezione dei consumatori”, tra due interpretazioni alternative ed ambedue plausibili sul piano letterale, l’interprete ha il dovere di preferire quella in grado di apprestare un più elevato livello di protezione al risparmiatore.
1.4.3. Questa Sezione condivide e ribadisce la lettura dell’art. 30, comma 7, d.lgs. 58/98 compiuta dalle Sezioni Unite, e ritiene che anche ulteriori ragioni ostino all’accoglimento dell’interpretazione adottata dalla sentenza qui impugnata.
Se, infatti, si interpretasse l’art. 30, comma 6, d.lgs. 58/98 nel restrittivo senso fatto proprio dalla Corte d’appello, esso sarebbe di fatto inapplicabile.
La norma, infatti, accorda al risparmiatore il diritto di recesso dai “contratti di collocamento”. Ma contratti di collocamento in senso tecnico sono soltanto gli accordi tra intermediario ed emittente, e nei rapporti tra investitori professionali il diritto di recesso è espressamente escluso dal secondo comma dell’art. 30 d.lgs. 58/98.
Da ciò discendono due conseguenze sul piano della logica formale.
La prima è che l’adesione alla lettura restrittiva dell’art. 30, comma 6, d.lgs. 58/98 renderebbe la norma inutile, perché non potrebbe darsi alcun caso in cui un “contratto di collocamento” sia stipulato tra l’emittente ed un risparmiatore. Ed il canone interpretativo dell’interpretazione utile vieta all’interprete di adottare soluzioni ermeneutiche che annullino la portata precettiva della norma.
La seconda conseguenza è che l’interpretazione qui contestata pretende di interpretare la medesima norma con diverso rigore sintattico a seconda del fine cui è preordinata l’interpretazione.
Quando si tratta di escludere che il diritto di recesso si applichi ai contratti di negoziazione di titoli, si assume che il legislatore abbia usato un lessico rigoroso e tecnico, e che pertanto il recesso non spetti nel caso di negoziazione perché quest’ultima è contratto ben diverso da quello di collocamento.
Quando, invece, si tratta di replicare all’obiezione secondo cui il contratto di “collocamento di strumenti finanziari” è quello stipulato tra emittente e intermediario (sicché la norma non potrebbe essere interpretata in senso stretto a pena di inapplicabilità), l’orientamento qui in contestazione ammette che l’espressione “collocamento di strumenti finanziari” sia stata usata nell’art. 30, comma 6, d.lgs. 58/98 in senso atecnico.
La tesi qui in contestazione, in definitiva, perviene all’inaccettabile risultato di usare due pesi e due misure nell’interpretare il medesimo lemma, ritenendo a certi fini che sia stato usato in modo calzante, e ad altri fini che sia stato usato in modo atecnico e generico.
1.5. Il secondo errore in iure commesso dalla Corte d’appello è stato il ritenere che il contratto denominato “Visione Europa” non costituisse di per sé e nel suo complesso un servizio di investimento, consistente nella vendita di strumenti finanziari, e che pertanto l’informazione sul recesso potesse legittimamente essere contenuta nel solo prospetto informativo concernente l’operazione di acquisto di quote del fondo d’investimento “Ducato”.
1.5.1. Si sono già descritte supra, al p. 2 dello “Svolgimento del processo”, le caratteristiche del contratto in esame, che non sono in contestazione tra le parti.
A parte varie ipotesi di nullità di singole clausole che non rilevano in questa sede (si veda, a mero titolo d’esempio, l’art. 6 della Sezione II, il quale prevedendo che gli eredi del risparmiatore siano obbligati “con vincolo di solidarietà ed indivisibilità” verso la banca contiene un palese patto successorio, nullo ai sensi dell’art. 458 c.c.), ai fini che in questa sede rilevano, le caratteristiche essenziali dell’operazione consistevano in una stretta ed indissolubile connessione tra le tre operazioni nelle quali il contratto formalmente si scomponeva.
Ed infatti:
(a) il finanziamento formalmente concesso dalla banca al risparmiatore non poteva essere utilizzato per altro scopo che l’acquisto dei titoli (e solo di quei titoli) già predeterminati dalla banca;
(b) il risparmiatore non aveva alcuna possibilità di scelta dei titoli da acquistare;
(c) nessun effettivo passaggio di denaro avveniva di fatto dalla banca verso il risparmiatore, posto che la prima si obbligava formalmente ad usare proprio denaro per acquistare per conto del cliente proprie obbligazioni e quote di un fondo istituito da una propria controllata;
(d) il cliente non acquisiva nemmeno il possesso dei titoli sub (e), i quali venivano immediatamente costituiti in pegno a favore della banca ed a garanzia della restituzione del finanziamento.
1.5.2. Un contratto che presenti le caratteristiche appena descritte è un contratto unitario, perché unitaria ne fu la causa. E ciò tanto nell’ipotesi in cui si volesse intendere tale nozione in senso astratto come “funzione economico-sociale del contratto”; quanto nell’ipotesi in cui la si volesse intendere in senso concreto quale scopo avuto di mira dai contraenti (questione sulla quale non mette conto in questa sede intervenire), come già ritenuto da questa Corte in fattispecie identica (Sez. 1, Sentenza n. 1584 del 03/02/2012, Rv. 622621).
Ed infatti ove si intendesse la causa negoziale nel senso tradizionale di “funzione economico-sociale” del contratto, è agevole rilevare che il contratto “Visione Europa” si fonda su un do ut facias, in virtù del quale il risparmiatore si obbligava a pagare 61 rate in 15 anni, e la banca ad acquistare titoli remunerativi i cui frutti sarebbero andati a pro del cliente. Questo era il nucleo dell’operazione, e la sua scomposizione in tre contratti non è che fittizia ed apparente, e come tale giuridicamente irrilevante, alla luce del secolare principio plus valet quod agitur, quam quod simulate concipitur.
Ove, per contro, si intendesse la causa quale scopo concreto avuto di mira dalle parti, secondo il più recente orientamento di questa Corte (ex aliis, Sez. 3, Sentenza n. 23941 del 12/11/2009, Rv. 610016; Sez. 3, Sentenza n. 10490 del 08/05/2006, Rv. 592154), il contratto “Visione Europa” non cesserebbe per ciò solo di costituire un negozio unitario. Scopo concreto delle parti fu infatti quello, con ogni evidenza, di garantire una remunerazione ai risparmi dell’investitore, e quindi uno scopo di investimento.
Scopo di investimento che, è bene ricordare, non può mai sottrarre il contratto che lo persegue alla disciplina dettata dal d.lgs. 58/98 sol perché le parti lo abbiano qualificato in altre e talora fantasiose guise, atteso che la nozione di contratto di investimento costituisce uno schema atipico, la quale comprende “ogni forma di investimento finanziario, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. u), del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, riflettendo la natura aperta ed a tecnica di prodotto finanziario, la quale rappresenta la risposta legislativa alla creatività del mercato ed alla molteplicità degli strumenti offerti al pubblico, nonché all’esigenza di tutela degli investitori” (sono parole, qui pienamente condivise, di Sez. 2, Sentenza n. 2736 del 05/02/2013, Rv. 625071).
Nel caso di specie non ci troviamo dunque al cospetto di un collegamento negoziale (genetico o funzionale che fosse), perché le singole operazioni previste per raggiungere lo scopo finale dell’investimento non avevano alcuna autonomia concettuale, giuridica o pratica. Non solo, infatti, esse erano tutte coessenziali al conseguimento dello scopo (elemento ovviamente sussistente anche nelle ipotesi di collegamento negoziale di tipo funzionale), ma ciascuna di esse era altresì inutile ed inconcepibile senza la contestuale stipula delle altre.
1.5.3. Pertanto, avendo il contratto “Visione Europa” natura e funzione unitaria, e costituendo per quanto già detto un “servizio di investimento” ai fini di cui all’art. 30, comma 6, d.lgs. 58/98, esso avrebbe dovuto prevedere nelle sue condizioni generali, a pena di nullità, l’informazione al cliente dell’esistenza del diritto di recesso.
1.6. Vi è stato infine, come accennato, un terzo error iuris nella decisione impugnata.
La Corte d’appello di Brescia, con motivazione ad abundantiam (aveva
infatti ritenuto non necessaria l’informazione sul diritto di recesso data la natura del contratto, e ciò sarebbe bastato per accogliere il gravame sul punto), ha ritenuto di soggiungere che comunque nel caso di specie l’onere informativo a carico della MPS era stato da questa adempiuto.
L’informazione sul diritto di recesso era infatti contenuta nel prospetto informativo concernente l’acquisto delle quote del fondo di investimento, ed “in relazione all’inscindibilità dei componenti della proposta e delle modalità attuatile (…) l’esercizio del diritto di ripensamento previsto quanto alla sottoscrizione di quote del fondo di investimento avrebbe necessariamente travolto tutta la proposta”.
Sicché – questa sembra essere la conclusione implicita, ma chiara, della Corte d’appello – l’informazione sul recesso contenuta nel prospetto informativo concernente il fondo “Ducato” bastava a salvare dalla nullità l’intera operazione.
Tale affermazione non può essere condivisa per due indipendenti ragioni.
1.6.1. La prima ragione è che l’art. 30, comma 7, d.lgs. 58/98 impone che l’informazione sulla facoltà di recesso sia contenuta nei “moduli o formulari” dei contratti stipulati fuori sede.
L’espressione “moduli o formulali” compare due volte nel codice civile: nell’art. 1342 c.c., il quale stabilisce che nei contratti conclusi mediante la sottoscrizione di moduli o formulari le clausole aggiunte al modulo o al formulario prevalgono su quelle del modulo o del formulario qualora siano incompatibili con esse; e nell’art. 1370 c.c., il quale stabilisce che le clausole inserite nelle condizioni generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti s’interpretano, nel dubbio, a favore dell’altro.
Le due norme rendono edotti che i “moduli e formulari” di cui in esse si fa menzione non coincidono con le condizioni generali di contratto, ma costituiscono il documento nel quale è consacrato il testo contrattuale: quello, per intenderci, destinato alla sottoscrizione per adesione. Questi principi generali vanno coordinati, nella nostra materia, con le previsioni del d.lgs. 58/98 e dei regolamenti amministrativi che l’hanno attuato od integrato.
A livello della fonte primaria viene in rilievo l’art. 23 d.lgs. 58/98, il quale prescrive che i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento “sono redatti per iscritto” a pena di nullità. A livello della fonte secondaria l viene in rilievo l’art. 36 della Deliberazione Consob 1 luglio 1998, n. 11522 (nel testo applicabile rattorte temporis, e cioè dopo le modifiche introdotte dall’articolo unico della deliberazione Consob 1 marzo 2000, n. 12409, e prima dell’abrogazione disposta dall’art. 113, comma 7, della deliberazione Consob 29 ottobre 2007, n. 16190), il quale stabiliva all’epoca dei fatti che nel caso di offerta fuori sede di strumenti finanziari all’investitore devono essere consegnati sia “i documenti contrattuali per la fornitura dei servizi di investimento”, sia il “documento di acquisto o di sottoscrizione” degli strumenti finanziari.
Nel nostro caso, in virtù della già illustrata natura unitaria del contratto “Visione Europa”, è dunque evidente che il “modulo o formulario” cui fa riferimento l’art. 30, comma 7, d.lgs. 58/98 è costituito, alternativamente:
(a) o dal documento che esprime ex art. 1321 c.c. l’accordo sull’intera operazione di finanziamento, ai sensi dell’art. 23 d.lgs. 258/98;
(b) ovvero dal documento che ne illustra il contenuto e le condizioni generali, ai sensi dell’art. 36, comma 1, lettera (b), Reg. Consob 11522/98. L’informazione contenuta nel prospetto informativo relativo all’acquisto di quote di fondi comuni non è dunque idonea a soddisfare l’onere posto a carico dell’intermediario dall’art. 30, comma 6, d.lgs. 58/98, perché quel prospetto – relativo ad un solo segmento dell’operazione finanziaria – non può farsi rientrare tra i “moduli o formulari” di cui è menzione nell’art. 30 cit., posto che – per quanto detto – per tali devono intendersi quelli riguardanti il complesso dell’operazione, e non un frammento di essa.
1.6.2. V’è poi, come accennato, una seconda ed indipendente ragione per la quale l’inserimento dell’informazione sul recesso nel solo prospetto informativo concernente l’acquisto delle quote del fondo comune non soddisfa l’onere imposto dall’art. 30, comma 6, d.lgs. 58/98, e non salva dalla nullità l’intero contratto: e tale ragione consiste nella violazione dell’obbligo di chiarezza.
Le regole tanto comunitarie, quanto nazionali, che disciplinano il contenuto e la forma dei contratti di investimento impongono all’intermediario ed all’emittente il dovere del dare loqui, ovvero di “parlare chiaro”.
Il dovere di chiarezza è imposto, in primo luogo, dal diritto comunitario. Lo era all’epoca dei fatti di causa (2000), per effetto dell’art. 11 della Direttiva 93/22/CEE del Consiglio, del 10 maggio 1993, relativa ai servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari, il quale imponeva agli Stati membri l’obbligo di prevedere a carico delle “imprese di investimento” il duplice obbligo sia di “agire in modo leale ed equo”; sia di “trasmettere adeguatamente le informazioni utili nell’ambito dei negoziati con i suoi clienti”. Ed ovviamente va da sé che una informazione “adeguata” non può non essere anche “chiara”, per la contraddizione che non lo consente. Dovere di chiarezza, vale la pena aggiungere, ribadito e rafforzato dall’art. 19, comma 2, della Direttiva 2004/39/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004 (c.d. “Direttiva MiFID”), il quale stabilisce che “tutte le informazioni (…) indirizzate dalle imprese di investimento a clienti (…) sono corrette, chiare e non fuorvianti”.
Tali principi sono ribaditi, a livello di legislazione nazionale, in primo luogo dagli artt. 1175 e 1375 c.c., i quali pacificamente pongono a carico dei contraenti un obbligo di informazione e chiarezza. In secondo luogo, l’obbligo di chiarezza dei testi contrattuali è desumibile sia dall’art. 21 d.lgs. 58/98, nella parte in cui impone agli intermediari di “operare in modo che [i clienti] siano sempre adeguatamente informati”; sia dal Regolamento Consob 11522/98 e dall’Allegato 7 ad esso, ove si impone all’intermediario di “illustrare all’investitore in modo chiaro ed esauriente (…) gli elementi essenziali dell’operazione, del servizio o del prodotto”.
Il dovere di chiarezza ovviamente non è fine a sé stesso: esso è un corollario indefettibile del dovere di informazione, e l’uno e l’altro hanno lo scopo di colmare le “asimmetrie informative” tra risparmiatore ed intermediario.
L’uno, infatti, è titolare del diritto di scegliere se, come, quando e quanto investire dei propri risparmi; ma di norma non è in possesso delle nozioni che gli consentano di effettuare tali scelte con cognizione di causa. L’altro possiede tali nozioni, ma non è titolare del diritto di disporre dei risparmi del cliente.
Il risparmiatore è dunque titolare di un diritto il cui corretto e proficuo esercizio dipende dal possesso di informazioni che gli debbono essere fornite da altri. Un esercizio, quindi, che esige un “consenso informato”.
L’obbligo di informazione si ridurrebbe tuttavia ad una lustra se, come non di rado avviene nella prassi, fosse assolto in modo puramente formale. Ad esempio, attraverso la sottoposizione al risparmiatore di profluvi di documenti disseminati di tecnicismi e solecismi, senza che alcuno si prenda la briga di fargliene chiaro il senso. Adempiuto in tal guisa, l’obbligo di informazione non potrebbe mai raggiungere lo scopo di consentire al risparmiatore una scelta consapevole: e dunque non potrebbe dirsi davvero adempiuto.
Un testo contrattuale non chiaro è un testo che non informa; ed un testo che non informa non mette il risparmiatore in condizione di prestare un valido consenso informato.
Il requisito di chiarezza prescritto dalle norme sopra ricordate può mancare sia sul piano morfologico (ad esempio, impiego di lemmi di uso non comune); sia sul piano sintattico (ad esempio, per l’adozione di periodi oscuri, rinvii, ipotassi, anacoluti).
Sul piano sintattico la forma più tipica di mancanza di chiarezza è l’ambiguità, ovvero la possibilità che il testo sia interpretato in modi alternativi e divergenti.
Si applichino ora i seguenti principi al caso di specie.
Il contratto “Visione Europa” non conteneva alcuna informazione sul diritto di recesso.
Il prospetto informativo sull’acquisto delle quote del fondo “Ducato”, che costituiva come già detto un segmento soltanto dell’intera operazione di investimento, conteneva quell’avviso, ovviamente riferito alla sola facoltà di recedere dall’acquisto delle quote del fondo.
Un simile testo contrattuale è di per sé ambiguo. Esso lasciava infatti al risparmiatore il dubbio se il diritto di recesso avrebbe riguardato solo l’investimento in quote del fondo, ovvero l’intera operazione; né può esigersi dal risparmiatore che questi provveda di per sé ad un’analisi del testo contrattuale alla luce della legislazione comunitaria e della giurisprudenza, per trame le necessarie informazioni sulla portata del diritto di recesso.
Da quanto esposto consegue che, anche ad ammettere che la MPS abbia fornito l’informazione sul diritto di recesso, essa non l’ha fatto in modo chiaro, e dunque la suddetta informazione è tamquam non esset.
2. I rilievi svolti dalla MPS nel controricorso e nella memoria ex art. 378 c.p.c. non scalfiscono le osservazioni che precedono. La maggior parte di essi trova risposta in quanto già esposto; agli ulteriori rilievi svolti dalla MPS va replicato che:
(a) stupefacente, prima ancora che infondata, è l’affermazione secondo cui le singole operazione che componevano il contratto “Visione Europa” restavano “nettamente distinte e separate tra loro” (così il controricorso, pag. 9), alla luce delle caratteristiche del contratto come descritte al p.2 dello “Svolgimento del processo”, ed al p.1.5.1 dei “Motivi della decisione”;
(b) che l’attività svolta dalla MPS nei confronti del sig. L.D.R.L. non potesse qualificarsi come “attività di collocamento” (a prescindere da qualsiasi giudizio su tale affermazione, di cui a pag. 10 del controricorso) è irrilevante, posto che per quanto detto l’obbligo di informazione sul diritto di recesso riguarda anche i contratti stipulati al di fuori dei servizi di collocamento in senso stretto;
(c) la MPS non era affatto un “intermediario negoziatore” (come si afferma, richiamando giurisprudenza di merito, a pag. 13 del controricorso), se non da un punto di vista puramente formale, per l’ovvia considerazione che in attuazione del contratto “Visione Europa” il cliente poteva acquistare solo quei determinati titoli, e tutti emessi dalla stessa MPS o da società del gruppo;
(d) singolare è poi il capovolgimento dei rapporti fra legge e cittadini nell’affermazione compiuta a pag. 6 della memoria ex art. 378 c.p.c. della MPS, secondo cui le Sezioni Unite della Corte di cassazione, stabilendo che il diritto di recesso ex art. 30, comma 7, d.lgs. 58/98, si applichi anche ai contratti di negoziazione, “si sono poste in aperta antitesi con la prassi consolidata degli intermediari”, posto che è la prassi commerciale a doversi adeguare alla legge per come interpretata dall’organo giurisdizionale di vertice, e non il contrario;
(e) la MPS ha poi sostenuto che l’applicazione della sospensione ex art. 30, comma 6, d.lgs. 58/98 ai contratti di negoziazione impedirebbe l’esecuzione immediata dell’ordine del cliente, con i conseguenti rischi di fluttuazioni legate alle oscillazioni dei valori di riferimento (monetari, azionari o di altro tipo; così la memoria ex art. 378 c.p.c., pag. 8); tale rilievo è inconferente nel presente giudizio, nel quale il contratto non prevedeva una esecuzione immediata, e comunque è superato dall’osservazione svolta dalle Sezioni Unite nella sentenza sopra ricordata, secondo cui – ammesso che di inconveniente si tratti – esso è il necessario prezzo da pagare per salvaguardare il superiore principio di tutela del risparmiatore.
3. Infine, alle pagg. 10 e ss. della memoria ex art. 378 c.p.c., la MPS ha sostenuto che la correttezza del principio affermato dalla sentenza impugnata è stata ora esplicitamente confermata dall’art. 56 quater del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (convertito, con modificazioni, nella I. 9 agosto 2013, n. 98, c.d. “decreto del fare”).
Questa norma ha infatti inserito una interpolazione nel sesto comma dell’art. 30 d.lgs. 58/98, la quale così recita: “ferma restando l’applicazione della disciplina di cui al primo e al secondo periodo ai servizi di investimento di cui all’articolo 1, comma 5, lettere c), c-bis) e d), per i contratti sottoscritti a decorrere dal 1 settembre 2013 la medesima disciplina si applica anche ai servizi di investimento di cui all’articolo 1, comma 5, lettera a)”.
L’art. 1, comma 5, lettera (a) del d.lgs. 58/98 prevede un solo tipo di “servizi di investimento”, e cioè la negoziazione per conto proprio di strumenti finanziari.
La MPS interpreta dunque la norma appena trascritta nel senso che essa avrebbe introdotto un discrimine:
(a) le vendite di strumenti finanziari per conto proprio, stipulate fuori sede a partire dal 1.9.2013 debbono contenere, a pena di nullità, l’informazione sul diritto di recesso del risparmiatore;
(b) le vendite di strumenti finanziari per conto proprio, stipulate fuori sede fino al 31.8.2013 non debbono contenere, a pena di nullità, l’informazione sul diritto di recesso del risparmiatore.
La norma, soggiunge la MPS, avrebbe natura di norma interpretativa; essa sarebbe di conseguenza retroattiva, ed ha avuto il solo scopo di dissipare i dubbi su quale fosse la volontà del legislatore allorché scrisse l’art. 30, comma 6, d.lgs. 58/98.
3.1. La lettura che la controricorrente MPS invoca dell’art. 56 quater d.l. 69/2013 non può essere condivisa. La suddetta norma, infatti, non ha natura interpretativa.
Depongono univocamente in tal senso l’interpretazione logica, quella finalistica e quella costituzionalmente orientata.
3.2. Dal punto di vista dell’interpretazione logica, va rilevato come il precetto contenuto nell’art. 56 quater d.l. 69/2013 affermi che il diritto di recesso si applica ai contratti di negoziazione titoli stipulati dopo il 1.9.2013.
La norma non nega il contrario, e cioè che il diritto di recesso non si applichi ai contratti stipulati prima di tale data.
Ci troviamo dunque dinanzi ad una norma che afferma il precetto “A”, ma non nega affatto il precetto “non-A”.
Se il legislatore avesse davvero inteso escludere il diritto di recesso per i contratti stipulati prima di settembre 2013, non avrebbe dovuto stabilire che il diritto “A” si applica ai contratti stipulati dopo: avrebbe dovuto sancire che il diritto “A” non si applica ai contratti stipulati prima.
Sul piano della logica formale ne discende una importante conseguenza.
La regola ermeneutica classica dell’inclusio unius, exclusio alterius, trova applicazione quando la norma scelga tra due soluzioni possibili e tra loro alternative, cioè legate da un nesso di esclusione reciproca. Così, ad esempio, una norma che sancisse l’invalidità dei contratti stipulati dopo una certa data non consente dubbi sul fatto che quei contratti non possano essere efficaci.
Non è questo il nostro caso. Individuato il discrimine temporale del 1.9.2013, la legge dichiara che ai contratti dopo tale data si applica il diritto di recesso: ma tale affermazione non è legata da un nesso di esclusione reciproca rispetto al suo contrario: e cioè che ai contratti stipulati prima di tale data il diritto di recesso non si applichi.
Nel nostro caso dunque delle quattro soluzioni teoricamente possibili del problema, e cioè:
(a) il diritto di recesso si applica ai contratti stipulati prima di settembre, ma non a quelli dopo;
(b) il diritto di recesso si applica ai contratti stipulati dopo settembre, ma non a quelli prima;
(c) il diritto di recesso si applica ai contratti stipulati sia prima che dopo settembre;
(d) il diritto di recesso non si applica né ai contratti stipulati prima di settembre, né a quelli stipulati dopo;
la lettera della legge per come è stata concepita consente di escludere con certezza la prima e l’ultima, ma lascia impregiudicate le altre due.
3.3. Sul piano dell’interpretazione finalistica, la controricorrente MPS da per scontato che il legislatore sia intervenuto col d.l. 69/2013 per ristabilire una situazione di certezza, la quale sarebbe venuta meno in seguito all’intervento delle Sezioni Unite (così la memoria ex art. 378 c.p.c., pag. 12).
Questa lettura della nuova norma non ha alcuna solida base. Il presupposto che legittima l’intervento del legislatore attraverso una norma di interpretazione autentica è la situazione di incertezza che il legislatore intende eliminare.
Nel nostro ordinamento questa situazione di incertezza non solo non esisteva, ma anzi era stata esclusa proprio dall’intervento delle Sezioni Unite, cui l’art. 65 dell’Ordinamento giudiziario attribuisce il compito di rimuoverle, le incertezze, e non di crearle. Né, ovviamente, potrebbe spacciarsi per “incertezza del diritto” l’eventuale malumore ingenerato da una decisione della Corte di cassazione confliggente con (pur legittimi) interessi od aspettative privati.
Dunque l’art. 56 quater d.l. 69/2013 non può ritenersi una norma interpretativa perché dell’interpretazione autentica mancava il primo e principale presupposto, ovvero la possibilità di letture contrastanti. Possibilità venuta meno proprio in seguito all’intervento delle Sezioni Unite più volte ricordato, alla luce del combinato disposto degli artt. 65 ord. giud. e 374 c.p.c..
3.4. Oltre che per la mancanza del presupposto della oggettiva incertezza, l’art. 56 quater d.l. cit. non può essere qualificato come “norma interpretativa” nemmeno alla luce dei lavori preparatori, che non contengono alcuna indicazione in tal senso. Anzi, se mai vi fu norma oscura nella genesi e negli intenti, questa è l’art. 56 quater d.l. 69/2013.
Non presente nel testo originario del decreto presentato alle Camere per la conversione in legge, la norma di cui si discorre fu introdotta nel corso dell’esame al Senato (dopo che già l’altro ramo del Parlamento aveva approvato il disegno di legge di conversione del decreto), per effetto dell’emendamento 56-ter.0.1000 presentato dal Governo.
Durante l’esame dinanzi alle Commissioni I e V riunite del Senato, l’emendamento venne esaminato nella 10^ seduta, svoltasi lunedì 5 agosto 2013.
In quella seduta nessuno si peritò di illustrare l’emendamento di cui si discorre; nessuno ne spiegò il senso o gli scopi, nessuno ne rese manifesta l’utilità. Dal resoconto della seduta si apprende unicamente che a un certo punto venne “posto in votazione, con il parere favorevole dei relatori, l’emendamento 56-ter.0.1000, che è accolto” (cfr. resoconto sommario n. 5 del 5.8.2013).
Non diverso fu l’iter di approvazione della norma in esame da parte dell’assemblea. Nella 91^ seduta pubblica del 7.8.2013 né il governo, né alcun Senatore ha illustrato senso, scopi e ragione della nuova norma. Si legge infatti nel resoconto stenografico n. 91 del 7.8.2013: “PRESIDENTE. Passiamo alla votazione dell’emendamento 56-ter.0.1000. Votazione nominale con scrutinio simultaneo. presidente. Indico la votazione nominale con scrutinio simultaneo, mediante procedimento elettronico, dell’emendamento 56-ter.0.1000, presentato dalle Commissioni riunite. Dichiaro aperta la votazione. (Segue la votazione). Il Senato approva”.
Il giorno dopo il d.d.l. di conversione del d.l. 69/2013 passò (per la seconda volta) alla Camera, dove l’intera discussione verte unicamente sulla bizzarra circostanza che il testo del d.d.l. trasmesso alla Camera non coincideva con quello approvato dal Senato. Né nel resoconto stenografico dell’Assemblea relativo alla seduta n. 68 di giovedì 8 agosto 2013; né in quello n. 69 di venerdì 9 agosto 2013 si rinviene un solo intervento, del relatore o d’altri, che spieghi lo scopo dell’emendamento.
Questo essendo stato l’iter di formazione dell’art. 56 quater d.l. 69/2013, non è chiaro donde la controricorrente tragga la convinzione che la norma sia stata approvata per “ristabilire la certezza”, a suo dire infranta dall’intervento delle Sezioni Unite. E comunque, a tutto concedere, in ogni caso “l’intenzione del legislatore” di cui è menzione nell’art. 12 disp. prel. c.c. va intesa – per risalente tradizione – come volontà oggettiva della norma (c.d. voluntas legis), e non certo come volontà dei singoli partecipanti al processo formativo di essa (c.d. voluntas legislatoris) (ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 3550 del 21/05/1988, Rv. 458871; Sez. L, Sentenza n. 3276 del 08/06/1979, Rv. 399660; Sez. 2, Sentenza n. 1955 del 19/05/1975, Rv. 375656; Sez. 1, Sentenza n. 937 del 13/03/1975, Rv. 374322).
Infine, e sempre con riferimento all’intenzione del legislatore, è appena il caso di rilevare che gli atti normativi debbono presumersi voluti dal legislatore in senso conforme alle regole ed ai principi dell’ordinamento: sicché non può certo presumersi che il Governo, con l’emendamento introduttivo dell’art. 56 quater d.l. 69/2013, abbia avuto il poco commendevole intento di porre in non cale una sentenza delle Sezioni Unite, e scardinare in tal modo il principio di separazione tra i poteri dello Stato.
3.5. L’art. 56 quater d.l. 69/2013, in secondo luogo, non può essere considerato una norma di interpretazione autentica in base all’interpretazione costituzionalmente orientata.
Se, infatti, la norma in esame si interpretasse nel senso propugnato dalla controricorrente, essa entrerebbe in conflitto con molteplici precetti di rango costituzionale.
In primo luogo, l’interpretazione qui contestata si porrebbe in conflitto con l’art. 47, comma 1, Cost., nella parte in cui introdurrebbe un regime di favore per gli istituti di credito i quali abbiano stipulato contratti di negoziazione titoli fuori sede prima del 1.9.2013.
La suddetta distinzione inoltre, essendo rimasto immutato il resto della norma, sarebbe difficilmente compatibile col principio di uguaglianza di cui all’art. 3 cost., posto che non esiste alcuna circostanza idonea a giustificare una più solida tutela per i risparmiatori che abbiano stipulato i loro contratti dopo una certa data, rispetto a quelli che l’abbiano fatto prima.
In terzo luogo, l’interpretazione caldeggiata dalla MPS potrebbe porre la norma in contrasto con gli artt. 101 e 104 cost., nella parte in cui finirebbe per vanificare con effetto retroattivo il dictum delle Sezioni Unite già più volte ricordato.
4. La sentenza impugnata deve, in definitiva, essere cassata con rinvio sulla base dei seguenti principi di diritto:
(A) L’operazione finanziaria consistente nell’erogazione al cliente, da parte d’una banca, d’un mutuo contestualmente impiegato per acquistare per conto del cliente strumenti finanziari predeterminati ed emessi dalla banca stessa, a loro volta contestualmente costituiti in pegno in favore della banca a garanzia della restituzione del finanziamento, da vita ad un contratto atipico unico ed unitario, la cui causa concreta risiede nella realizzazione di un lucro finanziario, e che va sussunto tra i “servizi di investimento” di cui all’art. 1, comma 5, d.lgs. 24.2.1998 n. 58.
(B) Il diritto di recesso previsto in favore del risparmiatore dall’art. 30, comma 7, d. Igs. 24.2.1998 n. 58 nel caso di contratti stipulati fuori sede si applica sia nel caso di vendita di strumenti finanziari per i quali l’intermediario ha assunto un obbligo di collocamento nei confronti dell’emittente) sia nel caso di mera negoziazione di titoli.
(C) L’art. 56 quater del d.l. 21.6.2013, n. 69, il quale – novellando l’art. 30, comma 6, d.lgs. 24.2.1998 n. 58 – ha previsto che il diritto di recesso del risparmiatore dai contratti di investimento stipulati fuori sede spetti anche nel caso di operazioni di negoziazione di titoli per conto proprio stipulate dopo il 1 settembre 2013 non è una norma di interpretazione autentica, e non ha avuto l’effetto di sanare l’eventuale nullità dei suddetti contratti, se privi dell’avviso al risparmiatore dell’esistenza del diritto di recesso e stipulati prima del 1 settembre 2013.
Il giudice del rinvio provvederà, una volta applicati i suddetti principi, a statuire sulle domande restitutorie scaturenti dalla nullità del contratto.
4. Gli altri motivi di ricorso.
4.1. Gli ulteriori motivi di ricorso proposti dal ricorrente restano assorbiti dall’accoglimento del primo.
5. Le spese.
Le spese del giudizio di legittimità e dei gradi precedenti di merito saranno liquidate dal giudice del rinvio, ai sensi dell’art. 385, comma 3, c.p.c..
P.Q.M.
la Corte di cassazione, visto l’art. 383, comma primo, c.p.c.:
-) accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara assorbiti gli altri;
-) cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Brescia;
-) rimette al giudice del rinvio la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità e di quelle dei gradi di merito.
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