Il principio “in claris non fit interpretatio” deve essere inteso nel senso che la chiarezza che preclude qualsiasi approfondimento interpretativo del testo contrattuale è la chiarezza delle intenzioni dei contraenti
Suprema Corte di Cassazione
sezione III civile
sentenza 15 luglio 2016, n. 14432
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ARMANO Uliana – Presidente
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere
Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere
Dott. DEMARCHI ALBENGO Paolo Giovanni – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 26051/2013 proposto da:
(OMISSIS), ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS);
– intimati –
e contro
(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura speciale notarile;
– resistente con procura –
avverso la sentenza n. 1059/2012 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 25/07/2012, nelle cause riunite R.G.N. 869/2008 e R.G.N. 858/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 31/03/2016 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. – (OMISSIS) convenne in giudizio (OMISSIS), in proprio e per il figlio (OMISSIS), nonche’ (OMISSIS), per sentirli condannare all’immediato rilascio del bene immobile ad uso abitativo sito in (OMISSIS), e alla corresponsione di una indennita’ di occupazione dal 22 gennaio 1998 fino al giorno del rilascio.
1.1. – I convenuti si costituirono in giudizio contestando la fondatezza della domanda e, in via riconvenzionale, instarono per la declaratoria di nullita’ assoluta della compravendita del predetto immobile (caduto nell’attivo del Fallimento della S.n.c. (OMISSIS) di (OMISSIS) a seguito del decesso di (OMISSIS) moglie di (OMISSIS) e madre di (OMISSIS) e (OMISSIS)) intervenuta, con atto transattivo del 22 ottobre 1998, tra (OMISSIS) e la Curatela del predetto Fallimento, per vizi della vendita fallimentare; chiesero, altresi’, che, in caso di accoglimento della domanda attorea, la Curatela del Fallimento – chiamata in causa a seguito di apposita autorizzazione -, li manlevasse dalla indennita’ di occupazione L. Fall., ex articolo 47.
1.2. – Il Tribunale di Firenze, con sentenza del marzo 2007, rigetto’ le domande avanzate dall’attore.
1.2.1. – Il giudice di primo grado osservo’, in particolare, che l’immobile controverso apparteneva a (OMISSIS), moglie di (OMISSIS) e madre di (OMISSIS) e (OMISSIS), deceduta il (OMISSIS) e nei cui confronti il fallimento era stato esteso in data 11 gennaio 1995, quale socia illimitatamente responsabile della S.n.c. (OMISSIS).
Il bene era, quindi, caduto nell’attivo fallimentare e l’atto stipulato in data 22 ottobre 1998, con cui (OMISSIS) e il Fallimento, per prevenire un giudizio divisorio, concludevano un accordo transattivo per trasferire al primo l’immobile controverso, doveva considerarsi nullo per violazione della norma imperativa di cui alla L. Fall., articolo 108, per esser stata la vendita conclusa a seguito di semplice trattativa privata.
La circostanza, poi, che il trasferimento fosse avvenuto non con una compravendita, ma “per effetto di accordo definito transattivo”, non era dirimente, “perche’ al di la’ del nomea iuris o dello strumento con cui veniva attuata la cessione del diritto reale immobiliare, nessun negozio attraverso cui venisse realizzato il trasferimento (quindi neanche la vendita immobiliare avvenuta nell’ambito di una transazione) si sottraeva all’applicazione dell’articolo 1419 c.c.”.
Peraltro, non si poteva ritenere “che nel caso di specie si ponesse fine o si intendesse prevenire una lite inerente la titolarita’ del diritto reale sulla cosa, in quanto espressamente il trasferimento di proprieta’ avveniva per evitare la controversia divisoria (che quindi gia’ presupponeva la titolarita’ del diritto reale in capo al cedente, come dato per ammesso nell’accordo denominato transazione)”.
Sicche’, essendo il titolo dedotto in giudizio nullo e quindi improduttivo di effetti nei confronti dei convenuti, erano infondate anche le domande attoree di rilascio dell’immobile e di condanna al pagamento dell’indennita’ di occupazione.
Avverso tale decisione proponevano distinte impugnazioni (OMISSIS), la Curatela del Fallimento (OMISSIS) S.n.c. di (OMISSIS), nonche’ (OMISSIS) e i figli (OMISSIS) e (OMISSIS).
2.1. – Per quanto ancora interessa in questa sede, la Corte d’appello di Firenze, pronunciando sulle cause riunite con sentenza resa pubblica il 25 luglio 2012, rigettava l’impugnazione del (OMISSIS) e della Curatela Fallimentare.
2.2. – La Corte territoriale riteneva che il primo giudice avesse esattamente evidenziato che il realizzato trasferimento immobiliare non poteva essere sottratto alla nullita’ ex articolo 1419 c.c. per violazione di norma imperativa.
Del resto, osservava ancora il giudice del gravame, nell’atto transattivo, al di la’ del nomea iuris utilizzato, vi erano molteplici ed espliciti riferimenti allo schema contrattuale della compravendita (quali l’espresso riferimento a una “parte acquirente” e una “parte venditrice” o alle “spese della vendita”); in sostanza, alla luce di una esegesi condotta in base agli articoli 1362 e 1363 c.c., si era fatto ricorso allo “schema della transazione c.d. “traslativa”, tenuto conto della prevalenza degli effetti dell’atto rispetto alla sua forma giuridica ed essendo prevalente l’effetto traslativo della proprieta’ immobiliare, a prescindere dallo schema negoziale scelto dalle parti per conseguire lo scopo che in concreto volevano realizzare”.
Ed ancora – soggiungeva la Corte di appello – nella fattispecie, mancava “un oggetto del negozio piu’ ampio di quello della vendita” ed anche la prova di “una contropartita piu’ consistente rispetto a quella di una vendita forzata”.
3. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre (OMISSIS) sulla base di due motivi.
Ha depositato procura notarile alle liti il curatore del fallimento della (OMISSIS) di (OMISSIS) s.n.c., ai fini della partecipazione alla discussione in udienza.
Non hanno svolto attivita’ difensiva gli intimati (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS).
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. – Preliminarmente, va evidenziato che la rinuncia al mandato dei difensori del ricorrente, senza che vi sia stata sostituzione con altro/i difensore/i, per effetto del principio della cosiddetta perpetuatio dell’ufficio di difensore (di cui e’ espressione l’articolo 85 c.p.c.) nessuna efficacia puo’ dispiegare anche nell’ambito del giudizio di cassazione, oltretutto caratterizzato da uno svolgimento per impulso d’ufficio (Cass., 9 luglio 2009, n. 16121). Sicche’, – come ancora rilevato dalla citata sentenza n. 16121 del 2009 – “in base alla normativa in materia ed (in particolare) al principio di diritto ora esposto non e’ configurabile alcuna lesione dei diritti processuali di detta parte e neppure (e’ opportuno precisarlo) con riferimento all’avviso di udienza (effettuato presso i difensori domiciliatari); infatti in base al principio predetto cio’ avvenuto ritualmente”.
2. – Con il primo mezzo e’ denunciata, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. Fall., articolo 108, articolo 1965 c.c., e articolo 12 preleggi, comma 2; nonche’, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dedotto vizio di “motivazione inesistente od apparente su un punto fondamentale della controversia”.
La Corte territoriale avrebbe erroneamente applicato la L. Fall., articolo 108, nella sua formulazione precedente alla riforma legislativa del 2006, in quanto il contratto con il quale avveniva il trasferimento dell’immobile controverso era non una vendita, bensi’ una transazione, se pure atteggiata nella sua particolare forma traslativa, come consentito dall’articolo 1965 c.c., comma 2.
Il giudice di appello si sarebbe, quindi, discostato immotivatamente dalla sentenza n. 25136 del 2008 di questa Corte, che aveva affermato l’inapplicabilita’ dell’articolo 108, anzidetto ove il trasferimento avvenga mediante una transazione autorizzata dal giudice delegato, avendo il negozio transattivo un oggetto piu’ ampio della vendita, in quanto destinato, attraverso reciproche concessioni, alla definizione di una oggettiva situazione di litigiosita’ tra le parti.
Sicche’, la Corte territoriale avrebbe violato anche l’articolo 12 preleggi, per avere esteso analogicamente, con motivazione inadeguata e contraddittoria, la norma eccezionale di cui alla L. Fall., articolo 108, al contratto tipico di transazione disciplinato dall’articolo 1965 c.c., avendo lo stesso giudice di appello confermato che il contratto inter partes fosse una transazione.
3. – Con il secondo mezzo e’ prospettata, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’articolo 12 preleggi, e dell’articolo 1362 c.c.; nonche’, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dedotto vizio di “motivazione contraddittoria ed illogica sul punto della qualificazione del contratto”.
Il giudice di appello avrebbe erroneamente interpretato il contratto di transazione inter partes, assimilandolo ad una compravendita senza tenere conto di alcuni elementi che pure emergono dall’atto transattivo stesso. In particolare, la sentenza non avrebbe considerato che il trasferimento riguardava la quota di meta’ di un immobile, che per l’altra meta’ era di (OMISSIS), cosicche’ la vendita della quota da parte della Curatela doveva essere preceduta da un giudizio di divisione; il ricorrente, in qualita’ di coerede, godeva di un diritto di prelazione, cio’ che avrebbe determinato incertezza sull’acquisto del bene da parte dell’aggiudicatario; nel corso del giudizio di divisione potevano, inoltre, nascere controversie e proprio al fine di evitarle era stato stipulato il contratto di transazione. Lo scopo di prevenire fra le parti un giudizio divisorio attraverso reciproche concessioni era stato espressamente dichiarato nell’atto, non potendosi, dunque, negare la natura transattiva dello stesso.
La Corte d’appello, invece, avrebbe violato il criterio di interpretazione letterale degli atti, non considerando che gli altri canoni ermeneutici e il principio di conservazione hanno un ambito di applicazione sussidiario, rilevando, cioe’, solo qualora la volonta’ espressa dalla parti non sia chiara.
Inoltre, il giudice di secondo grado illogicamente non avrebbe considerato che, in riferimento alla transazione, non e’ necessario che i contraenti “esteriorizzino il dissenso sulle contrapposte pretese, ne’ che siano usate espressioni direttamente rivelatrici del negozio transattivo”.
Sarebbe, altresi’, contraddittoria la motivazione la’ dove, per un verso, si afferma l’estensione del divieto di cui alla L. Fall., articolo 108, alle transazioni traslative, per altro verso, si afferma, invece, che il contenuto “compositivo” dell’atto fosse in realta’ evanescente.
4. – I motivi, da scrutinarsi congiuntamente, non possono trovare accoglimento.
4.1. – Giova rammentare, in linea di principio (alla stregua di quanto gia’ affermato, segnatamente, da Cass., 23 giugno 2015, n. 12912, in motivazione), che l’interpretazione e la qualificazione del contratto sono due operazioni concettualmente distinte, sebbene legate da una connessione biunivoca, in quanto volte all’unico fine che e’ la determinazione dell’effettivo regolamento negoziale. La prima (l’interpretazione) precede logicamente la seconda (la qualificazione).
L’attivita’ interpretativa e’, infatti, operazione ermeneutica, governata da criteri giuridici cogenti, che tende alla ricostruzione del significato del contratto in conformita’ alla comune volonta’ dei contraenti.
Una volta individuata l’intenzione comune delle parti del contratto, il passaggio successivo e’ la sussunzione del negozio in un paradigma disciplinatorio, si da apprezzarne l’aderenza (magari anche solo parziale e/o secondo schemi combinatori) con una fattispecie astratta, tra quelle preventivamente delineate dal legislatore oppure conformate dagli usi e dalle prassi commerciali, sebbene il contratto possa anche non coincidere affatto con il “tipo” e mantenere, come tale, la sua vocazione ad essere “legge tra le parti”, ove sia diretto a realizzare un interesse meritevole di tutela, ai sensi dell’articolo 1322 c.c., comma 2.
In siffatta prospettiva, la qualificazione del contratto ha la funzione di stabilire quale sia la disciplina in concreto ad esso applicabile, con le relative conseguenze effettuali.
L’attivita’ di interpretazione – consistente, come detto, nella ricerca e nella individuazione della comune volonta’ dei contraenti – e’ un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, normalmente incensurabile in sede di legittimita’, salvo che nelle ipotesi di motivazione viziata ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (nella formulazione antecedente alla novella legislativa del 2012) o di motivazione apparente, in ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, alla stregua della citata norma attualmente vigente, ovvero, ancora, di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, previsti dall’articolo 1362 c.c. e ss.. L’attivita’ di qualificazione, affidandosi al metodo della sussunzione, si risolve nell’applicazione di norme giuridiche e puo’ formare oggetto di verifica in sede di legittimita’ sia per cio’ che attiene alla descrizione del modello tipico cui si riferisce, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto cosi come accertati, sia, infine, con riferimento alla individuazione delle implicazioni effettuali conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo.
4.1.1. – La ricerca volta ad individuare l’effettiva voluntas dei contraenti, utile per la successiva qualificazione del negozio, non puo’, come accennato, prescindere dall’osservanza dai canoni ermeneutici di cui all’articolo 1362 c.c. e ss., che rappresentano delle vere e proprie norme cogenti, le quali sono ordinate secondo un principio di gerarchia interna, in forza del quale i canoni strettamente interpretativi prevalgono SU quelli interpretativi- integrativi, tanto da escluderne la concreta operativita’ allorquando l’applicazione dei primi risulti da sola sufficiente a rendere palese la comune intenzione delle parti stipulanti (in tal senso gia’ Cass., 21 luglio 1972, n. 2505; Cass., 14 gennaio 1983, a. 287).
Sicche’, proprio secondo quest’ordine gerarchico, e’ lo stesso articolo 1362 c.c. – che, quale norma di apertura del “Capo” (4 del Titolo 2 del Libro 4 del codice) dedicato alla interpretazione del contratto, si assume il compito, prescrittivo, di declinare l’oggetto dell’attivita’ interpretativa (cioe’ “quale sia stata la comune intenzione delle parti”) – che confina il dato “testuale”, pur rivestendo esso rilievo centrale, in un ambito di per se’ non decisivo, giacche’ l’interprete non puo’ “limitarsi al senso letterale delle parole”, ma deve indagare, per l’appunto, quale sia la “comune intenzione” dei contraenti anche tramite “il loro comportamento complessivo”.
La norma (di per se’ e nel suo correlarsi alle ulteriori disposizioni che formano il Capo 4), seppure rispondente a fini intrinseci e a funzioni proprie della “materia giuridica”, allude ai fondamentali stessi delle “scienze” il cui oggetto precipuo e’ l’analisi del linguaggio, per i quali il “significato” della lettera e’ possibile attingerlo solo in una dimensione combinata, e non separata, di piani, ossia, quanto meno, quello semantico, quello pragmatico (da cui la forza illocutoria dell’enunciato) e quello del contesto in cui si colloca.
Di qui, pertanto, l’assunto anzidetto sulla non decisivita’ del mero dato testuale ai fini della ricostruzione dell’accordo, giacche’ – come messo in risalto dalla stessa giurisprudenza di questa Corte (Cass., 9 giugno 2005, n. 12120; Cass., 10 dicembre 2008, n. 29029) – il significato delle dichiarazioni negoziali non e’ un prius, ma l’esito di un processo interpretativo, “il quale non puo’ arrestarsi alla ricognizione del tenore letterale delle parole, ma deve estendersi alla considerazione di tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per se’ “chiare” e non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un’espressione prima facie chiara puo’ non apparire piu’ tale, se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti”.
In altri termini, la “lettera” rappresenta la porta di ingresso della cognizione della guaestio voluntatis, che immette in un ambito composito in cui sinergicamente operano i vari canoni ermeneutici – per l’appunto, la lettera (il senso letterale), la connessione (il senso coordinato) e l’integrazione (il senso complessivo) – tutti legati da un rapporto di necessita’ ai fini dell’esperimento del procedimento interpretativo della norma contrattuale (cfr. Cass., 28 marzo 2006, n. 7083; Cass., 8 marzo 2007, n. 5287; Cass., 3 giugno 2014, n. 12360).
4.1.2. – In siffatto contesto occorre, dunque, intendere il principio (non ricompreso fra i criteri d’interpretazione del contratto accolti dal codice vigente) secondo cui in ciarla non fit interpretatio. Come precisato da Cass., 9 dicembre 2014, n. 25840, la “chiarezza” che consente di evitare ogni altra indagine interpretativa non e’, infatti, “una chiarezza lessicale in se’ e per se’ considerata, avulsa dalla considerazione della comune volonta’ delle parti”. Al contrario, “la chiarezza che preclude qualsiasi approfondimento interpretativo del testo contrattuale e’ la chiarezza delle intenzioni dei contraenti”.
Soltanto ove lettera ed intenzione delle parti siano effettivamente chiari e tra loro coerenti potra’, dunque, arrestarsi l’indagine dell’interprete. Con la conseguenza che e’ da escludere che l’anzidetto principio possa trovare applicazione “nel caso in cui il testo negoziale sia chiaro, ma non coerente con ulteriori ed esterni indici rivelatori della volonta’ dei contraenti” (cosi’ ancora Cass. n. 25840, cit.).
4.2. – La sentenza impugnata e’ armonica rispetto ai ricordati principi in materia di esegesi contrattuale, giacche’ (cfr. sintesi ai 1.2.1. e 2.2. del “Ritenuto in fatto” che precede e cui si rinvia) il giudice di appello al pari di quello di primo grado (la cui decisione e’ motivatamente condivisa dalla Corte toscana) ha interpretato il negozio del 22 ottobre 1998 tra (OMISSIS) ed il Fallimento (OMISSIS) come una compravendita e non gia’ una vera e propria transazione e cio’ al di la’ del nomen iuris attribuito dalle parti al negozio.
In tal senso va letto anche il richiamo, da parte della Corte di merito, allo “schema della transazione cd. traslativa”, evidenziandosi, proprio all’esito del percorso ermeneutico compiuto, quale fosse la reale volonta’ comune ai contraenti, ossia quella, prevalente rispetto alla forma giuridica, di addivenire alla compravendita dell’immobile.
Ed infatti, nella sentenza di appello – operandosi la ricognizione della comune volonta’ delle parti contraenti alla luce del complessivo regolamento negoziale – si e’ posto in risalto che il contenuto contrattuale faceva effettivamente riferimento ad una vendita immobiliare e di essa erano palesati evidenti indici (si indicavano le parti come alienante ed acquirente, ci si riferiva ad una cessione e ad un acquisto, etc.), non risultando, poi, esservi contropartite tipiche della transazione, posto altresi’ che l’oggetto del trasferimento era esclusivamente limitato all’immobile.
Si tratta di interpretazione congrua e plausibile, alla quale il ricorrente oppone (inammissibilmente, in quanto surrogantesi ad attivita’ che e’ riservata al giudice del merito) la propria, senza, pero’, dare reale contezza di errori nell’applicazione dei canoni ermeneutici da parte della Corte territoriale.
Anche la censura sul fatto che il giudice di secondo grado abbia fatto riferimento – che si assume asseritamente contraddittorio con le raggiunte conclusioni – ad una “transazione traslativa” non coglie nel segno, perche’, come visto, il rilievo e’ stato funzionale solo a dare prevalenza all’effetto giuridico realmente voluto dalle parti e, in tal senso, la ratio decidendi e’ rispettosa del principio secondo cui “la transazione puo’ avere funzione traslativa soltanto con riguardo a rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti, essendo inconcepibile il trasferimento (tra le parti in lite), mediante transazione, di un diritto la cui appartenenza sia incerta perche’ oggetto di contestazione” (Cass., 17 settembre 2004, n. 18737).
Si sottrae, dunque, alle critiche mosse con il ricorso il ragionamento del giudice di appello che ha interpretato il contratto intercorso tra il (OMISSIS) e la curatela fallimentare come una compravendita, avendo ravvisato tale rapporto come quello esclusivo delle reciproche concessioni tra le parti, negando che la “transazione” avesse un oggetto piu’ ampio di quello della voluta compravendita.
Dunque, acquisito il non censurabile esito interpretativo in termini di esistenza di un contratto di compravendita immobiliare e non gia’ di una transazione, la Corte di appello, oltre a non incorrere nella violazione dell’articolo 12 disp. gen., (in punto di applicazione analogica della L. Fall., articolo 108, nella formulazione ratione temporie applicabile), in ogni caso non si e’ posta neppure in contrasto con i principi espressi dalla citata Cass. n. 25136 del 2008, che ammette il trasferimento immobiliare, di bene immobile, caduto nell’attivo fallimentare, nelle forme della trattativa privata, tramite un contratto (effettivamente) di transazione (in quanto negozio dall’oggetto piu’ ampio di quello di una compravendita), senza doversi applicare in tal caso l’anzidetto L. Fall., articolo 108.
5. ricorso va, pertanto, rigettato, con compensazione integrale delle spese del presente giudizio di legittimita’ tra il (OMISSIS) e la curatela del Fallimento della (OMISSIS) di (OMISSIS) s.n.c. (il cui difensore ha partecipato alla discussione in udienza), avendo quest’ultima una posizione adesiva a quella espressa con il ricorso.
Nulla e’ da disporsi in punto di regolamentazione di dette spese nei confronti delle parti intimate che non hanno svolto attivita’ difensiva in questa sede.
P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese del presente giudizio di legittimita’ tra il ricorrente e la curatela del Fallimento della (OMISSIS) di (OMISSIS) s.n.c..
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato articolo 13, comma 1 bis.
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