SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II
SENTENZA 31 marzo 2016, n.6231
Ritenuto in fatto
M.C. ha agito in giudizio nei confronti di B.G. , P.L. e S.M. , per ottenere il risarcimento dei danni subiti da un proprio immobile a causa dei lavori di sbancamento effettuati per realizzare una costruzione nel confinante fondo di proprietà dei convenuti.
Questi ultimi hanno resistito alla domanda, deducendo che unica eventuale responsabile dei danni era la società alla quale avevano appaltato i lavori, S. Maria Costruzioni 81 a S.r.l., che hanno chiamato in causa per essere manlevati in caso di condanna.
La S. Maria Costruzioni 81 a S.r.l. ha a sua volta chiamato in causa la propria assicuratrice della responsabilità civile, RAS S.p.A. (poi divenuta Allianz S.p.A.), per esserne garantita.
Il Tribunale di Roma ha rigettato la domanda degli attori, ritenendo sussistere l’esclusiva responsabilità dell’appaltatrice, in mancanza di prova della violazione di regole di cautela nascenti dall’art. 2043 c.c. e della imputabilità del danno al committente per culpa eligendo.
La Corte di Appello di Roma ha confermato la pronunzia di primo grado, ritenendo a sua volta insussistente la legittimazione passiva del committente in relazione alla domanda proposta ai sensi dell’art. 2043 c.c., di cui ha escluso la possibile automatica estensione all’appaltatrice, essendo questa stata chiamata in garanzia e non quale terza responsabile.
Ricorre il M. in base a due motivi.
Il B. e la P. resistono con controricorso e propongono ricorso incidentale condizionato indicando due profili.
La Allianz S.p.A. resiste con distinto controricorso, che illustra con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli altri intimati
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo del ricorso principale si denunzia ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 1655 c.c. in relazione all’art. 840 c.c. e all’art. 2043 c.c.. Omessa, insufficiente e contraddittorietà della motivazione’.
Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
La corte di appello ha fatto corretta applicazione della costante giurisprudenza di questa Corte (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 3, Sentenza n. 11371 del 16 maggio 2006; Sez. 3, Sentenza n. 13131 del 1 giugno 2006; Sez. 3, Sentenza n. 7356 del 26 marzo 2009; Sez. 3, Sentenza n. 7755 del 29 marzo 2007; Sez. 3, Sentenza n. 10588 del 23 aprile 2008; Sez. 3, Sentenza n. 24320 del 30 settembre 2008; Sez. 3, Sentenza n. 23947 del 12 novembre 2009) secondo cui, di regola, l’appaltatore deve ritenersi unico responsabile dei danni derivati a terzi dall’esecuzione dell’opera, atteso che egli esplica l’attività contrattualmente prevista in piena autonomia, con propria organizzazione ed a proprio rischio, apprestando i mezzi adatti e curando le modalità esecutive per il raggiungimento del risultato. Secondo tale giurisprudenza una corresponsabilità del committente può eccezionalmente configurarsi in caso di specifica violazione di regole di cautela nascenti dall’art. 2043 c.c., ovvero in caso di riferibilità dell’evento al committente stesso per culpa in eligendo, per essere stata affidata l’opera ad un’impresa assolutamente inidonea, ovvero ancora quando l’appaltatore, in base a patti contrattuali o nel concreto svolgimento del contratto, sia stato un semplice esecutore di ordine del committente e privato della sua autonomia a tal punto da aver agito come nudus minister di questi, o infine quando il committente si sia di fatto ingerito con singole e specifiche direttive nella esecuzione del contratto o abbia concordato con l’appaltatore singole fasi o modalità esecutive dell’appalto. In particolare, un dovere di controllo di origine non contrattuale gravante sul committente al fine di evitare che dall’opera derivino lesioni del principio del neminem laedere può essere configurato solo con riferimento alla finalità di evitare specifiche violazioni di regole di cautela (cfr. ad es., oltre a quelle sopra citate: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 11478 del 21 giugno 2004; Sez. 2, Sentenza n. 7273 del 12 maggio 2003) e non anche al fine di realizzare una generale supervisione da parte del committente sulla conformità del comportamento dell’appaltatore al principio base della responsabilità civile. Sulla base di questo corretto approccio ermeneutico, ha peraltro escluso che fossero state allegate e provate dall’attore (come sarebbe stato suo onere) circostanze comportanti la deroga al principio della responsabilità del solo appaltatore.
Il motivo di ricorso è pertanto infondato per quanto riguarda la dedotta violazione dell’art. 1655 c.c., mentre è inammissibile, per difetto di specificità ed autosufficienza, nella parte in cui lamenta il mancato riconoscimento della responsabilità dei convenuti ai sensi dell’art. 2050 c.c., nonché per la violazione di norme generali di cautela e per una loro pretesa culpa in eligendo, ai sensi dell’art. 2043 c.c..
I motivi di appello con i quali si facevano valere questi ultimi addebiti risultano infatti respinti dalla corte di merito sull’assunto che i fatti costitutivi delle corrispondenti fattispecie di imputazione della responsabilità non erano stati espressamente allegati con l’atto introduttivo e quindi non erano deducibili in sede di gravame, in quanto nuovi, ai sensi dell’art. 345 c.p.c..
Tale ratio decidendi non risulta oggetto di specifica censura, in violazione dell’art. 366, co. 1, n. 4, c.p.c..
Il ricorrente non indica specificamente, del resto, neanche gli atti processuali dai quali potrebbe eventualmente emergere la tempestiva allegazione dei fatti costitutivi degli addebiti in questione, ai sensi dell’art. 366, co. 1, n. 6, c.p.c..
In proposito risultano inoltre assorbenti le seguenti ulteriori considerazioni: a) la dedotta attività ‘pericolosa’, ai sensi dell’art. 2050 c.c., sarebbe stata esercitata pur sempre dall’appaltatrice e non dai proprietari del fondo; b) anche in base all’orientamento che ritiene configurabile, in una situazione del genere, una mera emendatio libelli, l’originario attore, in appello, non può avvalersi di una regola probatoria più favorevole (‘quando l’attore abbia invocato in primo grado la responsabilità del convenuto ai sensi dell’art. 2043 c.c., il divieto di introdurre domande nuove, la cui violazione è rilevabile d’ufficio da parte del giudice, non gli consente di chiedere successivamente la condanna del medesimo convenuto ai sensi degli artt. 2050 o 2051 c.c., a meno che l’attore non abbia sin dall’atto introduttivo del giudizio enunciato in modo sufficientemente chiaro situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee, in quanto compiutamente precisate, ad integrare la fattispecie contemplata da detti articoli; nondimeno, le diverse regole di imputazione della responsabilità previste da detti articoli, essendo più favorevoli per l’attore danneggiato poiché comportanti un’inversione dell’onere della prova, in tanto possono essere poste a fondamento della responsabilità del convenuto in quanto non si ascriva al medesimo la mancata prova di fatti che egli non sarebbe stato tenuto a provare in base al criterio di imputazione della responsabilità originariamente invocato dall’attore’: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 18609 del 5 agosto 2013, conf.: Sez. 3, Sentenza n. 18463 del 21 settembre 2015).
Per quanto riguarda infine il mancato riconoscimento della responsabilità dei convenuti quali meri proprietari del fondo, ai sensi dell’art. 840 c.c., va ribadito il principio affermato da questa Corte, per cui ‘la responsabilità del proprietario di un fondo per i danni derivanti da attività di escavazione, ex art. 840 c.c., non opera in senso oggettivo, ma richiede una condotta colposa, sicché, nell’ipotesi in cui i lavori di escavazione siano affidati in appalto, è l’appaltatore ad essere di regola l’esclusivo responsabile dei danni cagionati a terzi nell’esecuzione dell’opera, salvo che non risulti accertato che il proprietario committente aveva – in forza del contratto di appalto la possibilità di impartire prescrizioni o di intervenire per richiedere il rispetto delle normative di sicurezza e che se ne sia avvalso per imporre particolari modalità di esecuzione o particolari accorgimenti antinfortunistici che siano stati causa (diretta o indiretta) del sinistro’ (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 6296 del 13 marzo 2013; Sez. 3, Sentenza n. 538 del 17 gennaio 2012; Sez. 3, Sentenza n. 16254 del 25 settembre 2012).
In particolare, la suddetta responsabilità postula che il committente venga chiamato in giudizio quale proprietario del fondo nel quale siano state fatte escavazioni e che proprio queste escavazioni siano state causa dei danni lamentati, con l’ulteriore deduzione di un comportamento dello stesso proprietario colposo (o doloso) tale da determinarne la responsabilità (ai sensi delle norme sull’illecito civile: artt. 2043, 2050, 2053 c.c.), posto che questa non sussiste per effetto della sola titolarità del diritto di proprietà (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 26002 del 5 dicembre 2011, in motivazione).
Con riguardo ad ipotesi di tal fatta, la responsabilità del committente è stata infatti spiegata in ragione della sua qualità di proprietario ex art. 840, co. 1, c.c. (v. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5273 del 28 febbraio 2008), e si è precisato che l’esistenza del rapporto di appalto può valere per consentire al committente una eventuale rivalsa nei confronti dell’appaltatore inadempiente o in colpa, o se del caso, a far sorgere una responsabilità dell’appaltatore verso il terzo danneggiato che può aggiungersi a quella del proprietario, ma non sostituirla o eliminarla.
Ma si è anche precisato che l’art. 840 c.c., va letto in combinato disposto con l’art. 2043 c.c. (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2988 del 23 giugno 1989) o con l’art. 2053 c.c. (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22226 del 17 ottobre 2006) o, ancora, con l’art. 2050 c.c. (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 6104 del 20 marzo 2006), per come si evince anche dalle motivazioni delle sentenze che si sono occupate della questione (cfr., tra le altre, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6473 del 15 luglio 1997, Sez. 3, Sentenza n. 4577 del 6 maggio 1998, nonché da ultimo, la citata Cass. n. 5273 del 2008). In altri termini la responsabilità del proprietario ex art. 840 c.c., non opera in senso oggettivo, ma richiede una condotta colposa, con la conseguenza che, nell’ipotesi in cui lavori di escavazione siano affidati dal proprietario in appalto, la suindicata disciplina va interpretata alla stregua del principio sopra richiamato secondo cui l’appaltatore è di regola esclusivo responsabile dei danni cagionati a terzi nella esecuzione dell’opera. Ne consegue che non sussiste responsabilità del proprietario committente ove non risulti accertato che questi, avendo in forza del contratto di appalto la possibilità di impartire prescrizioni nell’esecuzione dei lavori o di intervenire per chiedere il rispetto della normativa di sicurezza, se ne sia avvalso per imporre particolari modalità di esecuzione dei lavori o particolari accorgimenti antinfortunistici che siano stati causa (diretta o indiretta) del sinistro (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 19132 del 20 settembre 2011; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 15782 del 12 luglio 2006, oltre alle già richiamate sentenze n. 6296 del 2013, n. 538 del 2012 e n. 16254 del 2012).
E nella specie (dovendo peraltro escludersi che sia stata proposta azione ai sensi dell’art. 2051 c.c. e dunque che possa affermarsi la oggettiva responsabilità dei proprietari del fondo oggetto dell’attività di scavo, quali custodi di esso) la mancanza di elementi valutabili in tale ultimo senso risulta assorbente.
2.- Con il secondo motivo del ricorso principale si denunzia ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 106 c.p.c.’.
Il motivo è inammissibile per difetto di specificità ed autosufficienza.
La corte di appello ha ritenuto impossibile l’automatica estensione, ai sensi dell’art. 106 c.p.c., della domanda di parte attrice all’appaltatrice chiamata in causa dai convenuti proprietari del fondo confinante, trattandosi di chiamata in garanzia e non di chiamata del terzo responsabile.
Il ricorrente contesta tale interpretazione dell’atto di chiamata in causa.
L’error in procedendo denunziato (violazione dell’art. 106 c.p.c.) postula dunque un’interpretazione dei contenuti dell’atto di citazione del terzo (che è l’atto rilevante nei confronti di quest’ultimo).
Ma nel ricorso non si riporta esattamente il contenuto della comparsa di risposta e dell’atto di chiamata in causa da cui si dovrebbe trarre la conclusione secondo cui la chiamata non era qualificabile come chiamata in garanzia ma come chiamata del terzo responsabile, né si indica l’esatta allocazione processuale di tali atti.
La possibilità di esame diretto degli atti processuali non esonera il ricorrente dal rispetto dell’art. 366, co. 1, n. 6, e dell’art. 369, co. 2, n. 4, c.p.c..
L’inammissibilità del motivo di ricorso consegue dunque alla carenza dell’esposizione dei fatti rilevanti ai fini della decisione e all’omessa specificazione, ai sensi dell’art. 366, co. 1, n. 6, c.p.c., degli atti, anche processuali, sui quali il motivo si fonda (cfr. Cass., Sez. U, Sentenza n. 28547 del 2 dicembre 2008; Sez. 3, Ordinanza n. 29 del 5 gennaio 2010; Sez. U, Ordinanza n. 7161 del 25 marzo 2010; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 17602 del 23 agosto 2011; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 124 del 4 gennaio 2013).
Invero, anche in ipotesi di denuncia di un error in procedendo, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità, presuppone, comunque, l’ammissibilità del motivo di censura, cosicché il ricorrente è tenuto – in ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, che deve consentire al giudice di legittimità di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo demandatogli del corretto svolgersi dell’iter processuale – non solo ad enunciare le norme processuali violate, ma anche a specificare le ragioni della violazione, in coerenza a quanto prescritto dal dettato normativo, secondo l’interpretazione da lui prospettata (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 2, Sentenza n. 5148 del 3 aprile 2003; Sez. 3, Sentenza n. 20139 del 18 ottobre 2005; Sez. 3, Sentenza n. 2140 del 31 gennaio 2006; Sez. 3, Sentenza n. 830 del 18 gennaio 2006; Sez. 3, Sentenza n. 24211 del 14 novembre 2006; Sez. 1, Sentenza n. 20405 del 20 settembre 2006; Sez. 3, Sentenza n. 21621 del 16 ottobre 2007; Sez. L, Sentenza n. 13657 del 4 giugno 2010).
3.- Il ricorso incidentale condizionato (che non indica motivi) è assorbito in conseguenza del rigetto di quello principale.
4.- Si deve infine osservare che agli atti non vi è prova della regolare notificazione del ricorso all’intimato S.M. , ma la circostanza non rileva, in considerazione del principio acquisito nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a produrre i suoi effetti (cfr. Cass. Sez. Un., ord. 22 marzo 2010 n. 6826; fra le tante altre: Cass. 18 gennaio 2012 n. 690; 25 gennaio 2012 n. 1032; ord. 8 novembre 2012 n. 19317).
In caso di ricorso per cassazione prima facie infondato (come è a dirsi nella specie, per quanto si è sin qui osservato), appare superfluo, pur potendone sussistere i presupposti, disporre la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio ovvero per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti (Cass. 17 giugno 2013 n. 15106).
5.- Il ricorso principale è rigettato. Quello incidentale condizionato è conseguentemente assorbito.
Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo.
Dal momento che il ricorso risulta notificato successivamente al termine previsto dall’art. 1, co. 18, della legge n. 228 del 2012, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, co. 17, della citata legge n. 228 del 2012.
P.Q.M.
La Corte:
decidendo sui ricorsi riuniti:
– rigetta il ricorso principale;
– dichiara assorbito il ricorso incidentale;
– condanna la parte ricorrente a pagare le spese del presente giudizio in favore delle parti controricorrenti, liquidandole, per ciascuna di esse, in complessivi Euro 3.400,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13
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