Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 13 novembre 2015, n. 45321
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENTILE Mario – Presidente
Dott. TADDEI Margherita – Consigliere
Dott. DIOTALLEVI Giovanni – Consigliere
Dott. VERGA Giovanna – Consigliere
Dott. PELLEGRINO Andrea – est. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto nell’interesse di:
(OMISSIS), n. a (OMISSIS), rappresentato ed assistito dall’avv. (OMISSIS), di fiducia;
avverso l’ordinanza del Tribunale di Napoli, ottava sezione penale in funzione di giudice del riesame, n. 2161/2015, in data 21.04.2015;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
preso atto della ritualita’ delle notifiche e degli avvisi;
sentita la relazione della causa fatta dal consigliere Dott. Andrea Pellegrino;
udita la requisitoria del sostituto procuratore generale Dott. GALLI Massimo che ha concluso chiedendo l’annullamento dell’ordinanza limitatamente alla ricorrenza dell’aggravante di cui alla Legge n. 203 del 1991, articolo 7;
sentita altresi’ la discussione del difensore, avv. (OMISSIS), che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso con annullamento dell’ordinanza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza in data 07.04.2015, il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Napoli applicava nei confronti di (OMISSIS) la misura cautelare della custodia in carcere per il reato di concorso in estorsione aggravata ai sensi della Legge n. 203 del 1991, articolo 7 in danno di (OMISSIS).
1.1. La vicenda trae origine dall’attivita’ investigativa dei carabinieri di Casoria che apprendevano da fonte confidenziale che l’imprenditore (OMISSIS) aveva subito, in data 17 marzo 2015, una richiesta estorsiva per i lavori che stava realizzando nel comune di (OMISSIS). La stessa riferiva che il (OMISSIS) era previsto l’incontro tra la vittima ed i suoi aguzzini, finalizzato alla corresponsione della somma di denaro presso un bar di (OMISSIS). Predisposto un servizio di osservazione, gli operanti, intorno alle ore 11,20, notavano giungere sul posto (OMISSIS) che, avvicinatosi al (OMISSIS), ne riceveva qualcosa riponendola immediatamente in tasca; sottoposto a controllo, veniva rinvenuta la somma di euro 500,00 che la persona offesa riferiva di aver consegnato al (OMISSIS) come prezzo dell’estorsione.
1.2. Il (OMISSIS), titolare di una ditta edile impegnata in lavori di ristrutturazione presso un cantiere di (OMISSIS), riferiva agli inquirenti che il giorno prima, aveva ricevuto la “visita” di due uomini, uno dei quali, testualmente gli diceva “salve, siamo gli amici, ci dovete dare mille euro per i lavori che state eseguendo” e, alle sue rimostranze, i due aggiungevano “Il prezzo lo facciamo noi, altrimenti se non paghi, non ti facciamo lavorare e ti chiudiamo il cantiere”; nel tentativo di prendere tempo, il (OMISSIS) stabiliva un incontro per il giorno successivo presso un bar per pagare la tangente. La mattina del (OMISSIS), il (OMISSIS) aveva un successivo incontro con altri due soggetti, diversi da quelli del giorno precedente, ai quali riferiva di avere solo 300,00 euro, ma i due rifiutavano la somma in modo arrogante e sarcastico; verso le ore 11,20, dirigendosi verso il bar concordato, il (OMISSIS) vedeva sopraggiungere uno dei due uomini che aveva incontrato la mattina, al quale consegnava la somma di euro 500,00.
2. Avverso detta ordinanza, (OMISSIS), tramite difensore, proponeva ricorso ex articolo 309 cod. proc. pen.; il Tribunale di Napoli, con ordinanza in data 21.04.2015, rigettava il gravame e confermava il provvedimento impugnato.
3. Nei confronti di tale ultima ordinanza, nell’interesse di (OMISSIS), viene proposto ricorso per cassazione, per i seguenti motivi:
-erronea applicazione della Legge n. 203 del 1991, articolo 7, mancanza e/o manifesta illogicita’ della motivazione in punto di efficienza causale del metodo mafioso (primo motivo);
-violazione del principio di adeguatezza e motivazione insufficiente ed illogica nell’applicazione della massima misura cautelare (secondo motivo).
3.1. In relazione al primo motivo, osserva il ricorrente come il Tribunale abbia omesso ogni valutazione circa l’efficienza causale del metodo mafioso inscenato dagli agenti che non aveva sortito alcun effetto intimidatorio ne’ l’evocazione, peraltro vaga e generica, di un non indicato sodalizio criminoso poteva astrattamente sortire. In realta’, proprio il fatto che la parte offesa si sia immediatamente rivolta ai carabinieri, costituiva elemento che andava particolarmente valorizzato in sede di motivazione: pur volendo ammettere che il connotato intimidatorio, proprio dell’aggravante in parola, non possa essere valutato con giudizio ex post o in funzione del comportamento successivo della vittima, bensi’ nella sua obiettivita’, la pronta e celere denuncia della vittima doveva essere oggetto di specifica valutazione, al fine di stabilire se tale determinazione fosse ascrivibile ad insensibilita’ propria del (OMISSIS) rispetto all’intimidazione di segno mafioso o, invece, all’incapacita’ di siffatte modalita’ di evocare, con efficienza causale, un sodalizio e di incutere il timore aggiuntivo di una ritorsione mafiosa.
3.2. In relazione al secondo motivo, evidenzia il ricorrente come in punto di inadeguatezza di ogni altra misura, il Tribunale evoca elementi di fatto che non si pongono in quel rapporto di consequenzialita’ con l’asserita inidoneita’ degli arresti domiciliari. Si censura, in particolare, come il Tribunale abbia preteso di dedurre la spiccata pericolosita’ del ricorrente dal ruolo ricoperto nella vicenda estorsiva, senza considerare che il (OMISSIS) si sarebbe comunque limitato a ritirare il provento del reato, frutto di minaccia posta in essere da altri, finendo cosi’ con il valutare indicativa di minore pericolosita’ l’attivita’ minatoria, in qualche modo solo preparatoria, rispetto a quella conclusiva che si sostanzia nel mero ritiro del provento del reato. Illogica e’ anche la valutazione, del tutto presuntiva, della prevedibilita’ di una violazione da parte del (OMISSIS) degli obblighi connessi agli arresti domiciliari per commettere altri reati della stessa specie.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ manifestamente infondato e, come tale, inammissibile.
2. E’ anzitutto necessario chiarire, sia pur in sintesi, i limiti di sindacabilita’ da parte di questa Corte Suprema dei provvedimenti adottati dal giudice del riesame sulla liberta’ personale.
2.1. Secondo l’orientamento di questa Corte, che il Collegio condivide e reputa attuale anche all’esito delle modifiche normative che hanno interessato l’articolo 606 cod. proc. pen. (cui l’articolo 311 cod. proc. pen.implicitamente rinvia), in tema di misure cautelari personali, allorche’ sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte Suprema spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimita’ e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravita del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie. Si e’ anche precisato che la richiesta di riesame – mezzo di impugnazione, sia pure atipico – ha la specifica funzione di sottoporre a controllo la validita’ dell’ordinanza cautelare con riguardo ai requisiti formali indicati nell’articolo 292 cod. proc. pen., ed ai presupposti ai quali e’ subordinata la legittimita’ del provvedimento coercitivo: cio’ premesso, si e’ evidenziato che la motivazione della decisione del Tribunale del riesame, dal punto di vista strutturale, deve essere conformata al modello delineato dal citato articolo, ispirato al modulo di cui all’articolo 546 cod. proc. pen., con gli adattamenti resi necessari dal particolare contenuto della pronuncia cautelare, non fondata su prove, ma su indizi e tendente all’accertamento non della responsabilita’, bensi’ di una qualificata probabilita’ di colpevolezza (Sez. U, sent. n. 11 del 22/03/2000, Audino, Rv. 215828; conforme, dopo la novella dell’articolo 606 cod. proc. pen., Sez. 4, sent. n. 22500 del 03/05/2007, Terranova, Rv. 237012).
2.2. Si e’ successivamente osservato, sempre in tema di impugnazione delle misure cautelari personali, che il ricorso per cassazione e’ ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge, ovvero la manifesta illogicita’ della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica ed i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. 5, sent. n. 46124 del 08/10/2008, Pagliaro, Rv. 241997; Sez. 6, sent. n. 11194 del 08/03/2012, Lupo, Rv. 252178).
2.3. L’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza (articolo 273 cod. proc. pen.) e delle esigenze cautelari (articolo 274 cod. proc. pen.) e’, quindi, rilevabile in cassazione soltanto se si traduce nella violazione di specifiche norme di legge o nella manifesta illogicita’ della motivazione secondo la logica ed i principi di diritto, rimanendo “all’interno” del provvedimento impugnato, dovendosi in sede di legittimita’ accertare unicamente se gli elementi di fatto siano corrispondenti alla previsione della norma incriminatrice e le statuizioni siano assistite da motivazione non manifestamente illogica.
3. Manifestamente infondato e’ il primo motivo di ricorso.
3.1. Come e’ noto, la Legge n. 203 del 1991, articolo 7 disciplina due distinte ipotesi, prevedendo la possibilita’ di applicare l’aggravante anche nei confronti di chi, pur non organicamente inserito in associazioni mafiose, agisca con metodi mafiosi o comunque dia un contributo al raggiungimento dei fini di un’associazione di tale tipo. Ed infatti, nel caso di specie, l’ordinanza impugnata ha applicato l’aggravante prescindendo da ogni accertamento circa l’appartenenza del (OMISSIS) ad una associazione mafiosa.
Tuttavia, a differenza dell’ipotesi in cui il reato sia commesso al fine specifico di agevolare l’attivita’ delle associazioni mafiose, quando si tratti di soggetti non inseriti in tali organizzazioni, e’ necessario che il ricorso al metodo mafioso sia accertato con maggiore rigore, costituendo l’unico presupposto che giustifica l’aggravamento sanzionatorio, del tutto svincolato dalla esistenza di una associazione.
3.2. L’accertamento deve essere condotto in maniera oggettiva, tenendo conto del contesto in cui si svolge l’azione, ma soprattutto analizzando il tipo di comportamento posto in essere, alla luce della definizione fornita dall’articolo416 bis cod. pen., espressamente richiamato dal citato articolo 7: deve trattarsi, cioe’, di un comportamento idoneo ad esercitare una particolare coartazione psicologica sulle persone, con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale della specie considerata.
La giurisprudenza riconosce che in tali casi non e’ necessario che l’associazione mafiosa, costituente il logico presupposto della condotta dell’agente, sia in concreto precisamente delineata come entita’ ontologicamente presente nella realta’, potendo anche essere semplicemente presumibile, nel senso che la condotta stessa, per le modalita’ attraverso cui si manifesta, sia gia’ di per se’ tale da evocare l’esistenza di consorterie amplificatrici della valenza criminale del reato commesso (cfr., Sez. 1, sent. n. 1327 del 18/03/1994, Torcasio).
3.3. Fermo quanto precede, ampiamente condivisibile e’ la valutazione operata dal Tribunale in merito alla riconosciuta ricorrenza dell’aggravante in parola tenuto conto, da un lato, del riferimento “agli amici”, espressione allusiva evocante l’esistenza di un’organizzazione, necessariamente malavitosa, in grado di controllare le attivita’ economico-imprenditoriali che si svolgono sul territorio e, dall’altro, della realizzazione di una condotta, sostanziatasi con l’intimazione di un pagamento immediato con la minaccia di chiudere il cantiere, le cui modalita’, ampiamente sperimentate, sono notoriamente utilizzate in contesti criminali di spessore.
A questo va aggiunto – ricorda il Tribunale – il comportamento degli estorsori a fronte dell’offerta di 300,00 euro da parte della vittima: gli stessi “rispondono con spavalderia dicendo che quella somma si dava ai figli per il fine settimana cosi’ manifestando una sicurezza e tracotanza propria di chi su quel territorio ha il completo controllo”.
3.4. Il comportamento della vittima di rivolgersi immediatamente alle forze dell’ordine che, a detta del ricorrente, rivelerebbe il fallimento del metodo d’intimidazione non puo’ avere la lettura che si propina: da un lato perche’, proprio quel comportamento di tutela, puo’ rivelare, al contrario, la presa di consapevolezza del serio ed oggettivo pericolo a cui si esposti e, dall’altro, perche’ i caratteri mafiosi del metodo utilizzato per la commissione del reato non possono essere desunti dalla mera reazione della vittima (che potra’ essere indotta a comportamenti estremamente vari che andranno dalla mera assoluta arrendevolezza al tentativo di apprestare strategie di difesa e, in taluni casi, alla vera e propria resistenza attiva) alla condotta tenuta dall’indagato, ma vanno valutati, con giudizio ex ante, esclusivamente con riferimento alla loro idoneita’ ad esercitare una particolare coartazione psicologica sulle persone, con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale evocata (cfr., Sez. 6, sent. n. 21342 del 02/04/2007, dep. 31/05/2007, Mauro, Rv. 236628).
4. Manifestamente infondato e’ il secondo motivo di ricorso. Riconosce il Tribunale, con motivazione del tutto congrua e priva dei lamentati vizi logico-giuridici e, come tale, insindacabile nel presente giudizio di legittimita’, come permangano esigenze cautelari legate al piu’ che concreto pericolo di recidiva. Scrive il Tribunale: “la personalita’ dell’indagato, desumibile dalla condotta descritta, la pervicacia nell’agire, la assoluta spregiudicatezza dimostrata nel ritirare il provento dell’estorsione, dimostrano l’inserimento di (OMISSIS) negli ambienti criminali della zona, tanto da agire in perfetta sintonia con altri personaggi, allo stato, non identificati…;… la personalita’ del ricorrente, ad onta della sostanziale incensuratezza… si presenta connotata da spiccata inclinazione a delinquere atteso che non disdegna a ricevere facili guadagni commettendo odiosi reati. Da quanto premesso sul quadro cautelare, misura applicabile e’ la custodia in carcere, unico presidio che permette di rescindere ogni contatto deviante, preservando la collettivita’ dal ripetersi di episodi di cosi’ grande allarme sociale. Ne’ a diverse conclusioni si giunge dopo la nota sentenza della Corte costituzionale n. 57/2013: invero (OMISSIS), per tutto quanto sopra evidenziato, non offre, all’evidenza, alcuna garanzia in ordine al rispetto di misure meno gravose che, in ogni caso, non garantirebbero il necessario allontanamento dal territorio che ha funto da scenario dei fatti…”.
5. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’articolo 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonche’ al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in euro 1.000,00.
Si provveda a norma dell’articolo 94 disp. articoli c.p.p., comma 1 ter.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 alla cassa delle ammende.
Si provveda a norma dell’articolo 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
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