Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 10 marzo 2016, n. 4726
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BUCCIANTE Ettore – Presidente
Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere
Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere
Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere
Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 17358/2010 R.G. proposto da:
AMMINISTRATORE del CONDOMINIO
(OMISSIS) – c.f. (OMISSIS) – in persona di (OMISSIS) (cf. (OMISSIS)), (OMISSIS) c.f.
(OMISSIS) – (OMISSIS) – c.f. (OMISSIS) – elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS) che congiuntamente e disgiuntamente all’avvocato (OMISSIS) li rappresenta e difende in virtu’ di procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
(OMISSIS) – c.f. (OMISSIS) – elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS) che congiuntamente e disgiuntamente all’avvocato (OMISSIS) la rappresenta e difende in virtu’ di procura speciale a margine del controricorso;
– controricorrente –
Avverso la sentenza n. 818 dei 31.3/7.5.2009 della corte d’appello di Venezia;
Udita la relazione della causa svolta all’udienza pubblica del 15 gennaio 2016 dal consigliere dott. ABETE Luigi;
Udito l’avvocato (OMISSIS), per delega dell’avvocato Gabriele Pafundi, per i ricorrenti;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dott. DE RENZIS Maria, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al pretore di Belluno, sezione distaccata di Pieve di Cadore, depositato in data 11.11.1994 (OMISSIS), in proprio e quale procuratrice di (OMISSIS) ed (OMISSIS), comproprietarie, in quanto eredi di (OMISSIS), di nove appartamenti ricompresi nel condominio denominato (OMISSIS) ubicato alla via (OMISSIS), esponeva che l’amministratore del condominio, senza che fosse stata previamente assunta alcuna delibera assembleare, aveva chiesto ed ottenuto dal sindaco di Cortina d’Ampezzo autorizzazione ad eseguire – a condizione che non fossero alterati i volumi e le superfici dello stabile condominiale – i lavori per la realizzazione di un impianto di ascensore esterno; che senza avviso ad alcuno dei condomini aveva avuto inizio la costruzione della “gabbia” dell’ascensore;
che nondimeno il volume destinato a costituire la “gabbia” dell’ascensore, avrebbe senz’altro pregiudicato la visuale da alcune delle finestre di taluni degli appartamenti di cui era comproprietaria.
Chiedeva all’adito giudice di ordinare all’amministratore del condominio la sospensione delle opere.
Resisteva il condominio in persona dell’amministratore (OMISSIS).
Con ordinanza dei 12/14.12.1994 il pretore disponeva l’immediata sospensione delle opere.
Con atto notificato il 18.1.1995 (OMISSIS), in proprio e nella precisata qualita’, dava inizio al giudizio di merito, citando a comparire (OMISSIS), in veste di amministratore, nonche’ i condomini personalmente.
Chiedeva che fosse ordinata la demolizione della “gabbia” dell’ascensore e che l’amministratore e i singoli condomini fossero condannati a risarcirle i danni sofferti in dipendenza dell’esecuzione e della permanenza dell’opera illegittimamente eseguita; il tutto con il favore delle spese.
Si costituiva l’amministratore del condominio; instava per il rigetto dell’avversa domanda. Disposta ed espletata c.t.u., all’udienza del 10.5.2001 si costituivano i condomini (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS).
Con sentenza n. 282/2003 il tribunale di Belluno – divenuto nelle more competente – accoglieva la domanda e condannava in solido i convenuti alla demolizione del manufatto destinato a costituire la “gabbia” dell’ascensore nonche’ a risarcire il danno cagionato all’attrice, quantificato in euro 13.346,32 oltre interessi; inoltre condannava in solido i convenuti a rimborsare a controparte le spese di lite e di c.t.u..
Interponevano appello (OMISSIS), in qualita’ di amministratore del condominio, (OMISSIS) e (OMISSIS).
Resisteva (OMISSIS), in proprio e quale procuratrice di (OMISSIS) ed (OMISSIS); esperiva altresi’ appello incidentale volto a conseguire la quantificazione del danno in maggior misura.
Con sentenza n. 818 dei 31.3/7.5.2009 la corte d’appello di Venezia rigettava il gravame principale, rigettava il gravame incidentale e condannava in solido gli appellanti a rifondere a controparte le spese del grado.
Evidenziava la corte di merito, con riferimento al primo motivo di appello – con cui si era censurata la statuizione di primo grado nella parte in cui non aveva “dichiarato l’inefficacia del provvedimento cautelare per non essere stata la causa ritualmente riassunta nei termini di legge” (cosi’ sentenza d’appello, pag. 6) – che l’atto introduttivo del giudizio di merito era “stato consegnato per la notifica all’ufficiale giudiziario l’11.1.1995, prima dello scadere del trentesimo giorno decorrente dalla comunicazione dell’ordinanza cautelare (…), di talche’, in applicazione del principio affermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 477/2004, secondo cui la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, il giudizio di merito e’ stato tempestivamente proposto” (cosi’ sentenza d’appello, pag. 6).
Evidenziava la corte di merito, con riferimento al secondo motivo di appello – con cui si era censurata la statuizione di primo grado nella parte in cui non aveva “tenuto conto del fatto che la dante causa dell’appellata, (OMISSIS), aveva prestato il suo consenso alla realizzazione dell’ascensore aderendo alle proposte avanzate in sede assembleare, a condizione di non essere tenuta a pagare le spese” (cosi’ sentenza d’appello, pag. 7) – che le delibere condominiali assunte tra il 1989 ed il 1991 avevano “avuto ad oggetto, tra l’altro, la realizzazione dell’ascensore nel vano scala e cio’ si evince non solo dalla planimetria redatta dall’ing. (OMISSIS) su incarico dell’assemblea del 7.6.1991 ma anche dalle osservazioni rese dai condomini in assemblea e dall’ammissione degli appellanti stessi effettuata con la comparsa di costituzione nel (…) primo grado laddove (…) davano atto del mancato raggiungimento dell’accordo sulla realizzazione dell’ascensore nel vano scale” (cosi’ sentenza d’appello, pag. 7); che pertanto non si poteva ritenere che (OMISSIS) avesse “mai prestato il suo consenso alla realizzazione dell’ascensore esterno, opera affatto diversa da quella di cui i condomini avevano discusso nelle predette assemblee” (cosi’ sentenza d’appello, pag. 7).
Evidenziava la corte di merito, con riferimento al terzo motivo di appello – con cui si era censurata la statuizione di primo grado per ultrapetizione, nella parte in cui aveva ritenuto illegittima la delibera assembleare del 2.8.1994, benche’ essa non fosse mai stata impugnata da parte della (OMISSIS) – che la delibera anzidetta e la successiva del 5.1.1995, nella parte in cui era stata decisa la costruzione dell’ascensore esterno, pur con le maggioranze prescritte dalla Legge n. 13 del 1989, dovevano ritenersi affette “da nullita’ poiche’ e’ stato accertato dal C.T.U. che la gabbia in muratura lede il diritto di proprieta’ esclusiva dell’appellata ostacolando la visuale e ponendosi a distanza non regolamentare dalle finestre” (cosi’ sentenza d’appello, pag. 8); che invero la Legge n. 13 del 1989, articolo 2, fa in ogni caso salvo il disposto dell’articolo 1120 codice civile, comma 2, che vieta, tra l’altro, le innovazioni che rendono talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso e al godimento anche di un solo condomino, sicche’ “a maggior ragione sono nulle le delibere che, ancorche’ adottate a maggioranza al fine indicato, siano lesive dei diritti di altro condomino sulla porzione di sua proprieta’ esclusiva” (cosi’ sentenza d’appello, pag. 8), con l’ulteriore conseguenza che, “trattandosi di nullita’, non necessita l’impugnazione della delibera e si impone il rilievo d’ufficio” (cosi’ sentenza d’appello, pag. 9).
Evidenziava la corte di merito, con riferimento al quarto motivo di appello – motivo con cui si era censurata la statuizione di primo grado nella parte in cui non aveva “considerato che l’opera costituisce una modificazione ex articolo 1102 codice civile, e non gia’ una innovazione ex articolo 1120 codice civile, di talche’ non e’ necessaria alcuna autorizzazione assembleare, anche in considerazione che l’onere di spesa non era stato posto a carico dell’appellata” (cosi’ sentenza d’appello, pag. 9) – che nel caso di specie “non solo l’innovazione ha comportato l’occupazione di parte del suolo comune, costituito dalla base della gabbia, ma ha anche alterato il decoro architettonico dell’edificio in quanto costituisce una costruzione in appoggio alla facciata del condominio ed ha conculcato il diritto della condomina dissenziente limitando la visuale che godeva dalle finestre degli appartamenti di sua proprieta’” (cosi’ sentenza d’appello, pag. 10), cosicche’ non poteva trovare applicazione la disposizione di cui all’articolo 1102 codice civile.
Esplicitava la corte di merito, con riferimento al quinto motivo di appello – motivo con cui si era censurata la statuizione di primo grado nella parte in cui aveva “condannato i convenuti al risarcimento del danno anche in via equitativa senza che sia stata articolata una specifica domanda sul punto” (cosi’ sentenza d’appello, pag. 10) – che “l’appellata con l’atto introduttivo del giudizio ha chiesto la rifusione di ogni danno conseguente all’illecito perpetrato” (cosi’ sentenza d’appello, pag. 10).
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso (OMISSIS), in qualita’ di amministratore del condominio, (OMISSIS) e (OMISSIS); ne hanno chiesto sulla scorta di cinque motivi la cassazione con ogni conseguente provvedimento in ordine alle spese di lite.
(OMISSIS) ha depositato controricorso; ha chiesto dichiararsi inammissibile ovvero rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese del grado di legittimita’.
I ricorrenti hanno depositato memoria ex articolo 378 codice procedura civile.
La controricorrente del pari ha depositato memoria ex articolo 378 codice procedura civile.
Con ordinanza interlocutoria dei 12.5/30.6.2015 e’ stato accordato termine di novanta giorni ai fini della produzione della deliberazione dell’assemblea condominiale recante – pur in forma di ratifica – autorizzazione all’amministratore a proporre il ricorso esperito a questa Corte.
E’ stata allegata copia del verbale dell’assemblea condominiale del 5.1.1995 – la cui conformita’ alle pagine 34 e 35 del libro dei verbali del condominio risulta certificata in data 12.10.2015 dal notaio (OMISSIS) di (OMISSIS) – ove si “conferma il mandato all’amministratore per tutti i passi necessari, anche in sede giuridica, per la realizzazione dell’opera incaricandolo anche di attivare le iniziative, pure giudiziali, che riterra’ opportune per il risarcimento dei danni derivanti dalla stasi dei lavori”.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo i ricorrenti deducono “violazione di legge: violazione e falsa applicazione degli articoli 669 octies e 669 novies codice procedura civile. Carenza di motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio” (cosi’ ricorso, pag. 7).
Adducono che, contrariamente a quanto affermato dalla corte di merito con riferimento al primo motivo di appello, nella fattispecie non vi e’ margine per reputare operante la pronuncia n. 477/2004 della Corte costituzionale “sul perfezionamento della notifica con la consegna dell’atto da notificare entro il termine di scadenza” (cosi’ ricorso, pag. 8); che difatti il termine previsto ai fini della notifica dell’atto introduttivo del giudizio di merito, all’esito dell’accoglimento dell’istanza cautelare, “e’ un termine decadenziale fissato chiaramente anche nell’interesse della parte che ha subito la misura cautelare” (cosi’ ricorso, pag. 8); che “nella specie, la notifica della citazione e’ giunta il 18 gennaio 1998, oltre il termine di trenta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza cautelare” (cosi’ ricorso, pag. 9); che “la motivazione della sentenza impugnata (…) peraltro assume un carattere meramente assertivo” (cosi’ ricorso, pag. 9).
Il motivo non merita seguito.
E’ fuor di dubbio che la sentenza di prime cure n. 282/2003 del tribunale di Belluno, con cui e’ stata accolta la domanda esperita ante causam – in via cautelare – da (OMISSIS), ha sostituito integralmente la statuizione interinale di cui all’ordinanza in data 12/14.12.1994 del pretore di Belluno.
In tal guisa i ricorrenti non hanno interesse alcuno ad esperire lo spiegato motivo di censura (questa Corte spiega che il principio contenuto nell’articolo 100 codice procedura civile, secondo il quale per proporre una domanda o per resistere ad essa e’ necessario avervi interesse, si applica anche al giudizio di impugnazione, in cui l’interesse ad impugnare una data sentenza o un capo di essa va desunto dall’utilita’ giuridica che dall’eventuale accoglimento del gravame possa derivare alla parte che lo propone e non puo’ consistere nella sola correzione della motivazione della sentenza impugnata ovvero di una sua parte; ne consegue che deve considerarsi inammissibile per difetto di interesse l’impugnazione proposta, ove non sussista la possibilita’, per la parte che l’ha fatta, di conseguire un risultato utile e giuridicamente apprezzabile: cfr. Cass. 27.1.2012, n. 1236; Cass. 24.11.1983, n. 7021).
Cio’, beninteso, a prescindere dall’ulteriore rilievo per cui la sentenza n. 818 dei 31.3/7.5.2009 della corte d’appello di Venezia ha, a sua volta, sostituito la sentenza n. 282/2003 del tribunale di Belluno (cfr. Cass. 7.6.2002, n. 8265, secondo cui, in sede di ricorso per Cassazione avverso la sentenza resa in grado di appello, la parte soccombente puo’ denunciare esclusivamente i vizi (a suo avviso) presenti nella sentenza di secondo grado, atteso che questa assorbe e sostituisce, anche se confermativa di essa, quella resa in primo grado).
In ogni caso qua questo Giudice del diritto spiega che, in tema di notificazioni di atti giudiziari ed alla stregua della sentenza della Corte costituzionale n. 447/2002 – che ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale del combinato disposto dell’articolo 149 codice procedura civile, e Legge 20 novembre 1982, n. 890, articolo 4, comma 3, nella parte in cui prevede che la notificazione a mezzo posta si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anziche’ a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario – opera nell’ordinamento un principio di ordine generale secondo il quale, qualunque sia la modalita’ di trasmissione od esecuzione, la notificazione di un atto processuale, almeno quando debba effettuarsi entro un termine prestabilito, si intende perfezionata, dal lato del richiedente, al momento dell’affidamento dell’atto all’ufficiale giudiziario che funge da tramite necessario del notificante nel relativo procedimento vincolato (cfr. Cass. 11.1.2007, n. 390).
Con il secondo motivo i ricorrenti deducono “violazione di legge: violazione e falsa applicazione degli articoli 1135, 1136 e 1362 codice civile. Carenza di motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio” (cosi’ ricorso, pag. 10).
Adducono, con riferimento al disposto rigetto del secondo motivo di appello, che la corte distrettuale ha omesso di considerare che nel marzo del 1989 (OMISSIS) aveva indirizzato una missiva all’amministratore del condominio con cui, in previsione dell’assemblea indetta ai fini della deliberazione da assumere in ordine all’installazione dell’ascensore, aveva rappresentato che alcun vantaggio le derivava dal nuovo impianto, sicche’ aveva chiesto di essere esonerata dalle spese di esecuzione dell’opera; che, del resto, (OMISSIS), per il tramite del condomino (OMISSIS), all’uopo delegato, aveva votato a favore della delibera in data 6.7.1990 con cui l’assemblea aveva acconsentito i lavori; che, inoltre, la medesima (OMISSIS) era deceduta in data 28.6.1994, siccome pur la corte distrettuale aveva rilevato, sicche’ non aveva preso parte alle assemblee condominiali del 2.8.1994 e del 5.11.1995 nel cui corso era stato approvato il progetto definitivo di realizzazione del nuovo impianto; che, dunque, (OMISSIS) aveva “approvato la realizzazione tout court dell’ascensore” (cosi’ ricorso, pag. 12); che, piu’ esattamente, “nulla consente di ritenere (…) che nelle parole della signora (OMISSIS) fosse ravvisabile un limite implicito del consenso ad un progetto piuttosto che ad un altro” (cosi’ ricorso, pag. 12).
Il motivo e’ immeritevole di seguito.
Si rappresenta, previamente, che, in ossequio al canone di cosiddetta autosufficienza del ricorso per cassazione, quale positivamente sancito all’articolo 366 codice procedura civile, comma 1, n. 6), ben avrebbero dovuto i ricorrenti, onde consentire a questa Corte il compiuto riscontro, il compiuto vaglio dei propri assunti, riprodurre piu’ o meno testualmente nel corpo del ricorso il testo della delibera dell’assemblea condominiale del 6.7.1990 di cui hanno denunciato l’incongrua valutazione (cfr. Cass. sez. lav. 4.3.2014, n. 4980, secondo cui, qualora, con il ricorso per cassazione, venga dedotto il vizio di motivazione della sentenza impugnata per l’asserito omesso esame di un documento, e’ necessario, al fine di consentire al giudice di legittimita’ il controllo della decisivita’ del documento non valutato (o insufficientemente valutato), che il ricorrente precisi – mediante integrale trascrizione del contenuto dell’atto nel ricorso – la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte di cassazione, alla quale e’ precluso l’esame diretto degli atti di causa, di delibare la decisivita’ della risultanza stessa).
Si rappresenta comunque che la censura che il motivo in disamina veicola, si risolve propriamente in una quaestio ermeneutica (in linea, d’altronde, con le prefigurazioni dei ricorrenti: “la conclusione cui e’ pervenuta sul punto la Corte veneta (…) appare contraria ai criteri ermeneutici di cui all’articolo 1362 codice civile, e seguenti”: cosi’ ricorso, pag. 12).
In tali termini questa Corte non puo’ che reiterare i pregressi suoi insegnamenti.
In primo luogo, l’insegnamento secondo cui l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attivita’ riservata al giudice di merito ed e’ censurabile in sede di legittimita’ soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica, incongrua o deficitaria, tale cioe’ da non consentire il controllo del procedimento seguito per giungere alla decisione (cfr. Cass. 22.2.2007, n. 4178; cfr. Cass. 2.5.2006, n. 10131).
In secondo luogo, l’insegnamento secondo cui ne’ la censura ex n. 3) ne’ la censura ex n. 5) dell’articolo 360 codice procedura civile, comma 1, possono risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione; d’altronde, per sottrarsi al sindacato di legittimita’, sotto entrambi i cennati profili, quella data dal giudice al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicche’, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o piu’ interpretazioni (plausibili), non e’ consentito – alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito – dolersi in sede di legittimita’ del fatto che sia stata privilegiata l’altra (cfr. Cass. 22.2.2007, n. 4178; cfr. Cass. 2.5.2006, n. 10131).
Nel segno delle enunciate indicazioni nomofilattiche e’, per un verso, da condividere appieno il rilievo della controricorrente secondo cui “i ricorrenti di fatto si limitano a proporre la loro diversa interpretazione (…) della volonta’ della signora (OMISSIS)” (cosi’ controricorso, pag. 7). E’, per altro verso, da ritenere che l’interpretazione patrocinata dalla corte distrettuale e’ in toto inappuntabile, giacche’, da un canto, non si prospetta in spregio ad alcun criterio ermeneutico legale, giacche’, dall’altro, risulta sorretta da motivazione esaustiva, congrua e logica.
Del resto per nulla puo’ essere recepita la prospettazione dei ricorrenti secondo cui per l’originaria proprietaria, (OMISSIS), la dislocazione dell’ascensore in un dato punto del fabbricato condominiale anziche’ in un altro non facesse alcuna differenza (cfr. ricorso, pag. 12).
Con il terzo motivo i ricorrenti deducono “violazione di legge: violazione e falsa applicazione degli articoli 99 e 112 codice procedura civile, sotto il profilo dell’ultrapetizione in relazione alla Legge 9 gennaio 1989, n. 13, articolo 2, articoli 1120 e 1136 codice civile. Carenza di motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio” (cosi’ ricorso, pag. 14).
Adducono, con riferimento al disposto rigetto del terzo motivo di appello, che “in primo luogo non e’ condivisibile l’opinione della Corte d’Appello che gli interventi in questione siano assoggettabili all’articolo 1120 codice civile” (cosi’ ricorso, pag. 17); “in secondo luogo (…) che, se per ottenere una pronuncia giudiziale di invalidita’ di una delibera condominiale e’ prevista dall’articolo 1137 codice civile, l’impugnazione con ricorso nel termine perentorio di trenta giorni dalla riunione assembleare, non e’ possibile ottenere tale effetto con altro strumento giudiziario” (cosi’ ricorso, pag. 17); in terzo luogo, che “le condizioni per esercitare il potere officioso di rilevazione di una nullita’ non ricorrono nel caso di specie” (cosi’ ricorso, pag. 17); che “il Giudice d’appello non poteva e non doveva (…) sollevare la questione di nullita’ in assenza di una qualsiasi domanda volta a contestare, anche con diversa causa petendi, la validita’ o l’efficacia della delibera assembleare” (cosi’ ricorso, pag. 18); che “in altre parole il Giudice (…) ha posto a fondamento della pronuncia un fatto giuridico diverso da quello dedotto nell’atto e dibattuto in giudizio” (cosi’ ricorso, pag. 19).
Il motivo e’ destituito di fondamento.
Occorre tener conto – siccome i medesimi ricorrenti riferiscono – che a fronte della prospettazione di (OMISSIS), secondo cui “i lavori avviati per la realizzazione dell’ascensore non fossero stati previamente autorizzati dall’assemblea di condominio” (cosi’ ricorso, pag. 14), i ricorrenti in questa sede ebbero a replicare che “nell’assemblea condominiale del 2 agosto 1994 era stato debitamente e regolarmente approvato l’intervento” (cosi’ ricorso, pag. 14) e che “parte attrice non avrebbe piu’ potuto sottrarsi al contenuto decisorio della delibera del 2 agosto 1994 perche’ non aveva mai provveduto ad impugnarla ne’ poteva piu’ farlo essendo decorso ampiamente il termine di legge” (cosi’ ricorso, pag. 14).
Su tale scorta si ribadisce che la corte veneziana ha reputato nulla la delibera assembleare del 2.8.1994, “poiche’ e’ stato accertato dal C.T.U. che la gabbia in muratura lede il diritto di proprieta’ esclusiva dell’appellata” (cosi’ sentenza d’appello, pag. 8).
Ebbene, che la corte di merito abbia in dipendenza degli esiti della c.t.u. correttamente opinato per la nullita’ della delibera, rinviene riscontro nel consolidato insegnamento di questa Corte di legittimita’.
Ovvero, per un verso, nell’insegnamento alla cui stregua, in tema di condominio di edifici, i poteri dell’assemblea, i quali sono fissati tassativamente dal codice (articolo 1135 codice civile), non possono invadere la sfera di proprieta’ dei singoli condomini, sia in ordine alle cose comuni che a quelle esclusive, tranne che una siffatta invasione sia stata da loro specificamente accettata o nei singoli atti di acquisto o mediante approvazione del regolamento di condominio che la preveda (cfr. Cass. 27.8.1991, n. 9157, ove si soggiunge, che, pertanto, non e’ consentito alla maggioranza dei condomini deliberare una diversa collocazione delle tubazioni comuni dell’impianto di riscaldamento in un locale di proprieta’ esclusiva, con pregiudizio di tale proprieta’, senza il consenso del proprietario del locale stesso; cfr., altresi’, Cass. 14.12.2007, n. 26468, secondo cui, in tema di condominio, i poteri dell’assemblea condominiale possono invadere la sfera di proprieta’ dei singoli condomini, sia in ordine alle cose comuni sia a quelle esclusive, soltanto quando una siffatta invasione sia stata da loro specificamente accettata o in riferimento ai singoli atti o mediante approvazione del regolamento che la preveda, in quanto l’autonomia negoziale consente alle parti di stipulare o di accettare contrattualmente convenzioni e regole pregresse che, nell’interesse comune, pongano limitazioni ai diritti dei condomini).
Ovvero, per altro verso, nell’insegnamento alla cui stregua il rimedio dell’impugnazione offerto dall’articolo 1137 codice civile nei confronti delle deliberazioni assembleari condominiali – e la disciplina relativa, anche in ordine alla decadenza – riguarda unicamente le deliberazioni annullabili e non quelle nulle (cfr. Cass. 10.6.1981, n. 3775, ove si soggiunge che, pertanto, il provvedimento con cui l’amministratore del condominio, esorbitando dai suoi poteri, leda i diritti dei singoli condomini sulle cose comuni, in quanto affetto da radicale nullita’, e’ impugnabile davanti all’autorita’ giudiziaria, con azione non soggetta ai termini di decadenza di cui all’articolo 1133 codice civile, e articolo 1137 codice civile, comma 3).
Si tenga conto, d’altro canto, che il rilievo ex officio di una nullita’ negoziale – sotto qualsiasi profilo ed anche ove sia configurabile una nullita’ speciale o “di protezione” – deve ritenersi consentito, sempreche’ la pretesa azionata non venga rigettata in base ad una individuata “ragione piu’ liquida”, in tutte le ipotesi di impugnativa negoziale; ed, inoltre, che nel giudizio di appello ed in quello di cassazione, il giudice, in caso di mancata rilevazione officiosa, in primo grado, di una nullita’ contrattuale, ha sempre facolta’ di procedere ad un siffatto rilievo (cfr. Cass. sez. un. 12.12.2014, n. 26242; si veda anche Cass. 15.3.1986, n. 1768, secondo cui il potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullita’ di un negozio giuridico non comporta il suo dovere di indagare circa tutte le possibili cause di nullita’ del negozio di cui si discuta nel processo, ma opera soltanto nei limiti in cui la nullita’ gia’ emerga in modo certo dagli atti processuali).
Ovviamente, in relazione al profilo del rilievo ex officio della nullita’, si reitera che i ricorrenti in questa sede, originari resistenti, avevano specificamente dedotto a fondamento della legittimita’ dei lavori di costruzione la deliberazione assunta dall’assemblea condominiale in data 2.8.1994.
Con il quarto motivo i ricorrenti deducono “violazione di legge: violazione e falsa applicazione degli articoli 1102, 1120 e 1136 codice civile. Carenza di motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio” (cosi’ ricorso, pag. 20).
Adducono che, con riferimento al disposto rigetto del quarto motivo di appello, che l'”affermazione della corte contrasta con le risultanze della C.T.U., che ha riferito di una minima sporgenza, rispetto al preesistente stato di fatto, di ml. 0,60 lato nord e di ml. 1,65 lato sud ed ha escluso l’alterazione della destinazione della cosa comune, tenuto conto che la superficie della “gabbia” e’ un vero e proprio “vano tecnico” che occuperebbe una superficie minima sia sulla parete dell’edificio sia sul sottostante terreno” (cosi’ ricorso, pagg. 21 – 22); e cio’ tanto piu’ che innovazione non e’ propriamente l’intervento che miri a potenziare o a rendere piu’ comodo il godimento della cosa comune e ne lasci immutata la consistenza; che comunque la corte distrettuale si e’ discostata dalle risultanze della c.t.u. “senza tuttavia motivare le ragioni di questo discostamento” (cosi’ ricorso, pag. 22).
Adducono al contempo che “la linea di demarcazione tra l’applicazione dei principi di cui all’articolo 1120 codice civile e l’applicazione di quelli dettati dall’articolo 1102 codice civile, non risiede solo nella sostanza dell’intervento (…), ma anche nel differente regime di spesa” (cosi’ ricorso, pag. 23); che invero “l’articolo 1120 codice civile, contempla la fattispecie di innovazioni che (…) impone a tutti i partecipanti – e quindi anche ai dissenzienti – la ripartizione delle spese” (cosi’ ricorso, pagg. 23 – 24).
Il motivo non merita seguito.
Si evidenzia, preliminarmente, che, in ossequio al canone di “autosufficienza” del ricorso per cassazione, del pari avrebbero dovuto i ricorrenti, onde consentire il riscontro, il vaglio dei propri assunti, riprodurre piu’ o meno testualmente nel corpo del ricorso il testo della relazione di consulenza tecnica d’ufficio.
Si evidenzia in ogni caso che, ancorche’ i ricorrenti abbiano inteso connotarla come “minima” (cfr. ricorso, pag. 21), di certo non hanno disconosciuto la sporgenza ne’, evidentemente, avrebbero potuto disconoscerla.
Si ha conferma percio’ della “occupazione di parte del suolo comune, costituito dalla base della gabbia” affermata dalla corte territoriale (cfr. sentenza d’appello, pag. 10).
Sicche’ correttamente si e’ ritenuto che fosse stato travalicato il limite entro il quale unicamente ciascun partecipante alla comunione puo’, ai sensi dell’articolo 1102 codice civile, servirsi della cosa comune (cfr. Cass. 4.3.2015, n. 4372, secondo cui l’uso della cosa comune, in quanto sottoposto dall’articolo 1102 codice civile, ai limiti consistenti nel divieto di ciascun partecipante di alterare la destinazione della stessa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, non puo’ estendersi all’occupazione di una parte del bene tale da portare, nel concorso degli altri requisiti di legge, all’usucapione della porzione attratta nella propria esclusiva disponibilita’; cfr. Cass. 14.12.1994, n. 10699; Cass. 26.7.1983, n. 5132, secondo cui l’articolo 1102 codice civile, nel regolare i diritti dei partecipanti alla comunione, prescrive che in ogni caso non puo’ essere alterata la destinazione della cosa comune, sicche’ solo le modificazioni di questa, in quanto consentano il pari uso secondo il diritto di ciascuno, rientrano nella previsione legale, mentre e’ vietata ogni diversa attivita’ innovatrice).
Con il quinto motivo i ricorrenti deducono “violazione di legge: violazione e falsa applicazione degli articoli 99 e 112 codice procedura civile, sotto il profilo dell’ultrapetizione in relazione alla condanna al risarcimento del danno conseguente all’intervento contestato” (cosi’ ricorso, pag. 27).
Adducono che, con riferimento al quinto motivo di appello, che le limitazioni della visuale sofferte dall’appartamento della (OMISSIS) “sono a ben vedere trascurabili se solo si considera che sia la visuale sia l’insolazione erano comunque gia’ limitate sin dall’origine per la posizione dell’immobile nel contesto della collocazione urbanistica” (cosi’ ricorso, pag. 27); che il primo giudice “non si era adeguato alla stima operata dal C.T.U., ma ha liquidato oltre alla somma di lire 13.000.000 anche una ulteriore somma di 6.000,00 euro per la violazione dell’articolo 907 codice civile, senza che parte attrice lo avesse chiesto” (cosi’ ricorso, pag. 28); che “dunque nonostante parte attrice in primo grado avesse omesso di dare un’indicazione quantitativa del danno che riteneva di aver patito e pur non avendo chiesto la liquidazione del danno in via equitativa, il Tribunale si era pronunciato con cio’ violando nuovamente la regola di corrispondenza tra il chiesto e il pronunziato” (cosi’ ricorso, pag. 28); che “la Corte d’Appello ha avallato questa decisione cadendo nel medesimo errore del Giudice di prime cure” (cosi’ ricorso, pag. 28); che, non solo, ma “la Corte d’Appello non ha neppure indicato per quali motivi (…) si sia discostata dalle conclusioni della C.T.U., aggiungendo una pretesa risarcitoria che la consulenza tecnica non aveva determinato” (cosi’ ricorso, pag. 29).
Il motivo non merita seguito.
Si rileva, in primo luogo, che (OMISSIS) aveva formulato istanza di “ristoro di tutti i danni sofferti (…) per l’esecuzione e per il permanere (…) di questo illegittimo corpo di fabbrica” e di rifusione di “tutti i danni, d’ogni indole, (…) per l’opera abusiva” (cosi’ ricorso, pag. 28).
Non si giustifica pertanto la censura secondo cui sarebbe stata violata “la regola di corrispondenza tra il chiesto e il pronunziato” (cosi’ ricorso, pag. 28).
E parimenti non si giustifica la censura secondo cui controparte non aveva formulato richiesta di liquidazione del danno in via equitativa.
Invero, il giudice adito con azione di risarcimento di danni deve, anche d’ufficio, procedere alla liquidazione equitativa dei danni di cui riconosca l’esistenza, tanto nell’ipotesi in cui sia completamente mancata la prova del loro ammontare, a causa dell’impossibilita’ di fornire congrui ed idonei elementi a riguardo, quanto nell’ipotesi in cui, pur essendosi svolta attivita’ processuale per fornire tali elementi, per la notevole difficolta’ di una precisa quantificazione, non siano stati ritenuti di sicura efficacia (cfr. Cass. 27.3.1997, n. 2745; Cass. 19.3.1991, n. 2934).
Per altro verso, la liquidazione in via equitativa dell’ulteriore voce di danno correlata alla violazione delle distanze ex articolo 907 codice civile, si e’ giustificata giacche’ l’ausiliario evidentemente non ne aveva debitamente tenuto conto.
Comunque, sebbene la consulenza tecnica assolva in genere la funzione di strumento di valutazione di fatti gia’ probatoriamente acquisiti, e’ indubitabile, tuttavia, che il giudice del merito non puo’ ritenersi vincolato dalle deduzioni tratte dal c.t.u. in base agli accertamenti tecnici, essendo suo precipuo compito trarre autonomamente logiche conclusioni, giuridiche e di merito, sulla base del materiale probatorio acquisito (cfr. Cass. 20.7.2001, n. 9922).
Il rigetto del ricorso giustifica la condanna in solido dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimita’. La liquidazione segue come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna in solido i ricorrenti a rimborsare alla controricorrente le spese del giudizio di legittimita’ che si liquidano in euro 3.700,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario, i.v.a. e cassa come per legge.
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