Nel reato di evasione dagli arresti domiciliari il dolo è generico e consiste nella consapevole violazione del divieto di lasciare il luogo di esecuzione della misura senza la prescritta autorizzazione, a nulla rilevando i motivi che hanno determinato la condotta dell’agente. Poi va considerato che il concetto di abitazione, ai fini degli arresti domiciliari, ricomprende le aree private di uso esclusivo con esclusione di ogni altra appartenenza (aree condominiali, dipendenze, giardini, cortili e spazi simili) che non sia di stretta pertinenza dell’abitazione e non ne costituisca parte integrante, al fine di agevolare i controlli di polizia sulla reperibilità dell’imputato, che devono avere il carattere della prontezza e della non aleatorietà.
Tali regole vanno coordinate con il fine primario e sostanziale della misura “coercitiva” degli arresti domiciliari, che è quello di impedire i contatti con l’esterno ed il libero movimento della persona quale mezzo di tutela delle esigenze cautelari. In questa ottica è stato affermato che anche uscire dall’abitazione e trattenersi in spazi comuni rappresenta una significativa violazione della misura, tale da poter consentire anche la realizzazione di quelle situazioni che la misura intende evitare.
Tuttavia, anche il reato di evasione non sfugge ad una esigenza di tipicità, dovendo la condotta, nel suo concreto atteggiarsi, rivelarsi finalisticamente diretta ed idonea a effettivamente ledere o mettere in pericolo l’interesse tutelato.
Nel caso in esame, la sentenza impugnata ha ritenuto integrato il reato sulla base delle relazioni di polizia giudiziaria che hanno “fotografato” in tempo reale le violazioni alla misura cautelare e, nella sentenza di primo grado, il tribunale indica i fotogrammi valutati ai fini della decisione. Dai medesimi infatti si percepisce senza ombra di dubbio che l’imputata non ha mai abbandonato il domicilio, ove era ristretta, limitandosi, in sporadiche occasioni, a stazionare nei pressi del cancello d’ingresso dell’abitazione compiendo attività della vita quotidiana. Deve quindi escludersi la sussistenza di una volontà diretta ad eludere le decisioni dell’autorità giudiziaria o ostacolare i controlli di polizia.
Suprema Corte di Cassazione
sezione I
sentenza 26 maggio 2016, n. 22118
Rilevato in fatto
Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Trapani con sentenza del 20 dicembre 2013, all’esito di giudizio abbreviato, ha condannato I.D. per il reato di evasione dagli arresti domiciliari (capo A) e di detenzione di munizioni (capo B), alla pena rispettivamente di mesi dieci e di mesi otto di reclusione.
Per quanto attiene al primo reato, a fronte della condotta accertata attraverso le immagini captate dal servizio di video sorveglianza predisposto nel corso di altra indagine per narcotraffico – la donna in più occasioni era uscita dal portone della propria abitazione e, dopo aver attraversato l’intero giardino, era uscita poi dal cancello di entrata; aveva incontrato sulla pubblica via soggetti non conviventi, fra cui pregiudicati – il giudice procedente riteneva che anche un allontanamento di modesta entità spaziale e di breve durata era idoneo a ledere il bene protetto.
In relazione alla contestazione di cui al capo B), il tribunale rilevava che nel corso di una perquisizione all’interno dell’abitazione dell’imputata era stato trovato munizionamento per arma da guerra e per armi comuni da sparo. In una conversazione intercettata durante un colloquio in carcere con i propri figli e la madre, l’imputata aveva rivendicato la disponibilità delle munizioni.
Il Giudicante negava la concessione delle attenuanti generiche in assenza di elementi positivi di valutazione e rimarcando, anzi, che il contenuto falso delle dichiarazioni difensive dell’imputata era prova di un atteggiamento processuale privo di resipiscenza.
2. La corte di appello di Palermo con sentenza emessa l’8 luglio 2014 ha confermato la decisione di primo grado.
3. Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione I.D., a mezzo del difensore fiduciario che articola i seguenti motivi.
3.1. Con il primo, la ricorrente in riferimento al reato di cui al capo A, deduce contraddittorietà della motivazione per travisamento della prova in punto di elemento oggettivo del reato. Nella comunicazione di notizia di reato redatta dalla polizia giudiziaria, così come nel verbale di arresto (atti allegati al ricorso), era riportato che l’imputata non era uscita dall’abitazione, ma aveva consentito l’ingresso di soggetti maschili e femminili, alcuni dei quali pregiudicati. Era precisato negli atti che l’imputata era sempre rimasta all’altezza del proprio domicilio: ella, come si vedeva dalle immagini della video sorveglianza, era in pigiama mentre aiutava la madre in manovre in auto nel cortile, mentre prendeva il pane, quando sistemava il citofono.
3.2. Con il secondo motivo, la ricorrente, sempre in relazione al capo A), lamenta erronea applicazione della norma, sotto il profilo della sussistenza dell’elemento oggettivo, e difetto di motivazione sull’elemento soggettivo. La ricorrente era sempre rimasta nelle pertinenze del domicilio e aveva tenuto una condotta che non comportava la sua irreperibilità, nè comprometteva o rendeva maggiormente difficoltosa la vigilanza dell’autorità. L’imputata era rimasta sempre “al livello del cancello”. La corte di appello non aveva verificato se D. si fosse rappresentata e avesse voluto realizzare l’evasione, al fine di sottrarsi ai controlli e raggiungere una piena ed illimitata libertà.
3.3. Con il terzo motivo, in relazione alla condanna per il reato di cui al capo B), la difesa deduce contraddittorietà della motivazione per travisamento della conversazione intercettata. La corte aveva ritenuto che l’imputata si fosse assunta la responsabilità della detenzione delle munizioni. Invece, dal tenore della conversazione emergeva piuttosto la preoccupazione dell’imputata di non riuscire a provare la propria estraneità al fatto. La D. aveva esternato al figlio una versione ritenuta più accomodante. Peraltro, le munizioni erano state trovate dietro la spalliera di un letto antico, e non risultava provato che l’imputata ne avesse la disponibilità. In casa non vi era nessun’arma e non era stata affrontata la specifica deduzione difensiva secondo cui la D. abitava da poco tempo nell’immobile condotto in locazione ed era possibile che le munizioni fossero state collocate dai precedenti conduttori.
3.4. Infine, la ricorrente lamenta che non siano stati enunciati i criteri valutativi e le circostanze alla base della mancata concessione delle attenuanti generiche.
Considerato in diritto
1. I primi due motivi dl ricorso sono fondati.
A fronte della ricostruzione dei fatti operato in sentenza sono erronei i presupposti in diritto sulla cui base i giudici di merito hanno ritenuto configurato il reato di evasione.
Va innanzitutto considerato che, secondo la giurisprudenza di legittimità di questa Corte, nel reato di evasione dagli arresti domiciliari il dolo è generico e consiste nella consapevole violazione del divieto di lasciare il luogo di esecuzione della misura senza la prescritta autorizzazione, a nulla rilevando i motivi che hanno determinato la condotta dell’agente. Poi va considerato che il concetto di abitazione, ai fini degli arresti domiciliari, ricomprende le aree private di uso esclusivo con esclusione di ogni altra appartenenza (aree condominiali, dipendenze, giardini, cortili e spazi simili) che non sia di stretta pertinenza dell’abitazione e non ne costituisca parte integrante, al fine di agevolare i controlli di polizia sulla reperibilità dell’imputato, che devono avere il carattere della prontezza e della non aleatorietà.
Tali regole vanno coordinate con il fine primario e sostanziale della misura “coercitiva” degli arresti domiciliari, che è quello di impedire i contatti con l’esterno ed il libero movimento della persona quale mezzo di tutela delle esigenze cautelari. In questa ottica è stato affermato che anche uscire dall’abitazione e trattenersi in spazi comuni rappresenta una significativa violazione della misura, tale da poter consentire anche la realizzazione di quelle situazioni che la misura intende evitare.
Tuttavia, anche il reato di evasione non sfugge ad una esigenza di tipicità, dovendo la condotta, nel suo concreto atteggiarsi, rivelarsi finalisticamente diretta ed idonea a effettivamente ledere o mettere in pericolo l’interesse tutelato.
Nel caso in esame, la sentenza impugnata ha ritenuto integrato il reato sulla base delle relazioni di polizia giudiziaria che hanno “fotografato” in tempo reale le violazioni alla misura cautelare e, nella sentenza di primo grado, il tribunale indica i fotogrammi valutati ai fini della decisione. Peraltro, la visione di detti fotogrammi, allegati dalla difesa al ricorso, evidenzia la sussistenza del dedotto vizio del travisamento della prova che rende di per se stessa contraddittoria o illogica la motivazione. Dai medesimi infatti si percepisce senza ombra di dubbio che la D. non ha mai abbandonato il domicilio, ove era ristretta, limitandosi, in sporadiche occasioni, a stazionare nei pressi del cancello d’ingresso dell’abitazione compiendo attività della vita quotidiana. Deve quindi escludersi la sussistenza di una volontà diretta ad eludere le decisioni dell’autorità giudiziaria o ostacolare i controlli di polizia.
Quanto all’ulteriore circostanza, suggestivamente enunciata nella decisione di primo grado e ripresa da quella di appello quale indice dell’interesse a sottrarsi ai controlli, secondo cui durante gli allontanamenti illeciti dall’abitazione la ricorrente si incontrava con pregiudicati, deve evidenziarsi che nella relazione di servizio al contrario si afferma che la donna consuetudinariamente consentiva l’ingresso presso la propria abitazione a soggetti segnalati per reati di droga. Ma, all’evidenza, si tratta di comportamenti che attengono all’osservanza delle modalità esecutive della misura -di cui il giudice può tener conto ai sensi dell’art. 276 cod. proc. pen. ove sia imposto il divieto di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano-, ma che sono irrilevanti nell’ottica del reato contestato. Si impone quindi l’annullamento senza rinvio della condanna per questo reato con eliminazione della relativa pena.
2. I restanti motivi sono manifestamente infondati e vanno dichiarati inammissibili.
2.1. Quanto al terzo motivo con cui la ricorrente deduce il travisamento della conversazione intercettata (riportata a pagina 4 della sentenza di appello) e riconduce a soggetti diversi da sé la detenzione delle munizioni, è appena il caso di rilevare che D. si limita a riproporre censure già prospettate con l’atto di appello e motivatamente respinte dal giudice di secondo grado. In primo luogo, va ribadita la consolidata giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, Sez. 6, n. 17619, del 08/01/2008, Gionta, Rv. 239724) per la quale, in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, è questione di fatto rimessa all’apprezzamento del giudice di merito e si sottrae al giudizio di legittimità, se la valutazione risulta logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate. In secondo luogo, il motivo si risolve nella prospettazione di una lettura soggettivamente orientata del materiale probatorio alternativa a quella fatta motivatamente propria dal giudice di merito nel tentativo di sollecitare quello di legittimità ad una rivisitazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o all’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei medesimi, che invece gli sono precluse ai sensi dell’art. 606, lett. e).
2.2. In ordine al diniego delle attenuanti generiche, è ben noto lo jus receptum, in base alla consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità, secondo cui, la valutazione in ordine alla ricorrenza dell’attenuante atipica prevista dall’art. 62 bis c.p., deve essere fatta in base agli elementi indicati dall’art. 133 c.p. e il diniego (come la concessione) di essere rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo. In questa ottica, senza necessità di ripercorrere ab initio le innumerevoli pronunce del giudice di legittimità richiamate anche nel ricorso, è sufficiente ricordare che le attenuanti generiche, nel nostro ordinamento, hanno lo scopo di allargare le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole al reo, in considerazione di situazioni e circostanze particolari di segno positivo che, effettivamente dimostrate, incidano sull’apprezzamento dell’entità del reato e della capacità di delinquere dell’imputato. Inoltre, la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, si da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda. (Cass. Sez. 1, sent. n. 11361 del 19.10.1992 dep. 25.11.1992 rv 192381). In aderenza al dettato normativo, la motivazione del giudice di appello si muove nell’ottica imposta dall’art. 133 cod. pen. indicando l’assenza in atti di elementi che depongono a favore dell’imputata, il cui comportamento processuale è stato non collaborativo e privo di resipiscenza.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata relativamente al delitto di evasione perché il fatto non costituisce reato ed elimina la relativa pena di mesi 10 di reclusione. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
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