Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 4 maggio 2016, n. 8919
Svolgimento del processo
B.B. citava davanti al Tribunale di Pordenone C.E. e B.M. , esponendo che nel 1978 era deceduto il proprio genitore adottivo B.L. ; che gli eredi S.E. e i figli adottivi B. e M. avevano stipulato in data 21 novembre 1991 (poi rettificata in 9 aprile 1992) un atto notarile di divisione ereditaria sul presupposto che fra loro si fosse determinata una situazione di comunione dei beni del de cuius; che l’attrice, però, nel 2000 era venuta a sapere che M. , alla data di apertura della successione, non era figlio adottivo dei coniugi B. , ma solo un affiliato, in quanto tale privo di diritti successori, essendo stato adottato dalla sola S. nel 1983. Su tali premesse, l’attrice domandava l’annullamento dell’atto di divisione consensuale del 21 novembre 1991 per notaio Garzona di Spilimbergo, in quanto stipulato nell’erronea convinzione che M. fosse erede di B.L. , nonché la restituzione dei beni ereditari illegittimamente detenuti da B.M. , con scioglimento della comunione fra lei e la madre. I convenuti si costituivano e chiedevano dichiararsi l’improponibilità della domanda, stante la transazione, e la mancanza comunque dei presupposti di cui all’art. 761 c.c., con conseguente rigetto delle domande attoree, ed in via riconvenzionale domandavano di accertarsi in loro favore l’acquisto per usucapione dei beni elencati nella denuncia di successione del 13 settembre 1978 e nell’atto divisionale del 21 novembre 1991, ovvero, ancora, in via subordinata, il rimborso delle spese sostenute per la gestione ed il miglioramento di tali beni. In particolare, i convenuti deducevano che B.B. avesse stipulato l’atto di divisione nella piena consapevolezza dello status di affiliato di M. al momento dell’apertura della successione, tant’è che erano addivenuti nell’aprile del 1983 ad una scrittura privata poi trasfusa nella divisione del 1991.
Espletata l’istruttoria, con sentenza n. 690/2007 del 20 giugno 2007 il Tribunale di Pordenone rigettava le domande proposte da B.B. , nonché la domanda riconvenzionale dei convenuti relativa all’usucapione dei beni oggetto di divisione. Avverso tale sentenza proponeva impugnazione B.B. , e la Corte d’Appello di Trieste, con sentenza n. 582/2010 del 13 dicembre 2010, rigettava il gravame. Al riguardo dei motivi di appello, la Corte di merito osservava che la convenzione sottoscritta da B.B. non avesse ad oggetto diritti indisponibili, quale la qualità di erede, ma soltanto diritti patrimoniali, dei quali aveva disposto nella piena consapevolezza che M. non fosse erede di B.L. al momento dell’apertura della successione di questo (15 marzo 1978). La sentenza qui impugnata spiega le ragioni per cui collocare nei primi mesi del 1983 quell’iniziale convenzione, pur priva di data certa, e come, dalla testimonianza resa da B.A. , si potesse desumere che soltanto in occasione del matrimonio di B.M. (avvenuto il (OMISSIS) ) la famiglia comprese la differenza tra lo status di affiliato (che spettava ancora a M. ) e quello di adottato. I giudici del gravame ribadivano pure che fosse stata provata, a mezzo della CTU calligrafica, la genuinità ed autenticità della sottoscrizione apposta su quella scrittura privata da B.B. . In ordine alla valutazione delle prove testimoniali assunte in primo grado, la Corte triestina riteneva che le stesse non dimostrassero che B.B. non fosse stata messa a conoscenza che M. fosse solo affiliato e non già adottato.
Avverso la sentenza della Corte d’appello di Trieste B.B. ha proposto ricorso strutturato in tre motivi, mentre Maurizia B. e C.E. resistono con controricorso. Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso di B.B. deduce l’”illegittimità della sentenza impugnata con riferimento all’art. 360 n. 3 c.p.c., per violazione e falsa applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 519 c.p.c. (rectius: 519 c.c.) e 1966 c.c. sotto il profilo dell’erronea dichiarazione di efficacia della convenzione-dichiarazione incidente su diritti indisponibili e del mancato rispetto delle formalità di legge nell’atto di rinuncia all’eredità”. Si contesta alla sentenza di secondo grado di non aver rilevato la nullità della convenzione del 1983, in quanto avente ad oggetto lo status di figlio legittimo, e quindi di erede, di B.M. , status di cui questo era privo al momento determinante dell’apertura della successione di B.L. . Peraltro, si aggiunge, un simile atto avrebbe in sostanza dato luogo ad una rinuncia ad una quota dell’eredità della stessa ricorrente B. a vantaggio di M. , mancando però delle formalità imposte dall’art. 519 c.c..
Il secondo motivo censura l’illegittimità della sentenza impugnata con riferimento all’art. 360 n. 5 c.p.c., avuto riguardo all’omessa o insufficiente motivazione della Corte di Trieste sulla domanda della ricorrente di petizione dell’eredità. I giudici dell’appello avrebbero errato nell’affermare che il Tribunale non avesse mancato di pronunciare sulla petitio hereditatis, avendone ritenuto il rigetto implicito nel mancato annullamento dell’atto di divisione ereditaria. Tale domanda, a dire di B.B. , doveva essere accolta poiché mancava il titolo di erede in capo a B.M. , anche per l’invalidità già professata delle convenzione-dichiarazione di cui al primo motivo.
Il terzo motivo di ricorso sostiene la violazione e falsa applicazione degli artt. 533 e ss. c.p.c. sotto il profilo dell’erronea dichiarazione di efficacia e validità della divisione ereditaria del 1991. L’atto del 1991 non potrebbe dirsi valida ed efficace divisione ereditaria in quanto in capo a B.M. mancava il titolo necessario di coerede per partecipare ad esso.
Il ricorso appare infondato in tutti e tre i suoi motivi.
Va premesso che il primo ed il terzo motivo di ricorso sono, come visto, volti a censurare l’erronea dichiarazione di efficacia e di validità di due atti convenzionali intorno a quali ruota l’intero giudizio, in quanto fonte attributiva dei diritti e degli obblighi in contesa, quale la convenzione-dichiarazione (di assunta portata transattiva) stipulata nei primi mesi del 1983 e la divisione ereditaria del novembre 1991. Ed allora, per comprendere l’effettivo significato del primo e del terzo motivo di ricorso di B.B. , quanto alla denunciata incidenza di questi due atti sugli status parentali e sulle qualità ereditarie, e non soltanto sui diritti patrimoniali dei disponenti, sarebbe stato indispensabile che la ricorrente, lamentandone in questa sede la mancata od inadeguata valutazione ad opera del giudice di merito, avesse riprodotto nel ricorso il tenore esatto dei documenti, essendo al giudice di legittimità istituzionalmente vietato di ricercare direttamente le prove negli atti di causa o di compiere indagini integrative rispetto ai fatti prospettati dalle parti. Il contenuto di quei due documenti non è invece trascritto nel ricorso, e già ciò potrebbe precludere il controllo della decisività di essi nel senso auspicato da B.B. .
In ogni caso, il primo motivo risulta infondato nella sua stessa prospettazione in diritto. Agli effetti del limite imposto dall’art. 1966 c.c., che sancisce la nullità della transazione avente ad oggetto diritti non lasciati alla disponibilità delle parti, sono certamente sottratti ad ogni potere di disposizione dei contraenti, inerendo alla qualificazione giuridica della persona nella collettività, gli status personali. La nullità del contratto avente per oggetto uno status discende, indipendentemente dall’art. 1966 c.c., dal dato che gli status, in quanto privi del carattere di patrimonialità, non possono costituire oggetto di un atto espressione dell’autonomia privata. Sono, tuttavia, certamente negoziabili le situazioni soggettive patrimoniali che dagli status derivano. È quindi transigibile la controversia insorta tra gli aventi diritto ad una quota dell’eredità nella successione del genitore, che non ponga in discussione lo status di figlio adottivo o di affiliato di uno dei membri del nucleo familiare, ma soltanto (come avvenuto nel caso in esame, secondo quanto dedotto) la consistenza dei diritti patrimoniali che in quello status trovano la loro fonte. Né è ravvisabile alcuna illiceità nella convenzione dispositiva o rinunciativa di diritti patrimoniali relativi ad una successione già aperta.
Quanto alla qualificazione della convenzione del 1983 come rinuncia all’eredità, priva dei requisiti di cui all’art. 519 c.c., va detto che in tal modo si prospetta nel ricorso per cassazione una questione di cui non vi è cenno nella sentenza impugnata, sicchè sarebbe stato onere della ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, allegare l’avvenuta deduzione di essa innanzi al giudice di merito ed indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo avesse fatto. In ogni caso, anche qui è agevole replicare come la rinunzia all’eredità è, di norma, un negozio unilaterale non recettizio; ove, invece, la rinuncia all’eredità assuma struttura bilaterale, essendo volta altresì allo scopo ulteriore di fare acquistare ad un altro soggetto la quota che sarebbe spettata al rinunciante e che il beneficiario dichiara di accettare, si dà luogo ad un negozio comunque del tutto lecito.
È infondato anche il secondo motivo di ricorso. Giustamente la Corte d’appello ha affermato che non vi fosse da motivare espressamente sulla petitio hereditatis, essendone il rigetto implicito nel rigetto della domanda di annullamento del contratto di divisione ereditaria. La petizione dell’eredità, com’è noto, è un’azione reale che si fonda sull’allegazione dello stato di erede da parte dell’attore ed è diretta a conseguire il rilascio dei beni compresi nell’asse ereditario al momento dell’apertura della successione da chi li possiede senza titolo o in base a titolo successorio che non gli compete: il titolo per cui alcuni beni dell’eredità di B.L. siano posseduti da B.M. sta, allora, nel contratto di divisione del 21 novembre 1991, che glieli aveva validamente attribuiti.
È infondato il terzo motivo di ricorso. La mancanza della qualità di coerede in capo a B.M. al momento dell’apertura della successione di B.L. , essendo all’epoca a questo legato da rapporto di affiliazione e non già di adozione, non impediva agli altri coeredi, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, di pattuire lo scioglimento della comunione ereditaria attribuendo una quota della stessa anche a quello, avendo con ciò dato luogo non ad una vera e propria divisione, per la cui validità era necessaria soltanto la sottoscrizione dei due coeredi B.B. e C.E. , ma ad un contratto plurilaterale, comunque vincolante ed efficace fra i contraenti.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Consegue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare ai controricorrenti le spese sostenute in questo giudizio, che liquida in complessivi Euro 7,200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.
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