Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza n. 15846 del 20 settembre 2012
Svolgimento del processo
La controversia concerne le spese condominiali che T.M. G. è stata condannata a rifondere ai suoi aventi causa P. M.C. e F.M., i quali avevano acquistato da lei un appartamento, sito in (omissis), con la clausola che eventuali spese condominiali successive sarebbero rimaste a carico della venditrice.
La vendita da T. ai predetti era avvenuta nel 1994; nel 1999 i coniugi P.M. avevano alienato lo stesso immobile a I.F. e D.L.R.; costoro nel 2000 avevano appreso della esistenza di controversia giurisdizionale pendente con l’ex portiere dello stabile, definita con transazione che aveva portato al pagamento a loro carico di circa 4,550 Euro, di cui avevano chiesto il rimborso ai P., i quali avevano chiamato in causa la T..
Il giudice di pace di Napoli nel febbraio 2004 ha condannato i coniugi P. a rimborsare gli attori e la T. a manlevare i P..
Il tribunale di Napoli, con sentenza 12 ottobre 2005, notificata il 7 aprile 2006, ha dichiarato inammissibile l’appello della T. quanto alle posizioni contro I. – D.L., perchè proposto fuori termine rispetto alla sentenza del 2003 che li riguardava, in quanto, pur se definita parziale, aveva contenuto definitivo nei loro confronti.
Quanto alla posizione P. confermava la condanna alla refusione di una quota delle spese da loro dovute a I., con modifica della decorrenza degli interessi.
Rigettava con nuove argomentazioni la domanda della T. relativa al pagamento di una caldaia e dell’arredo bagno, che ella assumeva di aver venduto ai P. in occasione del rogito.
T. ricorre per la cassazione di questa sentenza con tre motivi.
I P. resistono con controricorso.
Motivi della decisione
2) Il primo motivo di ricorso, che denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2722, 1350, 1470, 1537 e 1538 c.c., concerne il pagamento della caldaia e dell’arredo bagno alienati ai coniugi P.M..
La ricorrente si duole della mancata ammissione di prova testimoniale e per interrogatorio formale di controparte, miranti, a dimostrare che tra le parti in occasione della vendita dell’immobile era stata pattuita la vendita di detti beni, pattuizione estranea al contenuto del contratto di vendita immobiliare.
La censura non coglie nel segno. Essa trascura di attaccare la ratio determinante della decisione del tribunale.
Il giudice di appello, integrando la motivazione del primo giudice, ha rilevato (pag. 9) che i patti relativi ai beni accessori erano patti aggiunti da dimostrare per iscritto, in quanto relativi a beni mobili ormai incorporati nell’immobile.
Questo presupposto di fatto è determinante, giacchè implica necessariamente che la vendita dell’alloggio, pattuita per iscritto, comprendeva anche la caldaia (che peraltro è un componente necessario dell’impianto di riscaldamento) e l’arredo bagno.
Dunque coerentemente il tribunale ha ritenuto che solo un patto scritto poteva valere a superare la documentazione originaria, che comprendeva i beni incorporati nell’immobile.
Il ricorso avrebbe dovuto, ove possibile, contestare il presupposto di fatto da cui è partito il tribunale, cioè l’incorporazione dei due beni, ma tale censura non è stata svolta.
3)11 secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1304, 1372 e 1965 c.c., vizi di motivazione e omessa pronuncia.
La doglianza si riferisce all’individuazione delle somme dovute dalla T. agli acquirenti dell’immobile in adempimento dell’impegno contrattuale a farsi carico degli oneri dovuti sino al rogito “anche se accertati o liquidati successivamente”.
Con pretesa quasi temeraria, la ricorrente nega che potesse essere posto a base del calcolo di detti oneri l’atto transattivo, recepito in delibera condominiale, con il quale fu chiusa la vertenza con il portiere dello stabile. Si tratterebbe a suo dire di un atto arbitrario e volontario e non di atti “previsti o predeterminati in forza di legge o di un provvedimento dell’autorità”, quali previsti per “l’operatività della clausola”.
La censura non ha pregio.
Fondamento dell’accordo era che gli oneri – in questo caso condominiali – successivamente emersi fossero accertati o comunque liquidati e, ovviamente che fossero relativi al periodo di proprietà T..
L’accertamento della natura condominiale del debito proviene, come ha ben osservato il tribunale (significativamente v. pag. 11 rigo 6), dal riconoscimento di esso da parte del condominio. Infatti non era stata prevista contrattualmente la necessità di un accertamento giurisdizionale, previsione che sarebbe stata insensatamente onerosa.
A fronte della liquidazione condominiale, la T. avrebbe potuto contestare l’inerenza della spesa al condominio e all’epoca di sua pertinenza.
La censura, nella sua ultima parte, contesta anche questo, ma lo fa con mere illazioni, assumendo in via astratta che non ogni obbligazione legittimamente assunta dal condominio poteva vincolarla e che la transazione con il portiere D.R. concerneva anche causali diverse dalle spettanze per il rapporto di lavoro. Trattasi di doglianze che non hanno ingresso in questa sede, ma che dovevano essere sollevate davanti ai giudici di merito, secondo la scansione dei tempi processuali.
Il ricorso non si fa carico di riferire se e in che modo sia stata contestata, a suo tempo, l’inerenza delle voci di debito e non censura eventuali specifici errori sul punto; ne consegue, posto che neppure dalla sentenza impugnata risultano questioni siffatte, che la censura è inammissibilmente formulata.
4) La misura del debito è oggetto del terzo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 1282 c.c., vizio di motivazione e omesso esame di un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4).
Il tribunale di Napoli ha ridotto da 3766,73 Euro a 3487,97 Euro la somma dovuta dalla T..
La ricorrente sostiene che sarebbe stato commesso “error in procedendo” oppure “omesso esame di un punto decisivo della controversia”, perchè il dividendo da cui sarebbe partito il calcolo era di 135 milioni e non la somma di 110 milioni prevista in conciliazione.
Inoltre la ricorrente afferma che le indennità e le retribuzioni spettanti al portiere in conseguenza del rapporto di lavoro non sono necessariamente uniformi negli anni, “anzi le stesse hanno causali e entità diverse, anno per anno”. Sarebbe stato accollato alla T. un onere costante invece da procedere ad un accertamento analitico. Tale accertamento sarebbe stato omesso anche con riguardo alle spese per migliorie sull’alloggio apportate dal portiere.
Infine la ricorrente si duole dell’addebito di interessi sulla somma dovuta ai resistenti, perchè la decorrenza sarebbe stata determinata dal giorno del pagamento senza dare riferimenti precisi su tale data.
Trattasi di doglianze manifestamente infondate.
La quantificazione delle spettanze, in quanto frutto di premesse di calcolo errate, avrebbe dovuto essere oggetto di censura riferita all’art. 360 c.p.c., n. 5, non costituendo un vizio del processo, ma, in ipotesi, un error in iudicando.
Poichè il divario tra le somme indicate non risulta dalla sentenza essere stato oggetto di controversia, la censura avrebbe dovuto essere articolata allegando e dimostrando che non si trattava di questione nuova, cioè sollevata per la prima volta in sede di legittimità, ma che era stata introdotta, con opportuna e tempestiva contestazione della domanda (secondo l’onere di contestazione che grava sul convenuto).
Frutto ancora una volta di mera tardiva illazione, e non di specifica contestazione esaminabile in sede di legittimità, è il secondo profilo di doglianza, che non si fa carico di attaccare la ratio della quantificazione della quota secondo il criterio cronologico, cioè in base agli anni di proprietà dell’una o dell’altra parte.
La Corte d’appello ha ritenuto corretta questa scelta, spiegando che la determinazione transattiva onnicomprensiva (che quindi implica una riduzione delle pretese iniziali globali) rendeva inutile e impossibile uno specifico accertamento delle prestazioni effettuate.
Tale motivazione è congrua e logica, soprattutto se si pon mente al fatto (ricorso pag. 17) che l’ammontare complessivo andava distribuito in misura largamente preponderante sulla ricorrente, proprietaria per 324 mesi, a fronte di soli 15 mesi (dicembre 94/febbraio 96) di proprietà P..
Ovviamente tale circostanza rende velleitaria e strumentale la contestazione in sede di legittimità, in mancanza di una puntualissima tempestiva contestazione (non riportata) di specifiche voci di spesa non riferibili in alcun modo al tempo in cui la T. era proprietaria.
Infine la determinabilità, mediante documentazione o prova in sede di esecuzione, della data di decorrenza degli interessi sulla somma dovuta, rende del tutto infondata la censura relativa alla dedotta violazione dell’art. 1282 c.c..
Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso e la condanna alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo, in relazione al valore della controversia.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente alla refusione a controparte delle spese di lite liquidate in Euro 1.500 per onorari, 200 per esborsi, oltre accessori di legge.
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