L massima
In tema di interpretazione del contratto, il criterio ermeneutico previsto dall’art. 1367 cod. civ., postulando che il giudice non abbia potuto identificare chiaramente l’intento delle parti attraverso l’utilizzazione degli altri criteri previsti dalle precedenti disposizioni (artt. 1362 e ss, cod. civ.), ha carattere integrativo e sussidiario rispetto a questi ultimi: pertanto, qualora gli stessi abbiano consentito di individuare adeguatamente il significato e la portata del contratto, il criterio in esame non può trovare applicazione, neppure in funzione della conservazione del negozio, non potendo tale finalità essere conseguita attraverso un’interpretazione sostitutiva della volontà delle parti, ma dovendo in tal caso dichiararsi, ove ne ricorrano gli estremi, la nullità del contratto.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI CIVILE
ORDINANZA 27 marzo 2012, n.4919
Fatto e diritto
Il relatore designato ai sensi dell’art.377 c.p.c. ha osservato quanto segue:’ La società Compagnia Nazionale dei Servizi – C.N.S. s.p.a. ha proposto ricorso per regolamento di competenza avverso la sentenza del Tribunale di Milano, resa ex art. 281 sexies c.p.c. in data 22 settembre 2010, che ha dichiarato l’improponibilità delle domande di parte attrice e di parte convenuta nei confronti di parte attrice e della terza chiamata, attesa la clausola compromissoria sub art.20 del contratto d’appalto sottoscritto dalle parti (C.N.S. s.p.a., Condominio di via (omissis) ed M.S.C. s.r.l.), che prevede il deferimento ad arbitrato irrituale non solo delle controversie in materia di esecuzione e risoluzione, ma anche di interpretazione del contratto.
Nel giudizio, l’attrice C.N.S. s.p.a., quale appaltatrice, aveva agito per l’accertamento della illegittimità dell’escussione da parte del convenuto Condominio della fideiussione rilasciata a garanzia della corretta esecuzione dell’appalto; Il Condominio convenuto aveva sollevato in primis l’eccezione di compromesso e in subordine in via riconvenzionale aveva chiesto l’accertamento dell’inadempimento del contratto da parte dell’appaltatrice e della terza chiamata come impresa costruttrice, con la condanna al pagamento delle somme necessarie per il risarcimento dei danni, ed in via ulteriormente subordinata, aveva chiesto di essere tenuta indenne da M.S.C., da ogni pronuncia pregiudizievole nei propri confronti.
La società ricorrente denuncia vizio di violazione e/o falsa applicazione dell’art. 809 c.p.c. e di insufficiente e contraddittoria motivazione, per avere il Tribunale ritenuto la clausola compromissoria pienamente valida, mentre nella stessa si menziona dapprima il procedimento arbitrale collegiale, successivamente il tentativo di conciliazione, disponendosi infine che, in caso di fallimento della composizione tra le parti, la causa vada devoluta ad arbitrato irrituale con arbitro unico; secondo la ricorrente, non risulta nel caso possibile determinare a quale autorità arbitrale le parti abbiano inteso devolvere la controversia, la formulazione testuale è incomprensibile e rende totalmente indeterminabile quale sia l’organismo a cui devolvere la controversia, né è sostenibile la prevalenza assegnata dal Tribunale al Collegio Arbitrale sull’Arbitro monocratico, per la maggiore ampiezza che la clausola attribuisce all’organo collegiale; la clausola deve considerarsi nulla per indeterminatezza delle modalità di nomina degli arbitri, perché intrinsecamente contraddittoria e non atta a determinare con certezza la volontà delle parti, il tutto senza considerare che soprattutto con riferimento alle riconvenzionali proposte verso la terza chiamata, il sistema binario previsto dalla clausola non appare applicabile alla controversia che vede coinvolte tre parti, senza possibilità di ricondurre le stesse a due posizioni giuridiche. Il solo Condominio ha depositato memoria, eccependo l’inammissibilità del regolamento di competenza, per non essere con tale mezzo denunciabili vizi di motivazione, per costituire indagine di fatto propria del Giudice del merito l’interpretazione della clausola arbitrale, per essere impugnabile con l’appello e non ricorribile in cassazione con regolamento di competenza la decisione con cui il Giudice ha pronunciato sull’eccezione relativa all’esistenza di compromesso o clausola compromissoria; nel merito la clausola ha previsto procedimento arbitrale bifasico, con eventuale fase prodromica con tentativo di conciliazione, esperito il quale, le parti avrebbero dovuto sottoporre la questione ad un Collegio arbitrale, e il riferimento all’arbitro unico costituisce mero refuso; inammissibile in sede di regolamento di competenze è il riferimento alla controversia tra tre parti, ed in ogni caso, sono riscontrabili due centri di interessi contrapposti.
Rileva quanto segue.
Il ricorso deve ritenersi ammissibile, stante l’applicabilità, ratione temporis, dell’art. 819 ter c.p.c.; ed invero, il giudizio nel quale è stata sollevata la questione di competenza risulta introdotto, come si desume dal ricorso, ove si indica la data del contratto d’appalto del quale si controverte al 14/2/2007, dopo il 2 marzo 2006, sicché ad esso trova applicazione la disposizione in oggetto, come di recente affermato nella pronuncia 2402 del 2010, che a riguardo, ha rilevato come la pronuncia delle S.U., n. 19047 del 2010, ha chiarito che, nell’ipotesi in cui la sentenza del giudice abbia risolto una questione di deferibilità della controversia agli arbitri, ma nessun procedimento arbitrale sia ancora iniziato, né prima né dopo il 2 marzo 2006, non può trovare applicazione la norma transitoria di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 4 (‘Le disposizioni degli artt. 21, 22, 23, 24 e 25 si applicano ai procedimenti arbitrali, nei quali la domanda di arbitrato è stata proposta successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto’), ma operano i principi generali della perpetuano iurisdictionis e tempus regit actum.
Ciò posto, nel resto si deve rilevare che le doglianze della ricorrente sono inammissibilmente intese a prospettare il vizio di violazione di legge con riguardo all’interpretazione offerta dal Giudice del merito nell’ambito dei poteri interpretativi propri, ed il vizio di motivazione, con riferimento peraltro al criterio interpretativo di cui all’art. 1367 c.c..
Ed invero, come affermato nella pronuncia 5549 del 2004, “In tema di interpretazione di una clausola arbitrale, l’accertamento della volontà degli stipulanti in relazione al contenuto del negozio si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito. Ne consegue che detto accertamento è censurabile in sede di legittimità solo nel caso in cui la motivazione sia così inadeguata da non consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito da quel giudice per giungere ad attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche’; la ricorrente, quanto al vizio di violazione di legge, non ha neppure indicato le regole ermeneutiche in tesi violate dal Tribunale, ed ha invece dedotto la violazione dell’art. 1367 c.c. del tutto incongruamente, sotto il profilo del vizio di motivazione, in ogni caso non cogliendo la complessa argomentazione fatta valere dal Tribunale, che, nella ricostruzione della volontà delle parti trasfusa nella clausola arbitrale, si è avvalso dei canoni interpretativi di cui agli artt.1362 e 1363 c.c., per poi fare ricorso, nell’ambito della diversa interpretazione del tentativo di conciliazione come obbligatorio, al criterio sussidiario di cui all’art. 1367 c.c..
Il ricorso può essere deciso pertanto in camera di consiglio ex artt. 375 e 380 bis c.p.c.’.
I detti rilievi sono stati contrastati dalla ricorrente, che nella memoria ha evidenziato di avere concentrato la propria attenzione ‘sull’insufficienza e contraddittorietà della motivazione offerta dal Giudice ambrosiano, ove nell’applicazione dell’art. 1367 c.c. abbia condensato le preliminari considerazioni già svolte applicando l’art. 1363 c.c.’; secondo la parte, il Giudice avrebbe attribuito alla clausola compromissoria un senso nuovo ed originale della stessa, ‘violando l’art. 1367 c.c. come si coglie dalla motivazione contraddittoria che è intervenuta’, mentre la norma assolve ad una funzione meramente residuale.
Il Collegio, preso atto di detti rilievi, nella sostanziale condivisione delle argomentazioni esposte nella relazione, precisa in primis, che il vizio ex art. 360 n.5 c.p.c., attinente all’accertamento ed alla valutazione circa fatto controverso e decisivo per il giudizio, non può essere dedotto in sede di regolamento di competenza, in cui sono contestabili solo l’applicazione di principi giuridici (così le pronunce 4010/03, 14166/01, 6480/01); così circoscritto l’ambito del ricorso al solo profilo del vizio di violazione di legge, che la parte ha meglio individuato in memoria nell’art. 1367 c.c., va rilevato che il Tribunale ha posto a base della decisione, in prima battuta, l’interpretazione della clausola secondo i criteri di cui agli art. 1362 e 1363 c.c., per poi farsi carico della possibile interpretazione del tentativo di conciliazione come obbligatorio, in tale ipotesi facendo ricorso al criterio di cui all’art. 1367 c.c., senza violare detta norma, come interpretata dalla giurisprudenza (vedi la pronuncia 7972/2007, che si è così espressa: ‘In tema di interpretazione del contratto, il criterio ermeneutico previsto dall’art. 1367 cod. civ., postulando che il giudice non abbia potuto identificare chiaramente l’intento delle parti attraverso l’utilizzazione degli altri criteri previsti dalle precedenti disposizioni (artt. 1362 e ss, cod. civ.), ha carattere integrativo e sussidiario rispetto a questi ultimi: pertanto, qualora gli stessi abbiano consentito di individuare adeguatamente il significato e la portata del contratto, il criterio in esame non può trovare applicazione, neppure in funzione della conservazione del negozio, non potendo tale finalità essere conseguita attraverso un’interpretazione sostitutiva della volontà delle parti, ma dovendo in tal caso dichiararsi, ove ne ricorrano gli estremi, la nullità del contratto’), siccome adottata nella seconda ipotesi interpretativa.
Il Giudice del merito, pertanto, ha dato conto dei due possibili percorsi argomentativi, adottati in alternativa, correttamente utilizzando i criteri ermeneutici ex art. 1362 e ss. c.c..
Va pertanto respinto il ricorso.
Le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese, liquidate in Euro 2200,00, di cui Euro 200,00 per spese.
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