Tardiva proposizione da parte dell’avvocato di un appello

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|17 settembre 2024| n. 25023.

Tardiva proposizione da parte dell’avvocato di un appello

Non costituisce un interesse giuridicamente tutelabile quello a proporre una impugnazione infondata; ne consegue che la tardiva proposizione, da parte dell’avvocato, di un appello privo di ragionevoli probabilità di accoglimento non costituisce per il cliente un danno risarcibile, e non fa sorgere per l’avvocato un obbligo risarcitorio, nemmeno sotto il profilo della perdita della “chance” della mera partecipazione al giudizio di impugnazione.

 

Ordinanza|17 settembre 2024| n. 25023. Tardiva proposizione da parte dell’avvocato di un appello

Data udienza 28 giugno 2024

Integrale

Tag/parola chiave: Responsabilità professionale – Avvocato – Non corretto adempimento dell’attività professionale – Insufficienza – Verifiche da parte del giudice – Evento produttivo del pregiudizio riconducibile alla condotta dell’avvocato – Danno effettivo – Differenze tra condotte omissive negative e condotte omissive positive – Omessa impugnazione del provvedimento sfavorevole – Obbligazione di mezzi e non di risultato – Interesse strumentale e interesse primario – Prova del nesso eziologico tra la condotta del legale commissiva od omissiva e il risultato derivato – Perdita della possibilità di una “mera partecipazione” ad un giudizio – Interesse giuridicamente tutelabile – Insussistenza per una impugnazione infondata – Tardiva proposizione da parte dell’avvocato di un appello privo di ragionevoli probabilità di accoglimento – Danno risarcibile – Esclusione

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere

Dott. RUBINO Lina – Consigliere

Dott. VINCENTI Enzo – Relatore

Dott. SPAZIANI Paolo – Consigliere

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 21871/2022 R.G. proposto da

Fa.Be., Pa.An., Fa.De., Fa.Ri., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA AL.II., presso lo studio dell’avvocato AN.MA., rappresentati e difesi dall’avvocato EM.GH.;

-ricorrente-

Contro

Pi.Ca. e Pi.Ro., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA G.P., presso lo studio dell’avvocato ST.CO. che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato MA.LO.;

-controricorrenti-

nonché contro

Ma.En., AS.MI. Spa, GE.IT. Spa;

-intimati-

e sul ricorso incidentale proposto da

Pi.Ca. e Pi.Ro., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA G.P., presso lo studio dell’avvocato ST.CO. che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato MA.LO.;

-ricorrenti incidentali-

Contro

Ma.En., AS.MI. Spa, GE.IT. Spa, Fa.Be., Pa.An., Fa.De., Fa.Ri.;

-intimati-

avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di VENEZIA n. 292/2022, depositata il 10/02/2022.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28/06/2024 dal Consigliere ENZO VINCENTI.

Tardiva proposizione da parte dell’avvocato di un appello

FATTI DI CAUSA

1. – Con ricorso affidato a cinque motivi, Fa.Be., Pa.An., Fa.Ri. e Fa.De. hanno impugnato la sentenza della Corte di appello di Venezia, resa pubblica in data 10 febbraio 2022, che, in parziale accoglimento del gravame avverso la decisione sfavorevole del Tribunale di Verona, riteneva fondata la domanda proposta dagli appellanti, originari attori, di responsabilità professionale degli avvocati Ma.En. e Pi.Lu. per inadempimento al mandato loro conferito – avendo costoro depositato tardivamente l’atto di appello (quindi, dichiarato improcedibile) contro la sentenza n. 2548/2002 del 22 luglio 2002 del Tribunale di Verona (resa in controversia di risarcimento danni, promossa dagli stessi attuali ricorrenti, in conseguenza di sinistro stradale che aveva determinato la morte del loro congiunto, Fa.Fe.) – e condannava l’avv. Ma.En. in solido con gli eredi dell’avv. Pi.Lu., Pi.Ro. e Pi.Ca. (questi ultimi in proporzione delle rispettive quote ereditarie), al pagamento dell’importo di Euro 900,00, a titolo di risarcimento danni, e dell’importo di Euro 4.672,00, a titolo di restituzione dei corrisposti compensi professionali, oltre accessori sulle somme capitali anzidette.

2. – La Corte territoriale, a fondamento della decisione (e per quanto ancora rileva in questa sede), osservava che a) era inammissibile l’eccezione, riproposta dagli eredi (Omissis), di prescrizione quinquennale del diritto di credito degli attori per essere la responsabilità del dante causa, giacché avvocato soltanto domiciliatario, di tipo extracontrattuale a.1) gli appellati non avevano, infatti, proposto impugnazione incidentale sul sostanziale rigetto di detta eccezione da parte del Tribunale che aveva ritenuto sussistere una responsabilità solidale di tipo contrattuale e aveva “rilevato che il mandato professionale era stato rilasciato congiuntamente in favore dei due professionisti, con la conseguenza che la diversa tipologia di atti, svolti dall’uno o dall’altro di questi, concerneva una mera suddivisione interna, insuscettibile di avere riflessi esterni sul cliente conferente il mandato”; b) era infondata l’eccezione di prescrizione decennale, dovendo il relativo termine decorrere dalla manifestazione all’esterno del danno e, quindi, nella specie, non già dalla pubblicazione della sentenza di improcedibilità della Corte di appello di Venezia del 16 agosto 2004, bensì dal 2013, allorquando gli appellanti sono venuti a conoscenza di detta pronuncia, là dove, in ogni caso, il termine prescrizionale decennale pur decorrente dall’agosto 2004 era stato interrotto dalla comunicazione di messa in more del 9 luglio 2014; c) era sussistente l’inadempimento degli avvocati Ma.En. e Pi.Lu. per la mancata costituzione in giudizio nei termini di legge, con conseguente declaratoria di improcedibilità dell’appello; d) quanto alla azionata pretesa risarcitoria, era solo in parte positivo “il giudizio prognostico, circa l’esito che il giudizio avrebbe avuto se l’attività professionale fosse stata svolta correttamente” d.1.) era fondata, in ragione dello stato della giurisprudenza al momento del proposto gravame, la pretesa, svolta in qualità di eredi, di risarcimento del danno biologico c.d. terminale in capo a Fa.Fe., per essere questi sopravvissuto per 5 giorni dopo il sinistro stradale e a tale titolo era da liquidarsi (in base ai valori tabellari per l’invalidità temporanea) la somma, all’attualità, di Euro 900,00, oltre interessi legali; d.2) non poteva essere riconosciuto agli appellanti il danno biologico subito iure proprio “atteso che la sussistenza dello Stato patologico lamentato non emerge dalla lettura della sentenza di primo grado e che la circostanza che la CTU avesse riconosciuto un danno biologico è priva di prova non essendo stata depositata tale consulenza”; d.3) né poteva essere riconosciuto il “richiesto danno non patrimoniale conseguente alla condotta negligente degli appellati, danno non provato e prima ancora allegato”; e) in ragione dell’inadempimento dei professionisti all’attività difensiva, era fondata la pretesa attorea di restituzione della somma di Euro 4.672,00, ad essi corrisposta per tale attività.

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3. – Hanno resistito con controricorso Pi.Ro. e Pi.Ca., proponendo, altresì, ricorso incidentale sulla base di tre motivi.

Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli intimati Ma.En., l’AS.MI. Spa e la GE.IT. Spa; quest’ultime, compagnie di assicurazione chiamate in causa in primo grado dai professionisti convenuti.

4. – In prossimità dell’adunanza in camera di consiglio i ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 380-bis.1, c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Ricorso principale degli eredi (Omissis)

1. – Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., “in merito alla richiesta di liquidazione del danno derivante dalla perdita di chances favorevoli connesse alla partecipazione al giudizio di secondo grado”, avendo la Corte territoriale riconosciuto ad essi attori/appellanti, iure haereditario, il solo danno biologico temporaneo patito dal dante causa e rigettato la pretesa di risarcimento del danno biologico iure proprio, ma non già il danno da perdita di chances, quale voce autonoma di danno, richiesta espressamente in primo e secondo grado, in ragione della “sussistenza di un nesso eziologico tra la condotta omissiva degli Avv.ti Ma.En. e Pi.Lu. e la perdita delle chance favorevoli determinata dall’impossibilità di partecipare al giudizio d’appello”, essendo “la chance (e, di conseguenza, la sua perdita)… determinata dalla mera partecipazione (o mancata partecipazione) ad un giudizio, il quale offre la possibilità di addivenire ad accordi transattivi, indipendentemente dalle maggiori o minori possibilità dell’esito favorevole della lite”.

2. – Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. – e in subordine al mancato accoglimento del primo motivo – ‘omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione “in merito alla richiesta di liquidazione del danno derivante dalla perdita di chances favorevoli connesse alla partecipazione al giudizio di secondo grado”‘, per non essersi la Corte territoriale pronunciata o, comunque, per non adottato una motivazione comprensibile, sulla richiesta di risarcimento del danno da perdita di chance favorevole.

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2.1. – Il primo e il secondo motivo, da esaminarsi congiuntamente, veicolano la seguente questione di diritto se, in conseguenza dell’inadempimento dell’obbligazione professionale assunta dall’avvocato nei confronti del cliente, sia risarcibile il danno da perdita di chance rappresentato dalla mera perdita della possibilità di partecipare ad un giudizio (nella specie, di appello); danno distinto da quello eziologicamente correlato al mancato riconoscimento delle proprie ragioni (la ‘vittoria della causa’), da provarsi in base a criteri probabilistici.

Essi sono infondati.

2.1.1. – Va, infatti, ribadito l’orientamento consolidato espresso dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale la responsabilità dell’avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone (tra le molte Cass. n. 11901/2002; Cass. n. 10966/2004; Cass. n. 2638/2013; Cass. n. 15032/2021; Cass. n. 2348/2022; Cass. n. 2109/2024).

A tal fine, si è distinto anche tra “l’omissione di condotte che, se tenute, sarebbero valse ad evitare l’evento dannoso, dall’omissione di condotte che, viceversa, avrebbero prodotto un vantaggio”; mentre nella prima ipotesi “l’evento dannoso si è effettivamente verificato, quale conseguenza dell’omissione”, nella seconda ipotesi “il danno… deve costituire oggetto di un accertamento prognostico, dato che il vantaggio patrimoniale che il danneggiato avrebbe tratto dalla condotta altrui, che invece è stata omessa, non si è realmente verificato e non può essere empiricamente accertato”.

Tale seconda ipotesi è quella che attiene alla responsabilità professionale dell’avvocato per omessa impugnazione del provvedimento sfavorevole, cui è da assimilarsi il caso di specie, vertendo su tardivo deposito di atto di appello, con conseguente declaratoria di improcedibilità del gravame.

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Ed è in siffatta ipotesi che l’esito del giudizio, il cui svolgimento è stato precluso dall’omissione del professionista, “non può essere accertato in via diretta, ma solo in via presuntiva e prognostica” – in base alla regola della preponderanza dell’evidenza o del ‘più probabile che non’ -, per cui l’affermazione della responsabilità risarcitoria “implica una valutazione prognostica positiva” circa la ragionevole probabilità che l’azione giudiziale, che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita, abbia un esito favorevole (tra le altre, segnatamente, Cass. n. 25112/2017 e Cass. n. 10320/2018).

2.1.2. – Le ragioni che inducono a mantenere fermo detto orientamento e ad escludere che la ‘mera’ perdita della possibilità di partecipare ad un giudizio, per effetto dell’inadempimento dell’avvocato alla sua obbligazione professionale (omessa impugnazione, in tutto o in parte, del provvedimento giudiziario sfavorevole), possa costituire un danno, di per sé, risarcibile, a prescindere da una correlazione con il risultato ‘utile cui mira il giudizio stesso, muovono, anzitutto, dalla considerazione della natura di detta obbligazione, che questa Corte, da sempre (Cass. n. 3848/1968; Cass. n. 2230/1973; Cass. n. 7618/1997; Cass. n. 16023/2002; Cass. n. 10289/2015; Cass. n. 30169/2018; Cass. n. 21953/2023), ha ritenuto essere, di regola (e certamente nel caso dello svolgimento dell’incarico di patrocinare in un giudizio), “di mezzi e non di risultato” (secondo una terminologia ormai risalente) in quanto il professionista si fa carico non già dell’obbligo di realizzare il risultato cui il cliente aspira, bensì dell’obbligo di esercitare diligentemente la propria professione, che a quel risultato deve pur sempre essere finalizzata.

2.1.2.1. – Indagando a fondo struttura e funzione delle obbligazioni inerenti all’attività professionale, in tempi più recenti si è precisato (segnatamente Cass. n. 28992/2019, in materia di professione sanitaria, ma con affermazioni di principio aventi valenza più generale, come, del resto, reso evidente da espressi richiami anche alla professione forense) che nelle anzidette obbligazioni (c.d. di ‘diligenza professionale o anche di ‘facere professionale) occorre distinguere tra un interesse strumentale, affidato alla cura della prestazione oggetto di obbligazione (art. 1174 c.c.), e un interesse primario, o presupposto, del creditore. L’interesse strumentale è quello che connota la prestazione oggetto dell’obbligazione, ossia il rispetto delle leges artis nella cura dell’interesse del creditore.

L’interesse primario o presupposto non è, invece, dedotto in obbligazione, ma è, però, intimamente connesso a quello strumentale “già sul piano della programmazione negoziale e dunque del motivo comune rilevante al livello della causa del contratto”.

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Nel caso dell’obbligazione di diligenza professionale dell’avvocato l’interesse primario del cliente/creditore è la “vittoria della causa”, così come nell’obbligazione del medico tale interesse è la “guarigione dalla malattia”; sicché, “(n)on c’è obbligazione di diligenza professionale del medico o dell’avvocato se non in vista, per entrambe le parti, del risultato della guarigione dalla malattia o della vittoria della causa”.

Ne consegue che il “danno evento nelle obbligazioni di diligenza professionale riguarda… non l’interesse corrispondente alla prestazione ma l’interesse presupposto”, per cui l’inadempimento della prestazione dedotta in obbligazione comporterà certamente la lesione dell’interesse strumentale, ma non necessariamente di quello primario/presupposto, ponendosi, dunque, l’esigenza di dimostrare che la condotta contraria alle leges artis abbia determinato, eziologicamente, la lesione dell’interesse primario/presupposto e, dunque, il danno evento.

2.1.2.2. – È questa una ricostruzione che, sia pure con argomentare diverso, non si discosta, però, da quanto già affermato dalla consolidata giurisprudenza sopra richiamata.

La responsabilità risarcitoria dell’avvocato non può, infatti, sussistere in ragione soltanto dell’inadempimento all’incarico professionale e, dunque, come conseguenza unicamente della lesione dell’interesse strumentale dedotto in obbligazione.

L’inadempimento potrà certamente costituire il presupposto della domanda di restituzione del compenso che il cliente abbia corrisposto al professionista o per consentire al primo di opporsi utilmente alla richiesta in tal senso avanzata da quest’ultimo (avvalendosi dell’eccezione di cui all’art. 1460 c.c. tra le altre, Cass. n. 22487/2004); e nel perimetro dell’inadempimento, e quindi della lesione dell’interesse strumentale, si collocherà senz’altro anche la condotta imperita/negligente dell’avvocato che abbia cagionato la perdita della possibilità di partecipare ad un giudizio.

Tuttavia, ai fini del risarcimento del danno si rende necessaria, altresì, la prova del nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, e il risultato che ne è derivato, ovvero che si sia determinata, in termini di giudizio prognostico, la lesione dell’interesse primario del cliente stesso e cioè la mancata “vittoria della causa” o, in altri ma sovrapponibili termini, il mancato “riconoscimento delle proprie ragioni” nella sede giudiziaria.

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Diversamente, in assenza di quest’ultimo interesse – che è, in altri termini, l’interesse al c.d. “bene della vita” – non potrà esserci danno risarcibile.

Non potrà, quindi, esserci danno risarcibile se si confonde l’interesse primario del cliente, che vale a connotare causalmente il contratto di patrocinio in giudizio concluso con l’avvocato, con quello alla “mera partecipazione” ad un giudizio, affatto sganciato dal “bene della vita” cui tende il giudizio stesso.

Non è, infatti, la “mera partecipazione ad un giudizio” l’interesse tutelato dall’ordinamento, il quale è, invece, necessariamente finalizzato al “riconoscimento delle proprie ragioni”, ossia dei diritti/interessi legittimi per i quali soltanto è garantita dall’ordinamento il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.).

Un orientamento teleologico, quello che viene ad assumere l’interesse creditorio primario, che collima, pertanto, con le stesse finalità dell’agire e/o resistere in giudizio.

Del resto, per garantire il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale è predisposto un complesso apparato organizzativo (il c.d. ‘servizio giustizia’), con un costo per la collettività, la cui attivazione, impegnando una risorsa limitata, non può essere rimessa ad iniziative ‘meramente esplorative, ‘dilatorie o, a maggior ragione, ‘emulative, che non potrebbero, dunque essere sorrette da un interesse meritevole di tutela.

E di ciò dà indiretta conferma, tra l’altro, la stessa disciplina sulla responsabilità aggravata nel giudizio civile (art. 96 c.p.c.), già nella sua originaria formulazione – che annetteva all’area dell’illecito l’agire o il resistere in giudizio (di cognizione o di esecuzione) con modalità comunque abusive (con “mala fede o colpa grave” o “senza normale prudenza”) -, ma ancor più in quella conseguente alla modifica recata dalla legge n. 69 del 2009, che ha introdotto un terzo comma in forza del quale il giudice, “in ogni caso”, può, anche d’ufficio, condannare il soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una “somma equitativamente determinata”.

Disposizione, quest’ultima, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 152 del 2016, ha ritenuto di natura eminentemente sanzionatoria, “con finalità deflattive”, correlata alla “offesa arrecata alla giurisdizione, che deve manifestare e garantire la ragionevole durata di un giusto processo, in attuazione di un interesse di rango costituzionale intestato allo Stato”.

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Di qui, pertanto, la ratio di questa misura punitiva, volta a contrastare le condotte “di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo così ad aggravare il volume (già di per sé notoriamente eccessivo) del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti” (così ancora Corte cost., sent. n. 152/2016).

La finalità di sanzionare l’abuso processuale che comporta uno “sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali” (tra le altre Cass. n. 5725/2019) è stata, quindi, ulteriormente rafforzata dalla più recente riforma processuale, avendo la novella di cui al D.Lgs. n. 149 del 2022 introdotto nell’art. 96 c.p.c. un quarto comma il quale prevede che, nei casi disciplinati dai commi che lo precedono, il giudice condanni la parte anche al pagamento di una sanzione pecuniaria da versarsi a favore della cassa delle ammende e tanto proprio “a compensazione del danno arrecato all’Amministrazione della giustizia per l’inutile impiego di risorse speso nella gestione del processo” (così la Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 149 del 2022).

2.1.3.1. – Dunque, la perdita della possibilità di una “mera partecipazione” ad un giudizio, nell’ipotesi di omessa impugnazione del provvedimento giudiziario sfavorevole, non vale ad integrare, di per sé, un danno risarcibile, poiché un tale danno, come detto, è configurabile soltanto ove sussista la lesione di un interesse tutelato dall’ordinamento, che, nel caso, va rinvenuto nell’interesse al “bene della vita” del cliente per il cui soddisfacimento è unicamente diretto l’adempimento dell’obbligazione di diligenza professionale forense e cioè (si ripete) l’interesse a “vincere la causa”, a vedersi riconosciute le “proprie ragioni” e, quindi, ad ottenere tutela dei propri diritti/interessi legittimi.

2.1.4. – In due pronunce meno recenti (Cass. n. 15759/2001 e Cass. n. 22026/2004) questa Corte ha anche affermato la risarcibilità del danno “della chance d’intraprendere o proseguire una lite in sede giudiziaria”. A tal fine si è detto che “la partecipazione ad una controversia in sede giudiziaria… anche del tutto indipendentemente dalle maggiori o minori possibilità d’esito favorevole della lite” offre “in ogni caso frequentemente occasione, tra l’altro, di transigere la vertenza o di procrastinarne la soluzione o di giovarsi di situazioni di fatto o di diritto sopravvenute, risultati che indiscutibilmente rappresentano, già di per sé stessi, apprezzabili vantaggi sotto il profilo economico”.

Tuttavia, le citate decisioni hanno ritenuto che il danno potesse liquidarsi soltanto in base ad un “criterio prognostico basato sulle concrete ragionevoli possibilità di risultati utili”.

Si è, dunque, palesata, ancora una volta, la necessità che il diritto al risarcimento del danno sia ancorato alla sussistenza di un nesso eziologico tra la condotta inadempiente del professionista e il risultato che si sarebbe potuto ottenere in termini di vantaggio per la parte e in presenza di “concrete ragionevoli possibilità” di conseguirlo.

Anche la recente Cass. n. 3824/2024, ma nel caso comunque singolare della perdita della possibilità di partecipare ad una gara per l’aggiudicazione di un immobile, ha reputato risarcibile un danno da perdita di chance, ossia da “possibilità perduta di realizzare il risultato”. E, tuttavia, la cassazione della decisione di merito è stata disposta dalla citata pronuncia perché la sentenza impugnata aveva ritenuto necessaria, ai fini dell’accoglimento della pretesa risarcitoria, la prova che si sarebbe potuta ottenere l’aggiudicazione non già in base ad un giudizio prognostico, ma “certamente”, là dove, invece, il rigetto di quella pretesa avrebbe potuto conseguire soltanto in presenza della dimostrazione che l’attore “non avrebbe avuto alcuna seria e concreta possibilità di rendersi aggiudicatario dell’immobile”.

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Occorrerà, quindi, che quei risultati vantaggiosi (una transazione, l’intervento di uno jus superveniens favorevole alla parte, etc.), quali possibilità ‘ragionevolmente concrete conseguibili nel corso di una lite (e della cui allegazione e prova si deve far carico l’attore che agisce per il risarcimento del danno; ciò che, nella specie, i ricorrenti neppure deducono di aver fornito, accennando soltanto alla astratta possibilità di transazioni), si presentino come eventi suscettibili, in seno ad un giudizio, di rendere tutela ai diritti/interessi legittimi della parte stessa e tali, pertanto, da integrare l’interesse primario/presupposto alla cui soddisfazione è dedotta in contratto l’obbligazione di diligenza professionale dell’avvocato.

2.1.5. – Va, quindi, enunciato il seguente principio di diritto “non costituisce un interesse giuridicamente tutelabile quello a proporre una impugnazione infondata; ne consegue che la tardiva proposizione, da parte dell’avvocato, di un appello privo di ragionevoli probabilità di accoglimento non costituisce per il cliente un danno risarcibile, e non fa sorgere per l’avvocato un obbligo risarcitorio, nemmeno sotto il profilo della perdita della chance della mera partecipazione al giudizio di impugnazione”.

3. – Con il terzo mezzo è prospettato, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, inerente alla “mancata liquidazione del danno biologico patito iure proprio dai sigg. Fa.Ri. in conseguenza della morte del proprio congiunto Fa.Fe.”, per essersi la Corte territoriale “immotivatamente… discostata da quanto accertato il Tribunale di Verona nella sentenza resa a definizione del giudizio n. 474/1997”,

nella quale “era stata espressamente riconosciuta la sussistenza i contraccolpi psicologici derivanti dalla morte del congiunto”, tali, dunque, “da ingenerare vere e proprie patologie psichiche”, ciò rappresentando “un fatto storico, da ritenersi giudizialmente accertato nel giudizio di primo grado”.

3.1. – Il motivo è infondato, in quanto il Tribunale di Verona, con la sentenza resa nella causa n. 474/1997 (depositata in atti dai ricorrenti), non ha affatto riconosciuto la sussistenza di un danno biologico in favore dei genitori di Fa.Fe., bensì soltanto il danno morale correlato a “contraccolpi psicologici”, che, in assenza di ogni altra specificazione nella stessa sentenza, non possono intendersi di per sé quali concretanti un effettivo danno psichico.

4. – Con il quarto mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., nullità della sentenza per violazione dell’art. 347 c.p.c., “per non avere la Corte d’Appello richiesto l’acquisizione d’ufficio dei fascicoli relativi alle cause Rg. nn. 474/1997, 2711/2003 e 1257/2015”.

I ricorrenti assumono che il giudice di secondo grado avrebbe illegittimamente escluso esservi la prova del danno biologico da essi patito iure proprio, in conseguenza della morte del congiunto, ed emergente dalla C.T.U. espletata nel giudizio distinto dal Rg. n. 474/1997, in quanto atto non depositato nel giudizio risarcitorio contro i professionisti legali, sebbene l’acquisizione d’ufficio dei fascicoli, e/o l’ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. degli stessi, relativi al predetto giudizio Rg. n. 474/1997 e di quello di appello Rg. n. 2711/2003, fossero stati richiesti in primo grado nel presente giudizio (distinto dal Rg. n. 1257/2015) ed ivi era stato acquisito, in data 4.12.2018, il fascicolo del giudizio di appello distinto da Rg. n. 2711/2003, in cui vi era o avrebbe dovuto essere presente la C.T.U., che, dunque, la Corte territoriale avrebbe poi dovuto acquisire ai sensi dell’art. 347 c.p.c.

5. – Con il quinto mezzo è dedotto, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., “vizio di motivazione su un fatto decisivo della controversia” in relazione alla “mancata liquidazione del danno biologico patito iure proprio dai sigg. Fa.Ri.” – segnatamente, Fa.Be. e Pa.An. – “in conseguenza della morte del proprio congiunto Fa.Fe.”, essendo la Corte territoriale incorsa in un “difetto di motivazione” poiché se avesse esaminato la C.T.U., che avrebbe dovuto acquisire ai sensi dell’art. 347 c.p.c., avrebbe avuto elementi decisivi per pronunciarsi sulla anzidetta domanda risarcitoria.

Tardiva proposizione da parte dell’avvocato di un appello

5.1. – Il quarto e quinto motivo, da esaminarsi congiuntamente per la loro stretta connessione, sono fondati per quanto di ragione.

Giova rammentare che l’acquisizione del fascicolo d’ufficio di primo grado nel processo d’appello ha una funzione meramente sussidiaria, sicché, in mancanza, il procedimento di secondo grado, e la relativa sentenza, non sono viziati, né tale omissione può costituire motivo di ricorso per cassazione, salvo che il ricorrente deduca che da detto fascicolo il giudice avrebbe potuto o dovuto trarre elementi decisivi su uno o più punti controversi della causa, non rilevabili aliunde, che è suo onere indicare specificatamente (Cass. n. 1678/2016; Cass. n. 9498/2019.

Nella specie, risulta (doc. n. 14 fascicolo ricorrente, richiamato in ricorso a p. 20) che gli attori avevano, in primo grado, a seguito di istanza proposta con la memoria ex art. 183, comma sesto, n 2, c.p.c., provveduto a far acquisire i fascicoli d’ufficio della causa presupposta (Rg. n. 474/1997 primo grado; Rg. n. 2711/2003 secondo grado), in cui era stata depositata l’espletata consulenza medico-legale d’ufficio (doc. n. 12 fascicolo ricorrenti, richiamato alle pp. 17 e 23), così da doversi acquisire nel fascicolo del giudizio di appello.

Dalla citata c.t.u. medico-legale emerge effettivamente che era stato riconosciuto a carico di Fa.Be. e della Pa.An. un danno biologico psichico nella misura del 10% di invalidità permanente; elemento, questo, decisivo rispetto alla delibazione cui era tenuto il giudice di appello sulla pretesa risarcitoria avanzata dagli attori/appellanti e che lo stesso giudice non ha invece valutato in ragione dell’assenza agli atti della stessa c.t.u.

Ricorso incidentale eredi (Omissis)

6. – Preliminarmente va disattesa l’eccezione dei ricorrenti principali di inammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva proposta dagli eredi (Omissis) per essere l’interesse alla stessa non già insorto per effetto dell’impugnazione principale, ma da questa “totalmente svincolat(o)”.

Va, infatti, ribadito il principio (riaffermato da Cass., S.U., n. 8486/2024) per cui l’impugnazione incidentale tardiva – da proporsi con l’atto di costituzione dell’appellato o con il controricorso nel giudizio di cassazione – può essere sollevata anche quando sia scaduto il termine per l’impugnazione principale, indipendentemente dal fatto che investa un capo autonomo della sentenza stessa e che, quindi, l’interesse ad impugnare fosse preesistente, dato che nessuna distinzione in proposito è contenuta negli artt. 334, 343 e 371 c.p.c. e che occorre consentire alla parte, che avrebbe di per sé accettato la decisione, di contrastare l’iniziativa della controparte, volta a rimettere comunque in discussione l’assetto di interessi derivante dalla pronuncia impugnata (Cass. n. 10477/2024; Cass. n. 15100/2024).

7. – Con il primo mezzo del ricorso incidentale è denunciata “erronea applicazione degli articoli 100, 343 e 346 c.p.c. per avere la sentenza di appello erroneamente ritenuto l’inammissibilità dell’eccezione di prescrizione quinquennale extracontrattuale in quanto non formulata attraverso appello incidentale bensì tramite mera riproposizione”, nonché “erronea applicazione dell’art. 2935

c.c. per quanto riguarda l’individuazione corretta del dies a quo da cui inizia a decorrere la prescrizione”.

I ricorrenti incidentali assumono, anzitutto, che, avendo il Tribunale di Verona “totalmente accolto” le conclusioni da essi rassegnate “con integrale rigetto delle domande degli attori e condanna di questi ultimi al pagamento delle spese di lite, seppur ritenendo sussistere una responsabilità contrattuale e una prescrizione decennale anziché le invocate responsabilità extracontrattuale e prescrizione quinquennale”, non vi era interesse ad impugnare in quanto non sussisteva la soccombenza ed era sufficiente la riproposizione dell’eccezione ai sensi dell’art. 346 c.p.c.

Tardiva proposizione da parte dell’avvocato di un appello

Si sostiene, inoltre, che, avendo l’avv. Pi.Lu. svolto unicamente attività di domiciliatario, non era intercorso alcun rapporto contrattuale con i (Omissis), avendolo costoro soltanto con l’avv. Ma.En.

Infine, i ricorrenti incidentali deducono che avrebbe errato il giudice di appello nell’individuazione del momento di decorrenza del termine prescrizionale, avendolo fatto coincidere con “un evento del tutto soggettivo” (ossia con l’inizio della pratica forense di Fa.Ri., il quale, dopo 10 anni dalla proposizione dell’appello, “aveva avuto l’idea” di verificare le informazioni dell’avv. Ma.En. sulla pendenza del gravame), mentre il dies a quo di cui all’art. 2935 c.c. “deve necessariamente coincidere con un evento che sia oggettivamente percepibile”.

7.1. – Il motivo è infondato.

A tal fine è assorbente il rilievo in ordine alla correttezza della decisione di inammissibilità assunta dalla Corte territoriale, rispondente al principio di diritto per cui in tema di impugnazioni, qualora l’eccezione di prescrizione sia stata respinta in primo grado (come nella specie), in modo espresso o attraverso un’enunciazione indiretta che ne sottenda, chiaramente ed inequivocamente, la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, richiede la proposizione di gravame incidentale, non essendo sufficiente la mera riproposizione, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., utilizzabile solo quando l’eccezione non sia stata oggetto di alcun esame, diretto o indiretto, ad opera del giudice di prime cure (tra le altre Cass. n. 9505/2024).

8. – Con il secondo mezzo del ricorso incidentale è prospettata, in via subordinata, la “erronea applicazione dell’art. 1917 c.c.” nella parte in cui la Corte territoriale, rigettando la domanda di manleva di essi appellati (essendo pervenuta la richiesta risarcitoria dopo 4 anni dalla cessazione del rapporto assicurativo), “ha ritenuto legittima la clausola di un contratto di assicurazione per la responsabilità professionale che individui l’evento coperto dall’assicurazione nella richiesta di risarcimento anziché nell’accadimento del sinistro”.

8.1. – Il motivo è infondato.

Con esso è dedotta, nella sostanza, la nullità del contratto di assicurazione per il solo fatto di essere caratterizzato come contratto “on claims made basis”.

8.1.1. – I ricorrenti incidentali hanno richiamato a sostegno della censura la sentenza di questa Corte n. 5791 del 2014, adducendo che tale pronuncia avrebbe ritenuto l’illegittimità, per contrasto con l’art. 1917 c.c., di clausola che individui il rischio coperto dall’assicurazione nella richiesta di risarcimento e non nell’avverarsi del sinistro (nel caso, la commissione dell’errore professionale).

Anche a prescindere dal rilievo per cui detta sentenza è precedente alla successiva evoluzione della giurisprudenza di questa Corte, la stessa non ha, comunque, deciso nei termini suindicati, poiché ha ritenuto erronea l’interpretazione data dal giudice di appello del contratto assicurativo, che pur era “on claims made basis”, ma per ragioni diverse dalla nullità di una tale clausola (che il primo giudice aveva, peraltro, reputato legittima).

In quell’occasione, come rilevato dalla stessa Cass. n. 5791/2014, la “Corte d’Appello ritenne infatti che l’indennizzo assicurativo non fosse dovuto all’avv(ocato)… non già perché lo impedisse la clausola sopra trascritta, ma per la diversa ragione che nella specie l’efficacia del contratto di assicurazione era spirata ad aprile del 1998, e quindi prima della sentenza (depositata a novembre 1998) con la quale la Corte d’Appello…, dichiarando tardivo l’appello proposto dall’avv(ocato)…, ne aveva fatto sorgere la responsabilità professionale”.

Tardiva proposizione da parte dell’avvocato di un appello

Sicché, Cass. n. 5791/2014, nel cassare una siffatta decisione, ha enunciato il seguente principio di diritto ai fini della validità del contratto di assicurazione della responsabilità civile, non è consentita l’assicurazione di un rischio i cui presupposti causali si siano già verificati al momento della stipula, dovendo essere futuro rispetto a tale momento non il prodursi del danno, quanto l’avversarsi della causa di esso, senza che rilevi che il concreto pregiudizio patrimoniale si sia poi verificato dopo la conclusione del contratto, in quanto conseguenza inevitabile di fatti già avvenuti in precedenza.

Dunque, il precedente giurisprudenziale evocato in ricorso non è affatto pertinente rispetto al tenore della censura svolta in questa sede.

8.1.2. – Ciò premesso, la postulata nullità del tipo contrattuale in quanto tale, che i ricorrenti incidentali deducono, va, infatti, esclusa alla luce del principio, ormai consolidato, secondo cui il modello di assicurazione della responsabilità civile con clausole “on claims made basis”, quale deroga convenzionale all’art. 1917, comma primo, c.c., consentita dall’art. 1932 c.c., è riconducibile al tipo dell’assicurazione contro i danni e, pertanto, non è soggetto al controllo di meritevolezza di cui all’art. 1322, comma secondo, c.c., ma alla verifica, ai sensi dell’art. 1322, comma primo, c.c., della rispondenza della conformazione del tipo, operata attraverso l’adozione delle suddette clausole, ai limiti imposti dalla legge, da intendersi come l’ordinamento giuridico nella sua complessità, comprensivo delle norme di rango costituzionale e sovranazionale. Tale indagine riguarda, innanzitutto, la causa concreta del contratto – sotto il profilo della liceità e dell’adeguatezza dell’assetto sinallagmatico rispetto agli specifici interessi perseguiti dalle parti -, ma non si arresta al momento della genesi del regolamento negoziale, investendo anche la fase precontrattuale (in cui occorre verificare l’osservanza, da parte dell’impresa assicurativa, degli obblighi di informazione sul contenuto delle “claims made”) e quella dell’attuazione del rapporto (come nel caso in cui nel regolamento contrattuale “on claims made basis” vengano inserite clausole abusive), con la conseguenza che la tutela invocabile dall’assicurato può esplicarsi, in termini di effettività, su diversi piani, con attivazione dei rimedi pertinenti ai profili di volta in volta implicati (Cass., S.U., n. 22437/2018).

9. – Con il terzo mezzo, proposto in via subordinata, è dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione dell’art. 112 c.p.c. “per omessa pronuncia su istanza istruttoria… e omesso esame di fatti decisivi”, per non essersi la Corte territoriale pronunciata sulla ammissione della richiesta prova testimoniale concernente i capitoli 9 e 10, che intendevano provare, quali fatti decisivi, che l’avv. Pi.Lu. “organizzava la propria attività, e quella dei propri collaboratori dipendenti, mediante l’adozione della regola di depositare gli atti, pervenuti dagli avvocati domini, il medesimo giorno del loro ricevimento” e che “la predetta regola è sempre stata rispettata”.

9.1. – Il motivo è inammissibile.

Il provvedimento reso sulle richieste istruttorie è censurabile con ricorso per cassazione per violazione del diritto alla prova, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4, c.p.c. allorquando il giudice di merito rilevi preclusioni o decadenze insussistenti ovvero affermi l’inammissibilità del mezzo di prova per motivi che prescindano da una valutazione della sua rilevanza in rapporto al tema controverso ed al compendio delle altre prove richieste o già acquisite, nonché per vizio di motivazione in ordine all’attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini della decisione, con la conseguenza che è inammissibile il ricorso che non illustri la decisività del mezzo di prova di cui si lamenta la mancata ammissione (tra le altre Cass. n. 30810/2023).

I ricorrenti non argomentano in modo specifico sulla decisività delle circostanze oggetto della prova testimoniale non ammessa e, in ogni caso, il rilievo che si intenderebbe assegnare alla puntuale organizzazione dello studio legale dell’avv. Pi.Lu. e al fatto che sarebbe sempre stata rispettata l’adottata “regola di depositare gli atti” tempestivamente non connota di decisività la prova capitolata. Le circostanze oggetto della stessa non hanno, infatti, trovato reale riscontro nella vicenda in esame, poiché il tardivo deposito dell’atto di appello, e con esso l’inadempimento del professionista, si è effettivamente venuto a determinare.

Tardiva proposizione da parte dell’avvocato di un appello

Conclusioni

10. – Vanno, dunque, accolti per quanto di ragione il quarto e il quinto motivo del ricorso principale, che è da rigettare nel resto; va, altresì, rigettato il ricorso incidentale.

La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione ai motivi accolti del ricorso principale e la causa rinviata alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il quarto e quinto motivo del ricorso principale nei termini di cui in motivazione e rigetta i restanti motivi del medesimo ricorso;

rigetta il ricorso incidentale;

cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.

Così deciso in Roma il 28 giugno 2024.

Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2024.

Tardiva proposizione da parte dell’avvocato di un appello

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