Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|18 marzo 2024| n. 7171.
La nozione di illecito endofamiliare
La nozione di illecito endofamiliare si riferisce a tutte le violazioni di doveri che si verificano all’interno del nucleo familiare, compiute da un membro nei confronti di uno o più parti della medesima compagine. Gli obblighi genitoriali si fondano sullo status di genitore, che sorge al momento della nascita del figlio, tant’è che è attribuito effetto retroattivo al riconoscimento o all’accertamento giudiziale della paternità o della maternità. La violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole non trova sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, potendo integrare gli estremi dell’illecito civile, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, in primis l’art. 30 Cost.. Alla luce di ciò, si dà luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c., esercitabile anche nell’ambito dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità ed anche per il periodo anteriore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, proprio perché in capo al figlio sorge, sin dalla nascita, il diritto ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori.
Ordinanza|18 marzo 2024| n. 7171. La nozione di illecito endofamiliare
Data udienza 6 ottobre 2023
Integrale
Tag/parola chiave: Filiazione – Accertamento di paternità di figlio maggiorenne – IIncapacità a testimoniare ex art. 246 cpc – Nozione – Incapacità della madre – Esclusione – Intervento adesivo dipendente della madre – Ammissibilità – Illecito endofamigliare – Nozione – Mancato assolvimento ai prorpi doveri consapevolmente o ingorando per colpa la filiazione – Presunzioni – Ammissibilità – Ordiannza della Corte di Cassazione – Sez. prima n. 22496/2021
REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere
Dott. REGGIANI Eleonora – Consigliere-Rel.
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso n. 25427/2022
promosso da
Gi.Pa., elettivamente domiciliata in (…), presso lo studio dell’avv. Ne. Pi., che la rappresenta e difende in virtù di procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Gi.Ro., elettivamente domiciliato in (…) presso lo studio dell’Avv. B. Pa., che lo rappresenta e lo difende in virtù di procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Firenze n. 1707/2022, pubblicata il 10 agosto 2022, notificata il 30 agosto 2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 6 ottobre 2023 dal Consigliere Reggiani Eleonora;
letti gli atti del procedimento in epigrafe;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Gi.Pa. citava in giudizio Gi.Ro. chiedendo la corresponsione di un assegno di mantenimento, in ragione delle proprie condizioni economiche, e il risarcimento del danno biologico ed esistenziale derivante dalla deprivazione del rapporto genitoriale. Deduceva di essere nata il 15 giugno 1987, in costanza di matrimonio tra Di.Le. e Na.An., e di aver creduto – fino alla maggiore età – di essere figlia del marito della madre per poi scoprire, il 23 agosto 2005, presso la Caserma dei Carabinieri, ove era finita a causa di una fuga dalla casa di residenza, in concomitanza con la separazione dei propri genitori, di essere in realtà figlia di Gi.Ro., all’epoca datore di lavoro della genitrice e di colui che credeva essere il padre, il quale aveva intrattenuto con la madre una relazione extraconiugale clandestina: una paternità che, in quell’occasione, le era stata dichiarata dallo stesso genitore naturale. Tale rivelazione aveva causato nell’odierna appellata una situazione di permanente disagio, di dolore e di risentimento nei confronti di tutti i soggetti coinvolti, aggravata dal fatto che nel 2006, in concomitanza della separazione personale dei genitori legittimi, il Di.Le. aveva proposto dinanzi al Tribunale di Siena un’azione di disconoscimento della paternità, revocandole – in esito – il proprio cognome, tanto che Ella aveva assunto un diverso cognome: quello di Pa.Ve.
A seguito di ciò, Ella aveva fatto ricorso al Tribunale di Siena per ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità, chiedendo l’accertamento della filiazione e la condanna di Gi.Ro. al pagamento di un cospicuo assegno di mantenimento mensile, ovvero la somma una tantum di Euro 100.000,00, oltre al risarcimento dei danni morale, biologico ed esistenziale. La giovane donna aggiungeva di essere stata indotta a rinunciare a tale azione giudiziale, poiché colpita dall’affettuosa e costante presenza dei genitori naturali, confidando nella promessa che il riconoscimento da parte del Gi.Ro. sarebbe avvenuto entro breve tempo, insieme all’impegno di provvedere al suo mantenimento e di instaurare con lei un sereno legame affettivo. Sempre secondo la prospettazione offerta dalla ricorrente, il Gi.Ro. però non aveva mai adeguatamente provveduto al suo mantenimento e aveva operato il suo riconoscimento soltanto nell’anno 2012, anno in cui aveva finalmente assunto il cognome Gi., senza, tuttavia, instaurare con lui un vero e proprio rapporto figlio-genitore.
Pertanto, con atto notificato in data 21 dicembre 2013, Gi.Pa. citava in giudizio Gi.Ro. davanti al Tribunale di Siena, per sentirlo condannare al pagamento in suo favore della somma una tantum di Euro 200.000,00 (o della somma maggiore o minore di giustizia), a titolo di mantenimento per il periodo di 25 anni intercorso tra la nascita e il riconoscimento avvenuto nell’anno 2012, e al pagamento di un assegno mensile, a far data dal riconoscimento (febbraio 2012) fino al raggiungimento dell’indipendenza economica, da liquidarsi nella misura di Euro 1.000,00 (ovvero nella misura maggiore o minore ritenuta di giustizia), oltre al risarcimento del danno biologico ed esistenziale. In ogni caso con gli interessi legali e la rivalutazione monetaria e con vittoria di spese e compensi professionali.
Si costituiva in giudizio Gi.Ro., il quale contestava in fatto ed in diritto le deduzioni di parte attrice, chiedendo il rigetto di tutte le domande. Deduceva di non aver comunicato la propria paternità presso la stazione dei Carabinieri quel giorno di agosto 2005, ma – al contrario – di averlo appreso anch’egli in quella circostanza dalla madre di Gi.Pa., Na.An., rimanendo profondamente scosso, poiché non aveva mai sospettato niente di tutto ciò, spiegando che si era trovato lì in quanto chiamato dalla Na.An., quale precedente intimo conoscente e attuale datore di lavoro della stessa, in un momento di difficoltà familiare correlato alla separazione dal marito e alla fuga della figlia da casa. In ogni caso, egli da allora aveva iniziato a frequentare la figlia e il loro rapporto si era, nel tempo, sempre più intensificato. Inoltre, nell’anno 2012 entrambe le parti si erano sottoposte al test del DNA, da cui era emerso ufficialmente il rapporto di parentela e a seguito del quale il Gi.Ro. aveva formalizzato il riconoscimento della figlia, attribuendole il proprio cognome. A seguito di questi eventi, deduceva di aver inspiegabilmente ricevuto l’atto introduttivo del giudizio de quo, nonostante avesse regolarmente incontrato la figlia nei giorni precedenti, senza aver percepito alcuna ostilità da parte sua.
Rigettata la richiesta di adozione di un provvedimento cautelare in corso di causa, il giudizio veniva istruito attraverso produzioni documentali ed espletamento di prove orali.
Con sentenza n. 205/2019, il Tribunale di Siena condannava Gi.Ro. al risarcimento del danno in favore di Gi.Pa., liquidato in Euro 260.000,00, oltre interessi e rivalutazione dal dovuto (15/06/87) al saldo effettivo, con vittoria di spese di quest’ultima.
Osservava il Tribunale che era stata raggiunta la prova della circostanza che Gi.Ro. sapesse di essere il padre di Gi.Pa. fin dalla nascita. Tale assunto risultava provato sia dal fatto che egli era presente davanti ai Carabinieri di Colle Val d’Elsa in data 23 agosto 2005, circostanza da lui mai smentita ed implicante che fosse a conoscenza della sua paternità, sia dalle numerose testimonianze escusse durante il giudizio. Inoltre, il Tribunale osservava che, sebbene a conoscenza della situazione, il padre avesse lasciato vivere un’infanzia infelice alla figlia, poiché, nonostante ella avesse creduto per lungo tempo di essere figlia del Di.Le., la sua vita era stata difficile per via dei continui litigi fra i genitori, che le avevano causato un vuoto emotivo e perciò anche resa insicura, timida e piena di rancore. Aggiungeva il Tribunale che il comportamento del Gi.Ro.: aveva creato un danno alla stessa identità personale di parte attrice, per averla fatta vivere nella falsa convinzione di avere un padre che tale non era; aveva comportato una lesione ai diritti fondamentali della sua persona in riferimento alla genitorialità celata dolosamente dal padre naturale; imponeva una condanna in via equitativa nella misura come sopra determinata. Nulla decideva in ordine al mantenimento.
Avverso la decisione di primo grado proponeva appello Gi.Ro., il quale con separati motivi lamentava: 1) vizio di motivazione, in relazione alla ritenuta prova della conoscenza da parte di Gi.Ro. dello stato di filiazione sin dalla nascita e travisamento della prova; 2) vizio di motivazione-erronea valutazione del fatto, in merito alla sussistenza di una carenza genitoriale e del danno endofamiliare; 3) violazione di legge con riferimento all’art. 92 c.p.c.
Si costituiva l’appellata Gi.Pa., la quale resisteva al gravame principale e proponeva a sua volta appello incidentale per l’accertamento e la liquidazione del proprio diritto al mantenimento ex artt. 74, 147, 315 bis e 316 bis c.c. retroattivamente, dal giorno della nascita e del diritto agli alimenti ex art. 433, 438 e 441 c.c. per il tempo in cui si era trovata in stato di bisogno.
Sospesa solo in parte l’efficacia esecutiva della sentenza impugnata (per ogni somma ulteriore alla soglia omnicomprensiva di Euro 80.000,00), senza ulteriore istruttoria veniva trattenuta la causa in decisione.
Con la sentenza in questa sede impugnata, la Corte d’appello, in riforma della sentenza di primo grado, statuiva come segue: “… 1) accoglie parzialmente l’appello principale e, per l’effetto, respinge la domanda proposta da Gi.Pa. nei confronti di Gi.Ro. di risarcimento del danno endofamiliare; 2) accoglie parzialmente l’appello incidentale e, per l’effetto, dichiara tenuto e condanna Gi.Ro. al pagamento in favore di Gi.Pa., a titolo di prestazione di obbligazione alimentare in suo favore, della somma di Euro 36.300,00= in linea capitale, oltre interessi nella misura legale dalla domanda all’effettivo soddisfo; 3) compensa integralmente tra le Parti le spese di lite del doppio grado di giudizio …”
In particolare, la Corte di merito riteneva fondato il primo motivo di gravame, rilevando che l’onere della prova, relativo alla conoscenza da parte del Gi.Ro. della sua paternità naturale, in quanto fatto costitutivo del diritto al risarcimento fatto valere in giudizio dalla figlia, gravava su quest’ultima e non era stato adeguatamente assolto. Le testimonianze assunte, difatti, si rivelavano per lo più generiche in quanto non ancorate a elementi fattuali specifici, oltre ad essere quella della madre, Na.An., certamente inammissibile ex art. 246 c.p.c., come da eccezione tempestivamente sollevata dal convenuto in primo grado già al momento dell’indicazione del teste da controparte e reiterata all’udienza di escussione della medesima, tenuto conto dell’interesse personale – attuale e concreto – della teste Na.An., in quanto madre dell’odierna appellata e coobbligata in riferimento alle domande tutte proposte dalla medesima figlia, non fosse altro in quanto – lei certamente sì – era a conoscenza fin dalla nascita di Gi.Pa. di chi fosse il vero padre della medesima, circostanza che sola avrebbe legittimato una sua partecipazione al giudizio. Quanto alle altre testimonianze, la Corte di merito ne evidenziava la genericità e vaghezza, riportandone il contenuto.
La Corte d’appello riteneva, quindi, fondato anche il secondo motivo di gravame, con il quale era stato censurato l’accoglimento della domanda risarcitoria formulata da Gi.Pa., poiché l’illecito endofamiliare, attribuito al padre per avere generato ma non riconosciuto la figlia, presupponeva la consapevolezza della procreazione che, pur non identificandosi con la certezza assoluta, derivante esclusivamente dalla prova ematologica, richiedeva comunque la maturata conoscenza dell’avvenuta procreazione, non evincibile in via automatica dal fatto storico della sola consumazione di rapporti sessuali non protetti con la madre, ma anche da altri elementi rilevanti, che nella specie non erano stati provati.
Sull’impugnazione incidentale, la stessa Corte riteneva che – pur non essendo dimostrato che Gi.Ro. fosse a conoscenza della sua paternità fin dalla nascita della figlia – era, tuttavia, da individuarsi nella data del 23 agosto 2005 il momento in cui le parti erano concordi nel considerare avviate le frequentazioni fra padre e figlia. La Corte ha, dunque, ritenuto di dover escludere ogni richiesta relativa a periodi antecedenti al mese di agosto 2005, poiché, oltre alla provata ignoranza dei fatti da parte del Gi.Ro., la figlia era stata mantenuta e cresciuta in costanza di matrimonio dal padre legittimo e dalla madre, fino al momento del disconoscimento, avvenuto nell’anno 2007 con la sentenza, poi, passata in giudicato. Pertanto, fino a quel momento, non vi era alcuna obbligazione di mantenimento nei confronti della figlia da parte dell’appellante. Per il periodo successivo, la stessa Corte ha, invece, rilevato che Gi.Pa. non era mai stata impiegata in occupazioni lavorative tali da consentirle un adeguato mantenimento di sé stessa e della propria famiglia, avendo trovato una stabile occupazione lavorativa soltanto nel mese di dicembre 2017, mentre prima aveva svolto mestieri saltuari, da cui derivavano insufficienti entrate, pur avendo avuto due figli (Gi.Gu., nato nel 2007, e Gi.Br., nato nel 2013), dei quali il più piccolo con iniziali problemi di salute e con irregolare mantenimento da parte dei rispettivi padri.
In tale quadro, la Corte d’appello ha accolto l’impugnazione di Gi.Pa., riconoscendo la sussistenza di obblighi alimentari del padre per lo stato di bisogno in cui la predetta si era trovata, dal dicembre 2007 (dopo il disconoscimento del marito della madre) al dicembre 2017 (mese in cui la donna aveva reperito un’occupazione), liquidando l’importo come sopra determinato.
Quanto alle spese di lite, tenuto conto dell’esito complessivo della lite, con la reciproca soccombenza, la Corte ha ritenuto sussistenti i presupposti per la compensazione.
Avverso tale statuizione Gi.Pa. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.
L’intimato si è difeso con controricorso.
La ricorrente ha depositato memoria difensiva.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 246 c.p.c., nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto la madre della ricorrente incapace a testimoniare.
Con il secondo motivo di ricorso è lamentato l’omesso esame, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., del pregiudizio subito dalla ricorrente a causa del comportamento tenuto dal padre in epoca successiva al 23 agosto 2005.
Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione degli artt. 30 Cost. 147, 148, 316 bis C.C. per avere la Corte d’appello negato il diritto filiale al mantenimento nei confronti del proprio padre nel tempo antecedente al disconoscimento da parte del padre putativo, perché: 1) ha dato rilievo alla ritenuta assenza di consapevolezza della paternità da parte del Gi.Ro., mentre, invece, l’obbligo di mantenimento prescinde da tale accertamento (richiesto invece per la sussistenza dell’illecito endofamiliare); 2) l’adempimento da parte del padre putativo dell’obbligo non esonera il padre effettivo dall’assolvimento dei suoi doveri; 3) il primo aveva comunque cessato di mantenere (ed anche di avere rapporti con la giovane Gi.Pa.) già prima dell’adozione della sentenza di disconoscimento a seguito dell’evento di agosto 2005 sopra ricordato.
Con il quarto motivo di ricorso è censurata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5, comma 7, L. n. 898 del 1970, in relazione all’art. 3 Cost., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per avere l’a Corte d’appello liquidato gli importi riconosciuti a titolo di mantenimento senza prevedere la rivalutazione in base all’indice ISTAT.
2. Il primo motivo di ricorso è fondato.
2.1. Com’è noto, l’interesse a partecipare al giudizio previsto come causa d’incapacità a testimoniare dall’art. 246 c.p.c. si identifica con l’interesse a proporre la domanda e a contraddirvi ex art. 100 dello stesso codice, sicché deve ritenersi colpito da detta incapacità chi potrebbe, o avrebbe potuto, essere chiamato dall’attore, in linea alternativa o solidale, quale soggetto passivo della stessa pretesa fatta valere contro il convenuto originario, nonché il soggetto da cui il convenuto originario potrebbe, o avrebbe potuto, pretendere di essere garantito (v. in generale Cass., Sez. 3, Sentenza n. 10382 del 17/07/2002; cfr. Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 13501 del 29/04/2022, con riferimento alla testimonianza di uno dei conducenti coinvolti nel sinistro stradale oggetto di giudizio).
In effetti, l’incapacità prevista dall’art 246 c.p.c. si verifica quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto controverso, alla stregua dell’interesse ad agire e a contraddire di cui all’art. 100 c.p.c., sì da legittimarlo a partecipare al giudizio in cui è richiesta la sua testimonianza, con riferimento alla materia che ivi è in discussione.
Non ha, invece, rilevanza l’interesse di fatto a un determinato esito del giudizio stesso – salva la considerazione che di ciò il giudice è tenuto a fare nella valutazione dell’attendibilità del teste – né un interesse, riferito ad azioni ipotetiche, diverse da quelle oggetto dell’attuale controversia, proponibili dal teste medesimo o contro di lui, a meno che il loro collegamento con la materia controversa non determini già attualmente un titolo di legittimazione alla partecipazione al giudizio (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 805 del 20/02/1978; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 9353 del 08/06/2012; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 14987 del 07/09/2012; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 167 del 05/01/2018).
In tale ottica, ad esempio, il condebitore solidale è da ritenersi incapace a deporre nel giudizio intrapreso dai creditori contro gli altri debitori in solido, avendo un interesse giuridico che lo legittimerebbe a partecipare al giudizio, sebbene detti creditori non lo abbiano evocato in causa (Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 8832 del 29/03/2023 e Cass. Sez. 3, Sentenza n. 314 del 26/02/1965), ma tale incapacità cessa in caso di rinuncia alla solidarietà, disciplinata dall’art. 1311 c.c. (v. ancora Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 8832 del 29/03/2023).
2.2. Proprio in tema di dichiarazione giudiziale della paternità naturale, e con riferimento all’ipotesi in cui l’azione sia esperita dal figlio oramai maggiorenne, questa Corte ha più volte affermato che non può configurarsi un interesse principale ad agire della madre naturale, ai sensi dell’art. 276, ultimo comma, c.c., potendo semmai essa svolgere un intervento adesivo dipendente, allorché sia ravvisabile un suo interesse di fatto tutelabile in giudizio. In ogni caso, alla stregua della disciplina normativa della legittimazione ad agire in tale giudizio, contenuta nell’art. 276 c.c., correlata all’interpretazione dell’art. 269, comma 2 e 4, c.c., questa stessa Corte ha precisato che le dichiarazioni della madre naturale assumono un rilievo probatorio integrativo ex art. 116 c.p.c., quale elemento di fatto di cui non si può omettere l’apprezzamento ai fini della decisione, indipendentemente dalla qualità di parte o dalla formale posizione di terzietà della dichiarante, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 246 c.p.c. (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 12198 del 17/07/2012; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 6025 del 25/03/2015).
Le pronunce appena richiamate rilevano nel presente giudizio nella parte in cui fanno emergere come, nel giudizio relativo all’accertamento della paternità del figlio maggiorenne, la madre non è, in sé, portatrice di un interesse alla partecipazione al processo, potendo semmai far valere un eventuale interesse di fatto a farvi ingresso, con un intervento adesivo dipendente (v. anche in motivazione Cass., Sez. 1, Sentenza n. 34950 del 28/11/2022). L’accertamento del rapporto di filiazione, in sintesi, attiene solo al genitore e al figlio, senza coinvolgere neppure l’altro genitore.
E, in effetti, nella specie, la ricorrente ha prospettato di aver subito un danno non patrimoniale in conseguenza del tardivo riconoscimento del padre, pur consapevole della paternità, chiedendo a quest’ultimo la corresponsione del contributo al mantenimento, non prestato fino al riconoscimento, e il contributo al mantenimento dovuto per il tempo successivo, fino al raggiungimento dell’indipendenza economica.
La stessa non ha dedotto di avere subito un pregiudizio dalla violazione degli obblighi morali e materiali gravanti su entrambi i genitori, ma solo dal padre, così come pure ha dedotto che è stato solo il padre a non aver provveduto al suo mantenimento.
2.3. Com’è noto, la nozione di illecito endofamiliare si riferisce a tutte le violazioni di doveri che si verificano all’interno del nucleo familiare, perpetrate da un membro nei confronti di uno o più altri facenti parte della medesima compagine.
Oramai da tempo è stata aperta la strada alla risarcibilità del danno cagionato dalla violazione degli obblighi derivanti dal rapporto di coniugio o da quello di filiazione, secondo uno schema principalmente ricondotto a quello della responsabilità aquiliana ex artt. 2043 e 2059 c.c., anche se non mancano ricostruzioni che inquadrano tali condotte nell’ambito della responsabilità contrattuale (in ragione della presenza di una disciplina ex lege di diritti e doveri in seno a rapporti giuridicamente rilevanti).
Con particolare riferimento ai doveri dei genitori nei confronti dei figli, è sufficiente richiamare il disposto dell’art. 30 Cost. e i previgenti artt. 147 e 148 c.c. (per i figli nati in costanza di matrimonio), oltre che l’art. 261 c.c. (per i figli nati fuori del matrimonio), ora sostituiti dall’art. 315 bis c.c. (introdotto dall’art. 1 l. n. 219 del 2012).
Gli obblighi genitoriali trovano ragione giustificatrice nello status di genitore, la cui efficacia è datata appunto al momento della nascita del figlio, tant’è che è attribuito effetto retroattivo al riconoscimento o all’accertamento giudiziale della paternità o della maternità (così Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 15148 del 12/05/2022; nello stesso senso, Cass., Sez. 1, Sentenza n. 26205 del 22/11/2013 e Cass., Sez. 1, Sentenza n. 5652 del 10/04/2012).
In tale ottica, questa Corte ha ritenuto più volte che, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore, con disinteresse protratto nel tempo del genitore nei confronti del figlio, la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole non trova sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, potendo integrare gli estremi dell’illecito civile, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, in primis l’art. 30 Cost., così dandosi luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c. esercitabile anche nell’ambito dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità ed anche per il periodo anteriore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, proprio perché sorge, sin dalla nascita, il diritto del figlio ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori (così Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 15148 del 12/05/2022; nello stesso senso, Cass., Sez. 1, Sentenza n. 26205 del 22/11/2013 e Cass., Sez. 1, Sentenza n. 5652 del 10/04/2012).
Ovviamente – come di recente precisato da Cass., Sez. 1, Sentenza n. 34950 del 28/11/2022 – ai fini del risarcimento del danno subito dal figlio, in conseguenza dell’abbandono da parte di uno dei genitori, occorre che quest’ultimo non abbia assolto ai propri doveri consapevolmente e intenzionalmente, o anche solo ignorando per colpa l’esistenza del rapporto di filiazione, aggiungendo che la prova di ciò può desumersi da presunzioni gravi, precise e concordanti, ricavate dal complesso degli indizi, da valutarsi, non atomisticamente, ma nel loro insieme e l’uno per mezzo degli altri, nel senso che ognuno di essi, quand’anche singolarmente sfornito di valenza indiziaria, può rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento (nella specie, la S.C. ha cassato la decisione che aveva escluso l’elemento soggettivo della menzionata responsabilità, limitandosi a negare l’esistenza di sufficienti indizi circa la conseguita consapevolezza da parte del padre della propria paternità subito dopo la nascita del figlio, sulla base della ritenuta inattendibilità della testimonianza della madre, non adeguatamente motivata e senza valutare plurimi elementi indiziari, quali la certezza di un rapporto sessuale non protetto avvenuto tra i genitori in epoca compatibile con il concepimento, la vicinanza tra le abitazioni di questi ultimi, situate in un piccolo paese, e la continuazione della frequentazione del ristorante paterno da parte della madre anche durante la gravidanza).
La decisione appena ricordata si pone in continuità con Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 22496 del 9 agosto 2021, la quale aveva già ritenuto che l’illecito endofamiliare, attribuito al padre che aveva generato ma non riconosciuto il figlio, presuppone la consapevolezza della procreazione che, pur non identificandosi con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, richiede comunque la maturata conoscenza dell’avvenuta procreazione, non evincibile tuttavia in via automatica dal fatto storico della sola consumazione di rapporti sessuali non protetti con la madre, ma anche da altri elementi rilevanti, specificatamente allegati e provati da chi agisce in giudizio.
2.3. In tale quadro, la valutazione in ordine alla capacità a testimoniare della madre, nel giudizio volto all’accertamento del regiudizio prospettato come conseguente al consapevole tardivo riconoscimento da parte del padre della ricorrente, avrebbe dovuto tenere conto dei principi appena enunciati, con particolare riferimento alla verifica della posizione della teste in relazione alla materia del contendere, riferita alla domanda in concreto formulata, e non a un ipotetico esperimento di analoga domanda nei confronti della donna, poiché oggetto del giudizio è soltanto la violazione degli obblighi morali e materiali derivanti dalla filiazione, riferiti esclusivamente al rapporto tra padre e figlia.
2.4. In conclusione, il primo motivo di ricorso deve essere accolto in applicazione del seguente principio:
“In tema di incapacità a testimoniare nel processo civile, tale incapacità sussiste quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto controverso, alla stregua dell’interesse ad agire e a contraddire di cui all’art. 100 c.p.c., con riferimento alla domanda in concreto formulata, e non ad un ipotetica analoga domanda esperibile, sicché nel giudizio volto all’accertamento del pregiudizio lamentato dal figlio, oramai maggiorenne, conseguente al consapevole tardivo riconoscimento della paternità da parte del padre biologico, va esclusa l’incapacità a testimoniare dalla madre, ove oggetto del giudizio sia la violazione degli obblighi morali e materiali derivanti dalla filiazione, riferiti esclusivamente al rapporto tra padre e figlio”.
3. L’accoglimento del primo motivo di ricorso rende superfluo l’esame di tutti gli altri, che devono ritenersi assorbiti.
4. In conclusione, accolto il primo motivo di ricorso e dichiarati assorbiti gli altri, deve essere cassata la decisione impugnata con rinvio della causa alla Corte di appello di Firenze anche per la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.
5. In caso di diffusione, devono essere omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati nella decisione, a norma dell’art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003.
P.Q.M.
La Corte,
accoglie il primo motivo di ricorso e, dichiarati assorbiti gli altri, cassa la decisione impugnata nei limiti della censura accolta, con rinvio della causa alla Corte di appello di Firenze, anche per il governo delle spese del giudizio di legittimità.
Dispone che, in caso di diffusione della presente decisione, siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati, a norma dell’art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile della Corte suprema di Cassazione, il 6 ottobre 2023.
Depositata in Cancelleria il 18 marzo 2024.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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