La consulenza tecnica di natura contabile e l’attenuazione del sistema basato sulle preclusioni istruttorie

Corte di Cassazione, civile, Sentenza|17 gennaio 2024| n. 1763.

La consulenza tecnica di natura contabile e l’attenuazione del sistema basato sulle preclusioni istruttorie

Nella consulenza tecnica di natura contabile, l’attenuazione del sistema basato sulle preclusioni istruttorie, al fine di non violare il principio dispositivo e il principio del contraddittorio, può avvenire, ai sensi dell’art. 198, comma 2, c.p.c., unicamente con il consenso delle parti, che ha valore condizionante rispetto all’esame dei documenti non prodotti in precedenza, i quali possono, tuttavia, anche essere riferibili alla prova dei fatti principali del giudizio.

Sentenza|17 gennaio 2024| n. 1763. La consulenza tecnica di natura contabile e l’attenuazione del sistema basato sulle preclusioni istruttorie

Data udienza 11 gennaio 2024

Integrale

Tag/parola chiave: Prova civile – Consulenza tecnica – Esame contabile consulenza contabile – Preclusioni processuali – Attenuazione – Consenso della parei – Necessità – Documenti relativi a fatti principali – Ammissibilità.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

PRIMA SEZIONE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati

Dott. DI MARZIO Mauro – Presidente

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere

Dott.ssa PERRINO Angelina Maria – Consigliere

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere – rel.

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

sul ricorso n. 19367/2018 r.g. proposto da:

(…) S.P.A., con sede in S, alla (…), in persona del procuratore speciale dott. Armando Avallone, rappresentata e difesa, giusta procura speciale allegata al ricorso, dall’Avvocato Eu. Mo., con cui elettivamente domicilia in N, alla via (…), presso lo Studio Legale Associato Mo.

– ricorrente –

contro

(…) S.R.L. – (…) IN LIQUIDAZIONE, con sede in Napoli, alla via (…), in persona del liquidatore ing. Ra.dA., nonché quest’ultimo in proprio e Co.Ma., tutti rappresentati e difesi, giusta procura speciale conferita con atto per Notar Gi. Gr. di Napoli il 13 ottobre 2022, dall’Avvocato Pa. Br. Go., con cui elettivamente domiciliano in Roma, al (…), presso lo studio dell’Avvocato Gi. Ca.

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

Br.Gu. + Altri Omessi.

– intimati –

avverso la sentenza non definitiva, n. cron. 4571/2016, della CORTE DI APPELLO DI NAPOLI, pubblicata il giorno 28/12/2016, e la sentenza definitiva, n. cron. 5190/2017, della medesima corte di appello, pubblicata il giorno 20/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 11/01/2024 dal Consigliere dott. Eduardo Campese;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Stanislao De Matteis, che ha concluso chiedendo il rigetto sia del ricorso principale che di quello incidentale;

sentito, per la ricorrente, l’Avv. E. Mo., che ha chiesto accogliersi il proprio ricorso;

lette la memoria ex art. 378 cod. proc. civ. della parte ricorrente.

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FATTI DI CAUSA

1. (…) s.r.l.(…) in liquidazione (d’ora in avanti anche, breviter, (…)) ed i suoi garanti, Ra.Da., Co.Ma., Br.Gu. e De.Si. citarono (…) s.p.a. (per il prosieguo anche, più semplicemente, (…) o banca) innanzi al Tribunale di Napoli e, deducendo la nullità di alcune clausole negoziali contenute nei contratti di conto corrente intrattenuti con essa (concernenti la determinazione dell’interesse ultralegale mediante rinvio ad “uso piazza”, l’applicazione delle commissioni di massimo scoperto, la capitalizzazione trimestrale degli interessi, le modalità di tenuta del conto in riferimento ai giorni di valuta, la determinazione del tasso annuo effettivo globale con riferimento alle legge sull’usura), chiesero accertarsi l’esatta quantificazione del rapporto di dare-avere in base ai risultati del ricalcolo eseguire a mezzo consulenza tecnico-contabile e, per l’effetto, condannarsi la banca alla restituzione delle somme illegittimamente addebitate e/o riscosse, oltre agli interessi legali creditori, nonché al risarcimento dei danni, da determinarsi in via equitativa, anche in relazione all’illegittima segnalazione alla Centrale rischi presso la Banca d’Italia sul presupposto di una falsa determinazione del rischio di sofferenza.

1.1. Si costituì (…), resistendo alle avverse pretese e proponendo domanda riconvenzionale volta ad ottenere la condanna di controparte al pagamento, in suo favore, della somma di Euro 93.297,43, portata dall’estratto conto certificato ex art. 50 del D.Lgs. n. 385 del 1993 (Testo Unico in materia bancaria), o di quella minore per cui fosse stata raggiunta la prova.

1.2. L’adito tribunale, con sentenza del 16 marzo 2011, n. 3104, accolse parzialmente la domanda degli attori ed accertò che, alla data del 30 giugno 2002, il saldo dei rapporti di conto corrente intrattenuti dalla (…) s.r.l. con la convenuta, all’esito della rideterminazione derivante dalla dichiarazione di nullità delle suddette clausole contrattuali, presentava un ammontare a debito della cliente ed a credito della banca pari ad Euro 7.034,18, somma al cui pagamento condannò, in solido tra loro, la menzionata società ed i suoi fideiussori.

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2. La Corte di appello di Napoli, pronunciandosi sui gravami, principale ed incidentale, promossi, contro quella decisione, rispettivamente, dagli originari attori e da (…), con sentenza non definitiva del 28 dicembre 2016, n. 4571, respinse l’appello principale relativamente alla dedotta nullità dei contratti di conto corrente per vizio di forma degli stessi ed all’invocato ristoro risarcitorio dei danni non patrimoniali, rigettando, peraltro (e senza pratiche conseguenze sulla decisione), in accoglimento del medesimo appello, l’eccezione di prescrizione decennale. Accolse, invece, l’impugnazione incidentale della banca, stabilendo che gli unici documenti ritualmente entrati nel processo e da porre a base della c.t.u. erano quelli prodotti dalla (…) s.r.l. entro il termine per le memorie istruttorie in primo grado, con esclusione, pertanto, della documentazione consegnata direttamente al consulente tecnico. Rimise, dunque, con separata ordinanza, la causa sul ruolo per l’ulteriore ricalcolo del rapporto di dare/avere relativo ai conti correnti intrattenuti tra le parti, all’esito del quale, con sentenza definitiva del 20 dicembre 2017, n. 5190, così dispose: “a) in parziale accoglimento dell’appello proposto dalla (…) s.r.l., in riforma della sentenza impugnata e in accoglimento, per quanto di ragione, della domanda avanzata in prima istanza dalla medesima, determinato, a seguito di ricostruzione dei rapporti intrattenuto tra la (…) s.r.l. e la (…) s.p.a., il saldo in favore della società appellante principale in euro, 17.054,43, per l’effetto, condanna la società appellata al pagamento, in favore della (…), della su indicata somma, oltre interessi al tasso legale dalla domanda; b) rigetta l’appello incidentale di (…), conseguentemente rigettando la domanda riconvenzionale da questa proposta; c) condanna la convenuta/appellata (…) a rifondere le spese del giudizio in favore degli attori/appellanti che, compensate per i due terzi, liquida: c1) in relazione al primo grado, in euro 150,00 per spese, cui si aggiungono quelle di c.t.u., se da questi ultimi anticipate, euro 1. 123,33 per diritti ed euro 2.000 per onorario, oltre rimborso spese generali, iva e c.p.a.; c2) in relazione al grado di appello, in euro 550,00 per spese ed Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre alle spese generali in misura del 15%, i.v.a. e c.p.a., restando a carico della banca quelle di c.t.u. del grado di appello e da restituire agli appellanti, se da questi anticipate”.

2.1. La corte partenopea, nella sentenza non definitiva n. 4571/2016, ha ritenuto – per quanto qui ancora rileva – che: i) circa le doglianze articolate dagli appellanti principali in ordine all’irritualità nell’acquisizione della documentazione bancaria nel corso dell’espletamento della c.t.u., quest’ultima non poteva costituire la sede per aggirare le decadenze in cui le parti erano incorse, rientrando nei poteri-doveri del consulente soltanto l’acquisizione della documentazione, essenzialmente di carattere tecnico, di natura accessoria, utile al fine di fornire compiuta risposta ai quesiti sottopostigli dal giudice istruttore; II) in materia di consulenza contabile, occorreva anche tener conto di quanto previsto dall’art. 198 cod. proc. civ., secondo il quale il consulente, con il consenso di tutte le parti, può esaminare anche documenti non prodotti in causa; III) la giurisprudenza di legittimità aveva comunque fornito un’interpretazione restrittiva di questa disposizione, ad evitare di trasformare quelli previsti dall’art. 183 cod. proc. civ. in termini puramente “canzonatori”; IV) pertanto, seguendo l’orientamento della giurisprudenza predetta, occorreva escludere l’ammissibilità della produzione tardiva di prove documentali concernenti fatti e situazioni poste direttamente a fondamento della domanda e delle eccezioni di merito, essendo al riguardo irrilevante il consenso della controparte, atteso che, ai sensi dell’art. 198 cod. proc. civ., quest’ultimo può essere espresso solo con riferimento all’esame di documenti accessori, cioè utili a consentire una risposta più esauriente ed approfondita al quesito posto dal giudice; v) a prescindere, dunque, dal valore attribuibile al silenzio (più che consenso) serbato dal consulente di parte convenuta in occasione della richiesta e produzione documentale da parte del consulente tecnico di parte attrice, occorreva riconoscere la fondatezza del gravame incidentale avanzato dalla banca e, quindi, affermarsi che quei documenti, pure esaminati dal consulente, non erano entrati ritualmente nel processo e di essi, conseguentemente, non poteva tenersi conto; vi) in relazione, poi, alla determinazione del riparto degli oneri probatori relativi alla produzione integrale degli estratti, secondo i principi ormai consolidati in giurisprudenza, se ad agire per il pagamento dei saldi del conto corrente era la banca, doveva ritenersi quest’ultima ad essere gravata dell’onere di dimostrare come si fosse addivenuti alla formazione del saldo, mediante la produzione in giudizio di tutti gli estratti conto, a partire dalla prima annotazione successiva al saldo zero iniziale, con la conseguenza che, qualora la banca non disponesse di (ovvero non depositasse) tutti gli estratti conto, ma solo una parte di essi – che prendevano le mosse già da un saldo negativo per il cliente – non poteva dirsi provato il formarsi di quel primo saldo negativo, e, a fronte delle contestazioni del correntista circa la validità di singole clausole (come, nel caso, quelle riguardanti la capitalizzazione trimestrale degli interessi ovvero la loro misura), la ricostruzione doveva avvenire azzerando quella prima annotazione e ricostruendo il rapporto come se fosse iniziato in quella data partendo da zero.

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Ove, invece, era il correntista ad agire per la ripetizione di somme a suo dire indebitamente percette dalla banca in costanza di rapporto, previa la rideterminazione del saldo sulla scorta dell’invocata nullità di talune clausole contrattuali che avevano a quel saldo condotto, l’onere probatorio – consistente egualmente nella produzione degli estratti – non poteva che gravare, in ossequio ai principi dettati dall’art. 2697 cod. civ., sul correntista stesso, sicché, qualora gli estratti erano prodotti a far data da un certo momento del rapporto, in cui vi erano appostazioni negative, in mancanza di diversa prova, occorreva prendere a riferimento, ai fini dell’effettuazione della c.t.u., proprio quel saldo; vii) la situazione si complicava nell’ipotesi – come quella in esame – in cui, a fronte dell’azione del correntista, volta alla rideterminazione del saldo ed alla ripetizione di somme indebitamente pagate, la banca rispondeva chiedendo, in via riconvenzionale, la condanna del cliente e dei suoi fideiussori al pagamento del saldo; VIII) occorreva applicare, pertanto, in tale ultimo caso, il principio, già ripetutamente affermato dalla stessa corte partenopea, secondo cui, stante l’unicità del thema probandum, l’onere della prova non poteva che essere unitariamente collocato, in forza del principio cd. di vicinanza della prova, a carico alla banca, che agiva in via riconvenzionale, da ciò derivando che, nel caso di incrocio delle domande, doveva essere la banca tenuta a fornire la dimostrazione delle modalità con cui il suo presunto credito si fosse venuto formando, attraverso la produzione in giudizio di tutti gli estratti conto, pena l’utilizzo, quale primo saldo, di un “saldo zero”, vale a dire azzerato a prescindere da quanto indicato dalla banca stessa; IX) la diversa giurisprudenza di legittimità secondo la quale, in caso di domande contrapposte, ambedue le parti avevano l’onere di provare le rispettive contrapposte pretese, non risultava invero soddisfacente, posto che, se entrambe le parti fossero risultate gravate dall’onere di dimostrare le contrapposte domande, si sarebbe giunti al paradossale risultato di ritenere che, nell’ambito della medesima causa, il saldo da prendere in considerazione potesse essere diverso a seconda che si valutasse la domanda principale ovvero quella riconvenzionale.

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Inoltre, sostenere che l’onere della prova gravi sempre e comunque sull’attore, che agisca per l’accertamento negativo del credito, equivaleva a smentire le premesse, relative alla sussistenza di eguali oneri probatori a carico di entrambe le parti e, soprattutto, alla sussistenza di un onere a carico della banca relativo alla dimostrazione delle modalità di maturazione del proprio preteso credito; X) come emergeva dalla prima relazione svolta dal c.t.u., i rapporti tra la (…) s.r.l. e la banca si erano articolati, nel corso degli ultimi anni, attraverso molteplici conti e, in particolare, erano stati tre i conti correnti ordinari e cinque quelli cd. anticipi; XI) era emerso altresì, per quanto riguardava i conti ordinari, che gli stessi, benché caratterizzati da differenti numerazioni e gestiti da diverse agenzie, erano afferenti ad un unico rapporto, nel quale alla chiusura del primo conto (quello di cui al numero 4373, acceso presso l’agenzia 1) aveva fatto seguito l’apertura del successivo (quello di cui al numero 5634 presso l’agenzia 5), con il trasferimento del relativo saldo; e così ancora, la chiusura del secondo conto aveva originato il terzo ed ultimo conto (quello di cui al numero 220.08, presso l’agenzia 11), che partiva, per l’appunto, con l’appostazione negativa derivante dall’esposizione debitoria del precedente conto corrente; XI) la rideterminazione dei saldi, dunque, doveva avvenire considerando soltanto il terzo conto, quello di cui al numero 220.08 (i cui estratti erano stati ritualmente prodotti) e che, per quanto detto in ordine alle conseguenze dell’incompleta produzione documentale ed avuto riguardo ai contrapposti oneri probatori, quella rideterminazione doveva avvenire previo azzeramento del suo saldo iniziale; XII) analoga soluzione doveva essere seguita anche per i conti anticipi, potendosi prendere in considerazione solo quelli sorti e regolati in relazione al conto principale 220.08, vale a dire i conti 221-01 e il conto 2406698.31; XIII) per questi conti, dunque, doveva operarsi il ricalcolo del saldo, applicando la medesima metodologia già adottata dal c.t.u., seguita dal primo giudice e non oggetto di gravame; XIV) il ricalcolo operato dal consulente tecnico d’ufficio muoveva, tuttavia, dal presupposto erroneo, di poter esaminare anche la documentazione prodotta al consulente tecnico d’ufficio oltre i termini preclusivi di cui all’art. 184 cod. proc. civ. e, più in particolare, quella selezionata dal tribunale che arrestava il ricalcolo a ritroso all’1 settembre 1992, e ciò in forza dell’erronea interpreta del funzionamento della prescrizione decennale, disattesa nel giudizio di appello; XV) occorreva limitare, invece, il ricalcolo al solo conto 220.08, partendo da un saldo virtuale azzerato, e considerare i giroconti su tale conto principale dei soli conti anticipi 221-01 e 2406698.31, senza alcun limite prescrizionale (anche perché il conto 220.08 era stato aperto il 5 Marzo 1996); XVI) si rendeva necessaria, dunque, la rimessione della causa in istruttoria per richiedere al consulente un supplemento di indagine peritale.

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2.2. La medesima corte, poi, definitivamente pronunciando con la sentenza n. 5190-2017 e dopo aver disposto un supplemento di c.t.u., accolse parzialmente, come si è già anticipato, la domanda attorea, condannando la banca al pagamento, in favore di (…) s.r.l., della somma di Euro 17.054,43, quale saldo creditorio maturato in favore della società correntista.

3. Per la cassazione di entrambe le descritte sentenze n. 4571/2016 e n. 5190/2017, ha promosso ricorso (…) s.p.a., affidandosi ad un unico motivo, illustrato anche da memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ. Hanno resistito, con unico controricorso, corredato da analoga memoria, (…) s.r.l.(…) in liquidazione, Ra.D. e Co.Ma., proponendo anche ricorso incidentale recante due motivi. Sono rimasti solo intimati, invece, Br.Gu.

3.1. La Prima Sezione civile di questa Corte, originariamente investita della decisione della controversia, con ordinanza interlocutoria pubblicata il 21 marzo 2023, n. 8118: i) ha considerato le questioni prospettate nel primo motivo di ricorso incidentale – riguardanti il tema del consenso delle parti affinché, in ambito di consulenza contabile ex art. 198 cod. proc. civ., il consulente possa esaminare anche documenti non prodotti in causa – aventi carattere di pregiudizialità rispetto allo scrutinio di quelle poste con il ricorso principale; II) ha ricordato l’affermazione di Cass., SU, n. 3086 del 2022, secondo cui, in materia di esame contabile, ai sensi dell’art. 198 cod. proc. civ., il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza della disciplina del contraddittorio delle parti ivi prevista, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti, tutti i documenti necessari al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, pure se diretti a provare i fatti principali posti dalle parti a fondamento della domanda e delle eccezioni; III) ha ritenuto che “la peculiarità della vicenda concreta, sottoposta oggi al vaglio di legittimità, interroga questa Corte sulle modalità in cui tale consenso possa essere manifestato (se, cioè, nelle forme del consenso espresso ovvero implicitamente acquisito tramite il contegno processuale delle parti) e sul ruolo del c.t.p. nell’espressione dello stesso, questioni tutte che presentano evidenti profili di novità e di indubbio rilievo nomofilattico”. Pertanto, ha rinviato la causa a nuovo ruolo contestualmente disponendone la discussione in pubblica udienza, in occasione della quale (…) s.p.a. ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

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RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo del ricorso incidentale di (…) s.r.l.(…) in liquidazione, Ra.D. e Co.Ma. deve esaminarsi prioritariamente rispetto all’unico motivo del ricorso principale di (…), stante il carattere logicamente pregiudiziale riconosciutogli dalla menzionata ordinanza interlocutoria resa da Cass. n. 8118 del 2023. Esso, rubricato “Violazione ed errata applicazione degli artt. 115, 116, comma 2, 191 e ss. c.p.c. e, in particolare, 198, comma 2, c.p.c., art. 119 del D.Lgs. n. 385 del 1993 (T.U.B.) e art. 111 Cost.. Vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)”, ascrive alla corte di appello di avere errato nell’applicazione delle norme dettate in materia di acquisizione delle prove e di svolgimento della consulenza tecnica di ufficio. Si ricorda, da parte dei controricorrenti e ricorrenti incidentali suddetti, che è pacifico in giurisprudenza il principio secondo cui, nei giudizi cui si richiede la ricostruzione dei conti intrattenuti tra banca e cliente, deve essere fornita la prova dell’esistenza del rapporto intercorso tra le parti, della sua durata e della illegittima applicazione allo stesso di condizioni economiche conseguenti a clausole nulle. Tali fatti, essendo posti direttamente a fondamento della domanda e delle eccezioni delle parti, devono essere necessariamente provati da queste ultime, mentre non rientrano tra detti fatti e situazioni la ricostruzione dell’andamento dei rapporti contabili che non siano controversi nella loro esistenza. Si aggiunge che la corretta interpretazione delle norme regolanti la materia, per come richiamate in rubrica, avrebbe dovuto orientare la corte territoriale sia a ritenere sussistenti le condizioni previste dall’art. 210 cod. proc. civ. per ordinare l’esibizione alla banca della necessaria documentazione, sia a considerare legittima la produzione documentale versata nelle mani del c.t.u. (vedi estratti conto dall’1.10.1988 al 30.06.2002), con il consenso della banca convenuta, manifestato in maniera incontestabile tramite il consulente tecnico di parte. Si evidenzia, a tal fine, che il consulente tecnico della banca, con sua lettera dell’11 gennaio 2006, aveva manifestato, in un primo momento, la volontà di consegnare al tecnico dell’ufficio la documentazione da quest’ultimo richiesta e, successivamente (in sede di accesso del 21 dicembre 2005), non aveva sollevato alcuna eccezione ovvero opposizione alla consegna delle copie degli estratti conto per il periodo sopraindicato nonché dei libri giornali per il periodo compreso tra il 12 gennaio 1977 ed il 30 settembre 1988, consentendo in tal modo che gli stessi fossero posti a base degli accertamenti peritali disposti dal giudice istruttore. Sussistevano, pertanto, tutti i presupposti indicati dalla giurisprudenza di legittimità per poter far valutare al c.t.u. gli estratti conto attraverso i quali si era sviluppato il rapporto di conto corrente intercorso tra le parti. Si deduce, altresì, che dovevano ritenersi non controversi i rapporti contrattuali di conto corrente sopra descritti e che, dunque, la documentazione relativa alla loro gestione -essendo stata versata in atti tempestivamente, ancorché limitatamente a brevi periodi di tempo – avrebbe dovuto essere presa in considerazione dal c.t.u. per ricostruire l’andamento dei rapporti contabili tramite l’acquisizione della documentazione depositata direttamente nelle mani del consulente tecnico d’ufficio.

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1.1. Questa doglianza non può essere meritevole di accoglimento, sebbene dovendosi procedere, ex art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ., ad

una correzione della motivazione della sentenza non definitiva della Corte di appello di Napoli n. 4571 del 2016 nei sensi di cui si dirà appresso.

1.2. L’odierna censura chiama il Collegio a confrontarsi con lo specifico tema della nullità della consulenza tecnica d’ufficio derivante dall’acquisizione e successiva utilizzazione, da parte del c.t.u., di documenti non prodotti precedentemente dalle parti, né acquisiti dal giudice in virtù dei poteri istruttori che gli competono. Si tratta, come è evidente, di un’ipotesi in cui l’operato del consulente determina una modificazione del compendio probatorio utilizzabile dal giudicante ai fini della decisione, aggiungendovi un mezzo di prova (documentale) ulteriore rispetto a quelli acquisiti all’esito delle preclusioni istruttorie di cui all’art. 183, comma 6, cod. proc. civ. (nel testo, qui applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche apportate a detto articolo dal D.Lgs. n. 149 del 2022).

1.2.1. È opportuno, allora, ricordare, innanzitutto, che la consulenza tecnica, pur non rientrando nella categoria dei mezzi di prova, afferisce all’istruzione probatoria (come testimoniato, del resto, dalla collocazione delle disposizioni che la riguardano nella sezione terza del capo secondo del titolo primo del libro secondo del codice di procedura civile, intitolato – per l’appunto – “Dell’istruzione probatoria”). L’attività del consulente può consistere (e generalmente consiste), dunque, nell’assistere il giudice nella valutazione tecnica delle prove raccolte (consulenza cd. deducente), ma può divenire essa stessa un mezzo di prova, allorquando, come osservato in dottrina, si traduca “nell’indagare direttamente per ricostruire dei fatti, sia sotto il profilo dinamico (cause), sia sotto il profilo cinematico (svolgimento), per poi riferire al giudice quanto (il c.t.u.) ha rilevato, osservando le tracce di ciò che è avvenuto, e quanto ha appreso, informandosi”. In quest’ultimo caso, la consulenza tecnica viene definita “percipiente”, ad indicare che l’ausiliario è incaricato (non solo della valutazione ma, ancor prima) dell’accertamento di fatti, la cui stessa percezione richiede il possesso di cognizioni tecniche.

1.2.2. Fattispecie affatto peculiare di consulenza tecnica, poi, è quella prevista dall’art. 198 cod. proc. civ., il quale detta una specifica disciplina relativa ad una particolare figura di consulente tecnico, quello incaricato di un esame contabile. Le più significative caratteristiche distintive di tale istituto, rispetto a quello generale della consulenza tecnica, riguardano la maggiore estensione delle facoltà riconosciute all’ausiliario sotto due profili: a) la espressa previsione della possibilità, subordinata comunque all’assenso delle parti, di esaminare anche documenti non prodotti in giudizio; b) la esperibilità di un tentativo di conciliazione delle parti, suscettibile, in esito positivo, di sfociare in un documento avente efficacia e valore di titolo esecutivo.

1.2.3. In considerazione del suo precipuo ruolo di integrazione dell’attività decisoria del giudice, peraltro, la giurisprudenza di legittimità afferma costantemente che la consulenza tecnica non possa valere ad esonerare le parti dalla prova dei fatti posti a fondamento delle relative domande o eccezioni, sicché legittimamente il giudice non la dispone ove con essa le parti intendano procedere ad un’indagine “esplorativa” intorno ad elementi o fatti non provati. Una deroga a tale principio si ha unicamente quando l’accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi soltanto con il ricorso a specifiche cognizioni tecniche (come accade, per esempio, per l’accertamento della responsabilità medica).

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1.2.4. Indipendentemente dalla natura “deducente” o “percipiente” della consulenza, al c.t.u. è riconosciuto un generale potere di acquisizione documentale (e di informazioni). Per quel che riguarda le parti, l’art. 90, comma 2, disp. att. cod. proc. civ., dispone che “il consulente non può ricevere altri scritti defensionali oltre quelli contenenti le osservazioni e istanze di parte consentite dall’articolo 194 del codice” (il quale, per l’appunto, consente alle parti di “presentare al consulente, per iscritto o a voce, osservazioni e istanze”). L’art. 194, comma 1, ultimo parte, cod. proc. civ. prevede, altresì, che, oltre che “a domandare chiarimenti alle parti” e “a eseguire piante, calchi e rilievi”, il consulente possa essere autorizzato “ad assumere informazioni da terzi”. Nell’ambito dell’esame contabile, poi, è previsto che il consulente possa “esaminare anche documenti e registri non prodotti in causa” (art. 198 cod. proc. civ.). È assai ricorrente, del resto, nella giurisprudenza di legittimità, l’affermazione per cui “rientra nel potere del consulente tecnico d’ufficio attingere aliunde notizie e dati, non rilevabili dagli atti processuali e concernenti fatti e situazioni formanti oggetto del suo accertamento, quando ciò sia necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli” (cfr. Cass. n. 13428 del 2007. In senso sostanzialmente conforme, si vedano anche, ex aliis, Cass. n. 2133 del 1973; Cass. n. 4644 del 1989; Cass. n. 13686 del 2001; Cass. n. 3105 del 2004; Cass. n. 1901 del 2010; Cass. n. 2671 del 2020).

1.3. Tanto premesso, il primo passaggio del ragionamento che il Collegio è chiamato a compiere concerne, allora, l’esatta delimitazione del potere di acquisizione documentale conferito al consulente tecnico d’ufficio. Un potere che trae le sue coordinate dalla funzione svolta dalla c.t.u. e dal suo rapporto con i poteri istruttori delle parti (e del giudice), quali delineati dal legislatore in coerenza con i principi ispiratori sottesi alla struttura del processo civile, primo fra tutti il principio dispositivo in materia di prova (espresso dall’art. 115 cod. proc. civ.). Si dovrà tenere conto, peraltro, del peculiare regime cui soggiace la consulenza “contabile”, nell’ambito della quale, come si è già anticipato, l’art. 198 cod. proc. civ. consente al c.t.u. – con il consenso delle parti – di esaminare documenti non prodotti.

1.3.1. In relazione a tali profili, nella impugnata sentenza non definitiva n. 4571/2016 della Corte di appello di Napoli, si legge (cfr. pag. 24 e ss.), quanto “al materiale probatorio messo a disposizione del c.t.u. dalle parti e quella, strettamente connessa, del riparto degli oneri probatori”, che la nominata consulente dott.ssa Ro.D., “sin dall’inizio delle operazioni peritali, presenti i consulenti tecnici di entrambe le parti, chiese che le venissero fornite la documentazione relativa agli estratti di tutti i conti, ordinari ed anticipi, per tutta la durata del rapporto, e le copie dei contratti di apertura di credito. Negli incontri successivi, poi, il CT degli attori fornì alla consulente copie degli estratti como dall’1.10.1988 sino al 30.6.2002, e, poi, ancora copie dei libri giornali della Ceit, riportanti le operazioni bancarie per il periodo dal 12.1.1977 al 30.9.88. Nel replicare alle contestazioni mosse, dopo il deposito della relazione della relazione peritale, dalla difesa del Monte dei Paschi, la consulente spiegò che tali produzioni erano avvenute senza che il consulente della convenuta avesse fatto alcuna osservazione. Nel proporre appello incidentale, il Monte dei Paschi insiste nel contestare la ritualità dell’acquisizione di quei documenti, evidenziando come agli atti di causa risultassero prodotti unicamente gli estratti completi a partire dall’apertura e sino alla chiusura del conto 220.08 (dunque, dal 5.3.96 sino al settembre 2002), e lamenta, pertanto, gli effetti distorsivi sulla decisione impugnata prodotti dall’esame di documentazione irritualmente prodotta. Dal canto loro, invece, gli appellanti principali sostengono che quegli estratti e quelle copie dei libri giornali della Ceit fossero entrati ritualmente nel processo, stante il consenso della banca, acquisito in forza della mancata contestazione ad opera del suo c. t.p. Al riguardo, il Collegio osserva che la consulenza non costituisce la sede per aggirare le decadenze in cui le parti siano incorse. Rientra, infatti, nei poteri-doveri del consulente unicamente l’acquisizione di documentazione, essenzialmente di carattere tecnico, di natura accessoria, utile al fine di dare compiutamente risposta ai quesiti sottopostigli dal giudice. (…). In materia di consulenza contabile, poi, occorre tener conto anche di quanto previsto dall’art. 198 cod. proc. civ., secondo cui il consulente, col consenso di tutte le parti, può esaminare anche documenti non prodotti in causa. A prima vista parrebbe una norma idonea a consentire una produzione documentale più ampia, anche oltre i termini di decadenza sanciti dalle scansioni temporali del giudizio di promo grado. Ma – opportunamente – la giurisprudenza interpreta restrittivamente questa disposizione, ad evitare di trasformare, quelli previsti dall’art. 183 (un tempo, art. 184) c.p.c., in termini puramente “canzonatori” (come accadrebbe se l’accordo delle parti potesse far “saltare” le preclusioni istruttorie).

La consulenza tecnica di natura contabile e l’attenuazione del sistema basato sulle preclusioni istruttorie

Si afferma infatti, che, “in tema di preclusioni nel corso di una consulenza tecnica contabile, si deve escludere l’ammissibilità della produzione tardiva di prove documentali concernenti fatti e situazioni poste direttamente a fondamento della domanda e delle eccezioni di merito, essendo al riguardo irrilevante il consenso della controparte atteso che, ai sensi dell’art. 198 c.p.c., quest’ultimo può essere espresso solo con riferimento all’esame di documenti accessori, cioè utili a consentire una risposta più esauriente ed approfondita al quesito posto dal giudice”(…). Ed allora, a prescindere dal valore da attribuire al silenzio (più che consenso) serbato dal consulente di parte convenuta in occasione della richiesta e produzione documentale da parte del CT di parte attrice, deve riconoscersi la fondatezza del gravame incidentale avanzato dalla banca sul punto: dunque, deve affermarsi che quei documenti, pure esaminati dal consulente, non sono entrati ritualmente nel processo e di essi, conseguentemente, non può tenersi alcun conto”.

1.4. Questa conclusione della corte distrettuale, tuttavia, non può essere confermata in questa sede.

1.4.1. Invero, è doveroso muovere dal rilievo che, come puntualizzato, affatto condivisibilmente, da Cass. n. 5370 del 2023, “nella causa proposta dal correntista per ottenere la ripetizione delle somme indebitamente riscosse dalla banca nel corso del rapporto di conto corrente, gli estratti conto documentano fatti principali, costitutivi della pretesa azionata (i pagamenti indebiti e, di conseguenza, quanto riscosso senza titolo dalla banca): essi, infatti, danno ragione dell’andamento del rapporto ed evidenziano le singole rimesse suscettibili di ripetizione, in quanto riferite a somme che non andavano addebitate al cliente (per tutte: Cass. 23 ottobre 2017, n. 24948)”.

1.4.2. Giova ricordare, poi, che Cass., SU, 1 febbraio 2022, n. 3086, ha distinto i poteri di acquisizione del c.t.u.: avendo cioè riguardo, rispettivamente, al quadro delle attività definite, in termini generali, dall’art. 194 cod. proc. civ. ed alla specificità dell’esame contabile di cui all’art. 198 del medesimo codice. Ha affermato, in proposito, che, sul piano generale (quindi in ogni consulenza tecnica), il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione di queste ultime, non applicandosi alle attività del consulente le preclusioni istruttorie vigenti a carico delle parti stesse, tutti i documenti che si rende necessario acquisire al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che essi non siano diretti a provare i fatti principali dedotti a fondamento della domanda e delle eccezioni che è onere delle parti provare e, salvo quanto a queste ultime, che non si tratti di documenti diretti a provare fatti principali rilevabili d’ufficio. Ha precisato, inoltre, che, in materia di esame contabile ai

sensi dell’art. 198 cod. proc. civ., il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza della disciplina del contraddittorio delle parti ivi prevista, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti, tutti i documenti che si rendano necessari al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, anche se essi siano diretti a provare i fatti principali posti dalle parti a fondamento della domanda e delle eccezioni (sent. cit., punto 41. In senso conforme, su quest’ultimo punto, si vedano anche Cass., SU, n. 6500 del 2022; Cass. n. 34600 del 2022; Cass. n. 12348 del 2023, nonché, in motivazione, Cass. n. 31744 del 2023; Cass. n. 35175 del 2023).

1.4.3. Orbene come rimarcato – ancora una volta condivisibilmente – dalla già citata Cass. n. 5370 del 2023 (cfr. pag. 7 e ss. della motivazione) la menzionata pronuncia delle Sezioni Unite “non ha tuttavia obliterato il dato del “previo consenso delle parti” che il comma 2 dell’art. 198 cit. fa assurgere a presupposto condizionante l’acquisizione dei detti documenti da parte del consulente contabile. È significativo, al riguardo, quanto argomentato dalle Sezioni Unite per dar ragione dei più ampi poteri – comprensivi dell’apprensione di scritti che comprovano fatti principali – di cui dispone l’esperto nell’ipotesi della consulenza che implichi la necessità dell’esame di documenti e di registri contabili. Ha osservato al riguardo la Corte: “(V)a da sé che se, come si crede dall’interpretazione corrente, nell’esegesi dell’art. 198 c.p.c., comma 2, si reputa che i documenti non prodotti esaminabili e, se del caso, utilizzabili dal consulente, previo consenso delle parti, siano i documenti a comprova dei fatti accessori, la norma smarrisce ogni connotato di originalità e diviene un’inutile doppione delle attività che il consulente è ordinariamente abilitato, in ragione del mandato ricevuto, a svolgere senza bisogno del consenso delle parti. L’assunto, sostanzialmente abrogante, a cui conduce questa interpretazione nel dire, in pratica, che il consulente contabile può fare le stesse cose che può fare un qualsiasi consulente non contabile, si colora poi di un ulteriore effetto che ne evidenzia gli esiti paradossali, dato che, postulando la previa acquisizione del consenso delle parti, il compito del consulente contabile che intenda estendere il raggio delle proprie investigazioni anche ai fatti accessori viene ad essere gravato di un onere formale (il consenso delle parti), al cui rispetto egli non è di norma tenuto, il che in un campo, in cui per la complessità delle questioni tecniche da affrontare, dovrebbe essere consentita al consulente una più ampia libertà di giudizio e quindi una più ampia libertà di indagine, svilisce in modo irreparabile le finalità che la norma si propone di perseguire” (Cass., Sez. U., 1 febbraio 2022, n. 3086, cit., punto 31). Come è agevole cogliere, le Sezioni Unite non considerano affatto superflua l’acquisizione del consenso delle parti quanto all’utilizzo, da parte del c.t.u., dei documenti, non precedentemente prodotti, comprovanti fatti principali, ma anzi ne enfatizzano la previsione, dando conto di come quel consenso sarebbe privo di fondamento giustificativo, sul piano logico, se l’esperto, nel corso dell’esame di cui all’art. 198 c.p.c., potesse ricevere dalle parti i soli documenti comprovanti fatti accessori (che possono sempre riceversi ex art. 194).

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In tal modo, il consenso delle parti, nell’impianto motivazionale della sentenza, concorre a definire i contorni di un disegno legislativo che assegna all’art. 198 c.p.c. una sua precisa specialità: ed è quasi superfluo aggiungere che da tale consenso le Sezioni Unite non potevano certamente prescindere, dal momento che nessuna operazione interpretativa avrebbe permesso di manipolare il testo normativo amputandolo di un elemento che ne costituisce parte integrante. In definitiva, le Sezioni Unite hanno individuato, bensì, una specialità nella disposizione di cui all’art. 198: ma ciò sul piano dell’acquisizione della prova dei fatti principali che non sono oggetto di allegazione (per cui cfr. pure, da ultimo, Cass. 24 novembre 2022, n. 34600), senza con ciò ammettere l’apprensione di documenti in assenza del consenso di cui si è detto”.

1.4.4. È evidente, dunque, alla stregua dell’appena riportata pronuncia, che non può avere seguito, in questa sede, l’affermazione, rinvenibile nella impugnata sentenza non definitiva della corte partenopea n. 4571 del 2016, secondo cui, “in tema di preclusioni nel corso di una consulenza tecnica contabile, si deve escludere l’ammissibilità della produzione tardiva di prove documentali concernenti fatti e situazioni poste direttamente a fondamento della domanda e delle eccezioni di merito, essendo al riguardo irrilevante il consenso della controparte atteso che, ai sensi dell’art. 198 c.p.c. quest’ultimo può essere espresso solo con riferimento all’esame di documenti accessori, cioè utili a consentire una risposta più esauriente ed approfondita al quesito posto dal giudice” (…). Ed allora, a prescindere dal valore da attribuire al silenzio (più che consenso) serbato dal consulente di parte convenuta in occasione della richiesta e produzione documentale da parte del CT di parte attrice, deve riconoscersi la fondatezza del gravame incidentale avanzato dalla banca sul punto: dunque, deve affermarsi che quei documenti, pure esaminati dal consulente, non sono entrati ritualmente nel processo e di essi, conseguentemente, non può tenersi alcun conto”.

1.4.5. Infatti, con riferimento ai documenti probatori di fatti principali, la barriera preclusiva posta dal legislatore è valicabile, nel corso della consulenza contabile, in presenza del necessario previo consenso delle parti. Tale consenso, perciò, ha valore condizionante rispetto all’esame dei documenti non prodotti in precedenza (cfr., appunto, la citata Cass. n. 5370 del 2023). In altri termini, come osservato dal sostituto procuratore generale nella sua requisitoria scritta, “L’attenuazione del sistema basato sulle preclusioni istruttorie può in definitiva avvenire, nell’ambito della consulenza tecnica di natura contabile, unicamente col consenso delle parti, come si evince chiaramente dell’art. 198 c.p.c., comma 2, al fine di non violare il principio dispositivo ed il principio del contraddittorio (cfr., in senso sostanzialmente conforme, Cass. n. 30160 del 2023 Cass. n. 22880 del 2023)”. Di tanto, del resto, si mostra consapevole anche l’ordinanza interlocutoria resa da Cass. n. 8118 del 2023, laddove ha evidenziato che “la peculiarità della vicenda concreta, sottoposta oggi al vaglio di legittimità, interroga questa Corte sulle modalità in cui tale consenso possa essere manifestato (se, cioè, nelle forme del consenso espresso ovvero implicitamente acquisito tramite il contegno processuale delle parti) e sul ruolo del c.t.p. nell’espressione dello stesso” (cfr. pag. 11).

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1.5. Fermo quanto precede, rileva il Collegio che, come si evince dalla già richiamata sentenza non definitiva della Corte di appello di Napoli n. 4571 del 2016, nell’odierna vicenda è pacifico che: I) la banca non ha prestato il proprio consenso alla produzione documentale effettuata dalla (…) s.r.l. in primo grado, nel corso della c.t.u. (cfr. pag. 12, § 3.1.); II) (…), nella prima difesa utile, successiva al deposito della relazione del c.t.u., ha contestato che sulla nuova produzione documentale avesse manifestato il proprio consenso (cfr. pag. 12, § 3.1.); III) il consulente di parte della banca originaria convenuta nulla aveva osservato a proposito della nuova produzione documentale (volta a provare fatti principali) operata nel corso della c.t.u. (cfr. pag. 13, § 3.2., nonché pag. 24, § 7.1.).

1.5.1. È innegabile, dunque, che la contestazione operata da (…) con la prima difesa utile successiva al deposito della c.t.u. ha impedito che la pretesa nullità di quest’ultima rimanesse sanata ai sensi dell’art. 157 cod. proc. civ. (argomentandosi, a contrario, da Cass. n. 5370 del 2023, secondo cui, “in materia di esame contabile, la nullità per l’assenza del consenso preventivo quanto all’acquisizione di documenti comprovanti fatti principali deve essere fatto valere, dal contendente che tale consenso avrebbe dovuto prestare, e non ha prestato, eccependo la nullità nella prima istanza o difesa successiva al deposito dell’atto viziato o dalla conoscenza di esso”).

1.6. Ciò posto, la citata ordinanza interlocutoria resa da Cass. n. 8118 del 2023 pone all’esame di questa Corte le questioni, in tema di applicazione dell’art. 198 cod. proc. civ., relative: I) alle modalità con cui il consenso alla nuova produzione documentale possa essere manifestato: se, cioè, nelle forme del consenso espresso o anche implicitamente acquisito tramite il contegno processuale delle parti; II) al ruolo del consulente tecnico di parte nell’espressione dello stesso.

1.6.1. Orbene, ricordato che la predetta disposizione codicistica, rubricata “Esame contabile”, sancisce che “1. Quando è necessario esaminare documenti contabili e registri, il giudice istruttore può darne incarico al consulente tecnico, affidandogli il compito di tentare la conciliazione delle parti. 2. Il consulente sente le parti e, previo consenso di tutte, può esaminare anche documenti e registri non prodotti in causa. Di essi tuttavia senza il consenso di tutte le parti, non può fare menzione nei processi verbali o nella relazione di cui all’articolo 195”, appare chiaro che essa prevede una duplice manifestazione di consenso delle parti: a) la prima, per abilitare il consulente all’esame dei documenti non prodotti in causa; b) la seconda, per consentire al medesimo consulente la menzione e l’utilizzo di tali documenti nella sua relazione, nella eventualità che non si pervenga ad una bonaria definizione della controversia.

1.6.2. Deve rilevarsi, poi, che il comma 2 del citato articolo non vincola l’espressione del consenso a specifiche forme rituali. Attesa la sua centralità, nell’ottica della disposizione in esame, il consenso delle parti che permetta al nominato c.t.u. contabile l’esame e l’utilizzo di documentazione non prodotta precedentemente in giudizio deve essere valutato con particolare attenzione da parte del giudice. La norma, come si è anticipato, non fornisce indicazioni circa la “forma” che detto consenso deve assumere in subiecta materia, sicché appare indiscutibile che esso possa risultare sia in forma espressa che in modo tacito o implicito o per facta condudentia. Ciò che necessita è che sia inequivoco, soprattutto ove desunto in forma tacita o implicita, sicché elemento essenziale per la sua valutazione in queste ultime ipotesi è che sia ben chiaro e definito l’oggetto sul quale vi è la manifestazione di assenso proveniente dalla parte. In altri termini, il consenso è inequivoco quando l’atteggiamento acquiescente assunto dalla parte processuale sia interpretabile come adesione alla possibilità, per il c.t.u. contabile, di esaminare ed utilizzare anche la documentazione predetta.

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1.6.3. Nella specie, allora, in via meramente ipotetica, potrebbe pure opinarsi che, sebbene in modo implicito o per facta concludentia, il consulente di parte di (…), nulla avendo osservato a proposito della nuova produzione documentale (volta a provare fatti principali) operata dagli attori nel corso della c.t.u. disposta in primo grado, abbia tenuto un comportamento interpretabile come un tacito assenso a tale (ulteriore e nuova) produzione. Tanto, del resto, si rivelerebbe conforme al principio per cui l’eccezione di nullità della consulenza tecnica d’ufficio ex art. 198 cod. proc. civ., per illegittima utilizzazione di documenti, è relativa e deve essere formalmente proposta – a pena di inammissibilità ai sensi dell’art. 157, comma 2, cod. proc. civ. – dalla parte nella prima istanza o udienza successiva al deposito della consulenza medesima; a nulla rilevando che detta contestazione sia stata mossa dal consulente tecnico di parte durante i lavori peritali (cfr. Cass. n. 31744 del 2023). Da ciò discende che il diniego deve essere espresso e che il consenso può derivare anche dal mero silenzio.

1.7. Il vero problema, tuttavia, non è se un comportamento del consulente di parte come quello appena descritto possa configurare, o non, un consenso tacito o per facta concludentia al c.t.u. al fine di consentirgli l’esame e l’utilizzo di documentazione precedentemente non prodotta in giudizio dalle parti, quanto, piuttosto, – e sotto un profilo addirittura logicamente prioritario rispetto a quanto si è appena detto – lo stabilire se il consenso (espresso o tacito o per facta concludentia) alla nuova produzione documentale possa essere reso, o meno, anche dal consulente di parte.

1.7.1. In proposito, il Collegio predilige la risposta negativa ad un siffatto interrogativo.

1.7.2. Invero, deve ritenersi, con la migliore dottrina, che il consulente di parte sia mero ausiliare della parte chiamato ad esprimere manifestazioni di scienza (e non di volontà), peraltro limitatamente al profilo tecnico, -proprio in base a quanto precisato nella parte finale del secondo comma dell’art. 201 cod. proc. civ. – da ciò desumendosi che lo stesso non sia abilitato al compimento di attività tipiche del difensore (cfr., in motivazione, Cass. n. 31964 del 2023).

1.7.3. A conforto di quanto appena affermato, può richiamarsi l’orientamento di questa Corte, pur risalente, secondo il quale i consulenti tecnici di parte, siccome chiamati ad esprimere manifestazioni non di volontà, ma di scienza, ove raggiungano un accordo nelle rispettive conclusioni, non pongono in essere alcun atto transattivo in ordine al diritto controverso, né vincolano il giudice a recepire le conclusioni stesse (cfr. Cass. n. 245 del 1983). Ragion per cui le affermazioni del c.t.p. e le dichiarazioni riportate in verbali di operazioni o contenute nel proprio elaborato, ammissive di fatti sfavorevoli al proprio assistito, non hanno valore confessorio, non essendo vincolanti per la parte rappresentata (cfr., in motivazione, Cass. n. 22117 del 2015, secondo cui “Non c’è dubbio alcuno che quanto affermato da un consulente di parte “non assume valore di confessione, la quale è atto della parte e va espressa in relazione ad un fatto in essa esplicitato, non rilevando, a tal fine, la mera inferenza logica di un’ammissione del consulente” (Cass., sez. 2, 24 settembre 2013, n. 21827)”; Cass. 19189 del 2003 e Cass. n. 600 del 1996, entrambe richiamate nella più recente, già citata, Cass. n. 31964 del 2023, la quale, peraltro, ha sancito che “Se, infatti, pare indiscutibile che il consulente di parte possa, in forza dell’art. 198 c.p.c., chiarire e svolgere le sue osservazioni sui risultati delle indagini tecniche, la disposizione processuale anzidetta non consente di ritenere che il consulente di parte abbia lo ius postulandi che gli consentirebbe di far valere ritualmente l’eccezione di nullità”).

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1.7.4. Sulla base di tali principi, qui condivisi, deve escludersi che possa darsi rilievo, al fine di ricavarne un corrispondente consenso (fosse anche tacito o per facta concludentia), alla condotta (nella specie, meramente silente) serbata dal c.t.p. sull’avvenuta, ulteriore produzione documentale degli originari attori, nel corso della consulenza tecnica di ufficio disposta ed eseguita in primo grado, proprio perché si è al cospetto di un comportamento di un soggetto privo del potere di impegnare la parte su questioni diverse da quelle inerenti alle indagini tecniche svolte dal c.t.u.

1.7.5. Ciò, del resto, si rivela coerente con quanto disposto dall’art. 198, comma 2, cod. proc. civ., che richiede, appunto, il consenso delle parti, tra le quali di certo non figura il c.t.p. (come chiaramente si evince, del resto, pure da Cass. n. 27001 del 2011, che, in tema di espressioni offensive contenute in scritti processuali, ha sancito che “sia la norma dell’art. 89 cod. proc. civ. – finalizzata a regolare la correttezza formale del contraddittorio, senza individuare alcuna causa di non punibilità – sia quella dell’art. 598 cod. pen. – che prevede la non punibilità delle offese contenute negli scritti presentati dinanzi all’Autorità Giudiziaria allorché esse riguardino l’oggetto della causa – si riferiscono espressamente ed esclusivamente alle parti ed ai loro difensori, non potendo quindi trovare applicazione nei confronti del consulente tecnico di parte, che è figura processuale diversa e non equiparabile alle predette”) che, come si è detto, nemmeno può essere

equiparato al loro difensore, il quale, come condivisibilmente rimarcato anche dal sostituto procuratore generale nella sua requisitoria scritta (cfr. pag. 56), “seppur non può confessare, può e deve scegliere la condotta processuale da tenere nell’interesse del cliente: il che implica che quest’ultimo può consentire (anche implicitamente) o opporsi alle prove avversarie (Cass. n. 3762 del 1979). Invero, alla procura alle liti, in assenza di specifica regolamentazione, si applica la disciplina codicistica sulla rappresentanza e sul mandato, avente carattere generale rispetto a quella processualistica (v. Cass. SU n. 10209 del 2006), ivi ricompreso in particolare il principio generale posto all’art. 1708 c.c. secondo cui il mandato comprende tutti gli atti necessari al compimento dell’incarico conferito (v. Cass. n. 6264 del 2003). Pur in presenza di una procura ad litem di contenuto scarno e generico, si è ritenuto spettare al difensore, che gode di discrezionalità tecnica (salva la responsabilità verso il mandante per l’eventuale inosservanza delle istruzioni), di: impostare la lite e scegliere la condotta processuale più rispondente agli interessi del proprio rappresentato (v. Cass. n. 99 del 1984); proporre tutte le domande comunque ricollegabili all’oggetto originario (v. Cass. n. 15619 del 2005); fissare con le conclusioni definitive il thema decidendum, salve le espresse limitazioni del mandato (v. Cass. n. 2373 del 1972). Si è pertanto riconosciuto il potere del difensore di modificare la condotta processuale in relazione agli sviluppi e agli orientamenti della causa nel senso ritenuto più rispondente agli interessi del proprio cliente (v. Cass. n. 1439 del 2002), nonché di compiere, con effetto vincolante per la parte, tutti gli atti processuali non riservati espressamente alla stessa, come ad esempio consentire od opporsi alle prove avversarie e di rilevarne l’inutilità (v. Cass. n. 3762 del 1979), rinunziare a singole eccezioni o conclusioni, ridurre la domanda originaria e rinunziare a singoli capi della domanda, senza l’osservanza di forme rigorose (v. Cass. n. 21848 del 2013)”.

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1.7.6. In definitiva, quindi, la censura in esame deve essere respinta, correggendosi, in parte qua, ex art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ., nei termini fin qui esposti, la motivazione della menzionata sentenza non definitiva n. 4571 del 2016 della Corte di appello di Napoli ed enunciandosi il seguente principio di diritto:

“In tema di consulenza tecnica di ufficio ex art. 198 cod. proc. civ., l’acquisizione, da parte del consulente di ufficio, di documenti non precedentemente prodotti dalle parti, possibile anche se volta a provare fatti principali e non meramente accessori, necessita del consenso espresso, tacito o per facta concludentia, delle parti stesse, insufficiente rivelandosi quello eventualmente desumibile dalla condotta tenuta, nel corso delle operazioni peritali, dai loro consulenti, essendo questi ultimi privi del potere di impegnare le prime su questioni diverse da quelle inerenti alle indagini tecniche svolte dal consulente di ufficio”.

2. Venendo, a questo punto, all’esame del ricorso principale, con il primo ed unico motivo, rubricato “Nullità della sentenza, ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per violazione dell’art. 2697 c.c. nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c.”, (…) contesta alla corte distrettuale di avere errato nell’applicazione dei principi, ormai consolidati nella giurisprudenza di legittimità, in tema di ripartizione degli oneri probatori nell’azione di ripetizione dell’indebito. Osserva la Banca ricorrente che numerosissime sono, infatti, le sentenze di legittimità che affermano chiaramente che l’onere di provare la falsità o anche l’erroneità del saldo iniziale del conto corrente spetti al solo correntista che agisca per il pagamento dell’indebito e che tale onere vada adempiuto attraverso il deposito degli estratti conto, con la conseguenza che la diversa statuizione contenuta nella sentenza impugnata si sarebbe posta in consapevole contrasto con i principi affermati da questa Corte di cassazione secondo i quali, nel caso di domande cd. incrociate di ripetizione dell’indebito e di accertamento e condanna al pagamento del saldo in via riconvenzionale, i due oneri della prova rimangono tra loro autonomi e la corte territoriale avrebbe dovuto commissionare al c.t.u. due diversi calcoli nei quali, ai fini dell’azione di indebito, il conto non avrebbe dovuto essere azzerato, mentre ai fini della riconvenzionale avanzata dalla banca, il conto avrebbe dovuto invece essere azzerato. Osserva, ancora, la ricorrente principale che, una volta accertata la piena validità delle clausole contenute nel contratto che disciplinava il rapporto di conto corrente, non vi era alcuna valida ragione per richiedere l’azzeramento del saldo iniziale dal momento che, così operando, la corte di merito avrebbe erroneamente presunto che il saldo fosse il risultato dell’applicazione di clausole contrattuali nulle. Al contrario – aggiunge ancora la banca – l’accertata validità delle clausole avrebbe dovuto contribuire a ritenere che la invalidità del saldo iniziale del conto corrente costituisse elemento di prova che gravava interamente sulla correntista che, dunque, avrebbe dovuto depositare in giudizio gli estratti conto integrali del rapporto di conto corrente contestato. La conseguenza di tale erronea interpretazione dei principi regolanti la distribuzione degli oneri probatori era evidente se solo si considerava che il giudizio di secondo grado si era concluso con un accertamento del saldo attivo del conto corrente 220.08 pari a circa euro 17 mila, favorito solo ed esclusivamente dall’azzeramento del saldo iniziale.

2.1. In altri termini, la banca critica l’azzeramento del conto effettuato dal consulente tecnico e condiviso dalla corte partenopea in una vicenda in cui, in presenza di contrapposte domande della banca e della correntista, nessuna delle due aveva depositato gli estratti conto integrali. Si prospetta la violazione dell’art. 2697 cod. civ., avendo quella corte sanzionato la banca per la mancata produzione integrale degli estratti conto, così muovendo dal saldo zero, mentre al cliente è bastato assolvere ad un onere di allegazione, senza in realtà provare il proprio diritto a ripetere il supposto e non dimostrato indebito.

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2.2. Anche questa doglianza non merita accoglimento per le ragioni tutte di seguito esposte.

2.3. Giova ricordare, innanzitutto, che: I) l’odierna controversia è sorta con la domanda di (…) s.r.l.(…) in liquidazione e dei suoi garanti, Ra.D., Co.Ma., Br.Gu. e De.Si., diretta ad ottenere, previa declaratoria di nullità di alcune clausole negoziali contenute nei contratti di conto corrente intrattenuti dalla prima con (…) (concernenti la determinazione dell’interesse ultralegale mediante rinvio ad “uso piazza”, l’applicazione delle commissioni di massimo scoperto, la capitalizzazione trimestrale degli interessi, le modalità di tenuta del conto in riferimento ai giorni di valuta, la determinazione del tasso annuo effettivo globale con riferimento alle legge sull’usura), l’esatta quantificazione del rapporto di dare-avere in base ai risultati del ricalcolo da eseguire a mezzo consulenza tecnico-contabile e, per l’effetto, la condanna della banca alla restituzione delle somme illegittimamente addebitate e/o riscosse; II) costituendosi in giudizio, (…), oltre a resistere alle avverse pretese, propose domanda riconvenzionale volta ad ottenere la condanna di controparte al pagamento, in suo favore, della somma di Euro 93.297,43, portata dall’estratto conto certificato ex art. 50 del D.Lgs. n. 385 del 1993 (Testo Unico in materia bancaria), o di quella minore per cui fosse stata raggiunta la prova.

2.4. La corte partenopea, nella qui impugnata sentenza non definitiva n. 4571/2016, ha ritenuto (come si è già ampiamente riferito nel § 2.1. dei “Fatti di causa”), in relazione alla determinazione del riparto degli oneri probatori concernenti la produzione integrale degli estratti conto, che: I) secondo i principi ormai consolidati in giurisprudenza, se ad agire per il pagamento dei saldi del conto corrente è la banca, deve ritenersi quest’ultima ad essere gravata dell’onere di dimostrare come si sia addivenuti alla formazione del saldo, mediante la produzione in giudizio di tutti gli estratti conto, a partire dalla prima annotazione successiva al saldo zero iniziale, con la conseguenza che, qualora la banca non disponga di (ovvero non depositi) tutti gli estratti conto, ma solo di una parte di essi, – che prendono le mosse già da un saldo negativo per il cliente – non può dirsi provato il formarsi di quel primo saldo negativo, e, a fronte delle contestazioni del correntista circa la validità di singole clausole (come nel caso quelle riguardanti la capitalizzazione trimestrale degli interessi ovvero la loro misura), la ricostruzione deve avvenire azzerando quella prima annotazione e, ricostruendo il rapporto come se fosse iniziato in quella data partendo da zero; II) ove, invece, sia il correntista ad agire per la ripetizione di somme a suo dire indebitamente percette dalla banca in costanza di rapporto, previa la rideterminazione del saldo, sulla scorta dell’invocata nullità di talune clausole contrattuali che avevano condotto a quel saldo, l’onere probatorio – consistente egualmente nella produzione degli estratti – non può che gravare, in ossequio ai principi dettati dall’art. 2697 cod. civ., sullo stesso correntista, con la conseguenza che, qualora gli estratti siano prodotti a far data da un certo momento del rapporto, in cui vi siano appostazioni negative, in mancanza di diversa prova, occorre prendere a riferimento, ai fini dell’effettuazione della c.t.u., proprio quel saldo; III) la situazione si complica nell’ipotesi – come quella in esame -in cui, a fronte dell’azione del correntista, volta alla rideterminazione del saldo ed alla ripetizione di somme indebitamente pagate, la banca risponde chiedendo, in via riconvenzionale, la condanna del cliente e dei suoi fideiussori al pagamento del saldo; IV) occorre applicare, pertanto, in tale ultimo caso, il principio, già ripetutamente affermato dalla medesima corte distrettuale, secondo cui, stante l’unicità del thema probandum, l’onere della prova non può che essere unitariamente collocato, in forza del principio cd. della vicinanza della prova, a carico alla banca, che agisca in via riconvenzionale, sicché, nel caso di incrocio delle domande, deve essere la banca tenuta a fornire la dimostrazione delle modalità con cui il suo presunto credito si sia venuto formando, attraverso la produzione in giudizio di tutti gli estratti conto, pena l’utilizzo, quale primo saldo, di un “saldo zero”, vale a dire azzerato a prescindere da quanto indicato dalla banca stessa; V) la diversa giurisprudenza di legittimità secondo la quale, in caso di domande contrapposte, ambedue le parti hanno l’onere di provare le rispettive contrapposte pretese, non risulta soddisfacente, posto che, se entrambe le parti sono risultate gravate dall’onere di dimostrare le contrapposte domande, si giungerebbe al paradossale risultato di ritenere che, nell’ambito della medesima causa, il saldo da prendere in considerazione può essere diverso a seconda che si valuti la domanda principale ovvero quella riconvenzionale e perché sostenere che l’onere della prova gravi sempre sull’attore, che agisca per l’accertamento negativo del credito, equivale a smentire le premesse, relative alla sussistenza di eguali oneri probatori a carico di entrambe le parti e, soprattutto, alla sussistenza di un onere a carico della banca relativo alla dimostrazione delle modalità di maturazione del proprio preteso credito.

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2.5. Tanto premesso, è doveroso premettere che, nelle cause concernenti la rideterminazione di un saldo di un conto corrente bancario e la ripetizione di somme asseritamente riscosse indebitamente dall’istituto di credito, nel corso del relativo rapporto, come conseguenza della nullità di alcune clausole contenute nel corrispondente contratto (riguardanti, ad esempio la debenza di interessi ultralegali non pattuiti specificamente per iscritto; l’applicazione di commissioni di massimo scoperto; la illegittima capitalizzazione trimestrale degli interessi; le modalità di tenuta del conto in riferimento ai giorni di valuta; la determinazione del tasso annuo effettivo globale con riferimento alle legge sull’usura), gli estratti conto danno ragione dell’andamento del rapporto e, in relazione ad essi, trova applicazione il disposto di cui all’art. 1832 cod. civ., a tenore del quale “1. L’estratto conto trasmesso da un correntista all’altro s’intende approvato, se non è contestato nel termine pattuito o in quello usuale, o altrimenti nel termine che può ritenersi congruo secondo le circostanze. 2. L’approvazione del conto non preclude il diritto di impugnarlo per errori di scritturazione o di calcolo, per omissioni o per duplicazioni. L’impugnazione deve essere proposta, sotto pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di ricezione, dell’estratto conto relativo alla liquidazione di chiusura, che deve essere spedito per mezzo di raccomandata”.

2.5.1. È noto, peraltro, che: I) l’approvazione anche tacita dell’estratto conto, ai sensi del comma 1 della norma suddetta, preclude qualsiasi contestazione in ordine alla conformità delle singole annotazioni ai rapporti obbligatori dai quali derivano gli accrediti e gli addebiti iscritti nell’estratto conto, ma non impedisce di sollevare contestazioni riguardanti la validità e l’efficacia dei rapporti obbligatori dai quali derivano i suddetti addebiti ed accrediti (cfr., ex aliis, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 18352 del 2023; Cass. n. 30000 del 2018; Cass. n. 23421 del 2016); II) la presunzione di veridicità delle scritturazioni del conto quando il cliente, o il suo fideiussore, ricevuto l’estratto o documento equipollente, non sollevino specifiche contestazioni, trova applicazione anche qualora l’estratto conto non sia stato trasmesso con raccomandata o secondo le altre modalità indicate nel contratto, ma venga comunque portato a conoscenza del correntista o dei fideiussore, a sostegno della pretesa di pagamento del saldo passivo, con la conseguenza che tale pretesa non può essere respinta in presenza di un generico diniego della posizione debitoria da parte dei destinatari della comunicazione, non accompagnato da specifiche contestazioni (cfr. Cass. n. 18352 del 2023; Cass. n. 29415 del 2020); III) in tema di rapporti bancari di conto corrente, l’estratto conto che inizi con il saldo negativo di un rapporto precedente non può dirsi incompleto e solo a fronte di una specifica contestazione del correntista, in ordine alla veridicità ed effettiva debenza di quanto dovuto in forza del conto secondario o precedente, scatta l’obbligo della banca di fornire la prova della correttezza della posta negativa di cui trattasi, prova che consiste, di regola, nella produzione degli estratti conto da cui risulti quel saldo iniziale (cfr. Cass. n. 15601 del 2022).

2.6. Ciò posto, osserva il Collegio che la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di affermare, ripetutamente, che, nell’ipotesi in cui è il cliente ad agire nei confronti della banca per la rideterminazione del saldo del proprio conto corrente e la ripetizione di quel danaro dato alla banca, dall’inizio del corrispondente rapporto fino alla sua cessazione, sul presupposto di dedotte nullità di clausole del contratto di conto corrente relative alla misura degli interessi ed al massimo scoperto, di applicazione di interessi in misura superiore a quella del tasso soglia dell’usura presunta (come determinato in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996), nonché di addebiti di danaro non previsti dal contratto, è il cliente stesso che deve provare, innanzitutto mediante il deposito degli estratti di conto corrente, in applicazione dell’art. 2697 cod. civ., la fondatezza dei fatti e delle domande di accertamento costituenti il presupposto anche dell’accoglimento della domanda di ripetizione di indebito oggettivo (cfr., da ultimo, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 30789 del 2023; Cass. n. 30661 del 2023; Cass. n. 28191 del 2023; Cass. n. 25417 del 2023; Cass. n. 11543 del 2019; Cass. n. 30822 del 2018; Cass. n. 24948 del 2017); con la conseguenza che, in mancanza di taluni estratti di conto corrente, egli perde semplicemente la possibilità di dimostrare il fondamento della domanda di restituzione di danaro da lui dato alla banca (per effetto di addebiti da questa operati) nel solo periodo di tempo compreso fra l’inizio del rapporto e quello cui si riferiscono gli estratti di conto corrente depositati (cfr. Cass. n. 30789 del 2023; Cass. n. 30661 del 2023; Cass. n. 28191 del 2023; Cass. n. 10025 del 2023, che ha significativamente puntualizzato che “L’onere – cd. dovere libero, che risponde alla figura logica dell’imperativo ipotetico, “se vuoi a), devi b)” – è l’imposizione di una condotta per la realizzazione di un interesse (non di altro soggetto, come nell’obbligo ma) proprio di colui che, essendone titolare, lo fa valere in giudizio. La prova dell’indebito, pertanto, può darsi anche producendo solo una parte degli estratti conto ed utilizzando altri mezzi come la c.t.u. (cfr. Cass. n. 11543 del 2019; Cass. n. 9526 del 2019; Cass. n. 29190 del 2020; Cass. n. 20621 del 2021), secondo l’insindacabile accertamento in fatto del giudice di merito (cfr. Cass. n. 16837 del 2022; Cass. n. 1538 del 2022; Cass. 1040 del 2022). Ma è evidente che, in tal caso, la somma dovuta dalla banca sarà di importo corrispondente a quello provato”); ben potendo il giudice accertare, di regola mediante consulenza tecnica d’ufficio, se vi siano addebiti alla banca non dovuti, secondo la prospettazione dell’attore, in quanto risultanti dagli estratti di conto da questi depositati (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 35979 del 2022; Cass. n. 7697 del 2023; Cass. n. 12993 del 2023).

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2.6.1. Tale affermazione costituisce esplicitazione del principio, affatto consolidato, secondo cui il correntista che agisca in giudizio per la rideterminazione del saldo del proprio conto corrente e/o per la ripetizione dalla banca dell’indebito è tenuto a fornire la prova sia degli avvenuti pagamenti che della mancanza, rispetto ad essi, di una valida causa debendi: egli, quindi, ha l’onere di documentare l’andamento del rapporto con il deposito di tutti quegli estratti conto che evidenziano le singole rimesse suscettibili di ripetizione in quanto riferite a somme di danaro non dovute (cfr. Cass. n. 30789 del 2023; Cass. n. 30661 del 2023; Cass. n. 12993 del 2023; Cass. n. 7697 del 2023; Cass. n. 30822 del 2018; Cass. n. 24948 del 2017; Cass. n. 7501 del 2012; Cass. n. 3387 del 2001; Cass. n. 2334 del 1998; Cass. n. 7027 del 1997; Cass. n. 12897 del 1995).

2.6.2. Questa Corte, dunque, è costante nell’affermare che il mancato adempimento, da parte dell’attore correntista, all’onere di dare prova, mediante deposito degli estratti periodici di conto, tanto dei pagamenti che dell’assenza di valida causa debendi in riferimento ad un determinato periodo di durata del rapporto, non comporta punto che, per il periodo successivo, in cui i pagamenti risultano invece documentati da tali estratti il primo dei quali evidenziante un saldo a debito del cliente in riferimento al periodo precedente di svolgimento del rapporto (non documentato), si debba partire da un saldo pari a zero (sul semplice rilievo dell’artificiosa amputazione, priva di base normativa, dell’andamento di rapporto nel tempo effettivamente svoltosi); dovendo, invece, il sollecitato accertamento del dare e dell’avere fra le parti del cessato rapporto essere effettuato dal giudice di merito partendo dal primo saldo a debito del cliente documentalmente riscontrato dall’attore ovvero dall’adempimento della banca a ordine di esibizione a lei impartito dal giudice di merito (cfr. Cass. n. 30789 del 2023; Cass. n. 12993 del 2023; Cass. n. 11543 del 2019; Cass. n. 30822 del 2018; Cass. n. 28945 del 2017; Cass. n. 500 del 2017).

2.6.3. A conclusioni sostanzialmente analoghe, del resto, è pervenuta anche Cass. n. 37800 del 2022 (pure ribadita dalle già menzionate Cass. n. 7697 del 2023 e Cass. n. 12993 del 2023), la quale ha puntualizzato, affatto opportunamente, che “l’estratto conto, (…), non costituisce l’unico mezzo di prova attraverso cui ricostruire le movimentazioni del rapporto. Esso consente di avere un appropriato riscontro dell’identità e della consistenza delle singole operazioni poste in atto e, tuttavia, in assenza di un indice normativo che autorizzi una diversa conclusione, non può escludersi che l’andamento del conto possa accertarsi avvalendosi di altri strumenti rappresentativi delle intercorse movimentazioni. In tal senso, a fronte della mancata acquisizione di una parte dei citati estratti, il giudice del merito potrebbe valorizzare, esemplificativamente, le contabili bancarie riferite alle singole operazioni o, a norma degli artt. 2709 e 2710 c.c., le risultanze delle scritture contabili (ma non l’estratto notarile delle stesse, da cui risulti il mero saldo del conto: Cass. 10 maggio 2007, n. 10692 e Cass. 25 novembre 2010, n. 23974): e, per far fronte alla necessità di elaborazione di tali dati, quello stesso giudice può avvalersi di un consulente d’ufficio, essendo sicuramente consentito svolgere un accertamento tecnico contabile al fine di rideterminare il saldo del conto in base a quanto comunque emergente dai documenti prodotti in giudizio (Cass. 1 giugno 2018, n. 14074, ove il richiamo a Cass. 15 marzo 2016, n. 5091; nel medesimo senso, Cass. 3 dicembre 2018, n. 31187; v. altresì Cass. 2 maggio 2019, n. 11543). Rilevano, altresì, la condotta processuale della controparte ed ogni altro elemento idoneo a costituire argomento di prova, ai sensi dell’art. 116 c.p.c. Ne deriva che l’incompletezza della serie degli estratti conto si ripercuote comunque sul cliente, gravato dall’onere della prova degli indebiti pagamenti: in quanto, a quel punto, si comincia volta a volta dal “saldo a debito”, risultante dal primo estratto conto disponibile o da quelli intermedi dopo intervalli non coperti; oppure, ove lo deduca la stessa banca, si potrà partire dal cd. “saldo zero”. In mancanza di elementi nei due sensi indicati, dovrà assumersi, come dato di partenza per la rielaborazione delle successive operazioni documentate, il predetto saldo iniziale degli estratti conto acquisiti al giudizio, che, nel quadro delle risultanze di causa, è il dato più sfavorevole allo stesso attore”.

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2.6.4. Questa Corte, poi, ha puntualizzato pure (cfr. Cass. n. 7697 del 2023) che, nel giudizio che vede contrapposti una banca ed il suo cliente quanto al pregresso loro rapporto di conto corrente bancario, la ripartizione fra le parti dell’onere della prova (art. 2697 cod. civ.) impone, quando la banca vanta un credito derivato dal saldo finale di segno negativo di tale rapporto, la rideterminazione di tale saldo finale mediante la ricostruzione dell’intero andamento del rapporto, sulla base degli estratti conto a partire dalla sua apertura, non potendo ritenersi provato il credito in conseguenza della mera circostanza che il correntista non abbia formulato rilievi in ordine alla documentazione, incompleta, in giudizio depositata dalla banca (cfr. Cass. n. 21466 del 2013 e Cass. n. 15148 del 2018, entrambe richiamate, in motivazione, nelle successive Cass. n. 35979 del 2022).

2.6.5. Questo indirizzo ermeneutico, peraltro, ha subito una precisazione da parte di Cass. n. 23852 del 2020 e di Cass. n. 22387 del 2021, secondo cui: nei rapporti bancari di conto corrente, ove alla domanda principale diretta al pagamento del saldo del rapporto, proposta dalla banca, si contrapponga la domanda riconvenzionale del correntista di accertamento del saldo e di ripetizione dell’indebito, ciascuna delle parti è onerata della prova delle operazioni da cui si origina il saldo, con la conseguenza che la mancata documentazione di una parte delle movimentazioni del conto, il cui saldo sia a debito del correntista, non esclude una definizione del rapporto di dare e avere fondata sugli estratti conto prodotti da una certa data in poi: la mancata produzione degli estratti conto assume, infatti, una colorazione neutra sul piano della ricostruzione del rapporto di dare e avere e giustifica, come tale, un accertamento del saldo di conto corrente che non è influenzato dalle movimentazioni del periodo non documentato. Invero, proprio in quanto ognuna delle parti assume la veste di attore all’interno del giudizio, è inconcepibile che l’una e l’altra possano giovarsi delle conseguenze del mancato adempimento dell’onere probatorio della controparte, sicché, ove manchi la prova delle movimentazioni del conto occorse nel periodo iniziale del rapporto, il correntista non potrà aspirare al rigetto della domanda di pagamento della banca, ma, nel contempo, quest’ultima non potrà invocare, in proprio favore, l’addebito della posta iniziale del primo degli estratti conto prodotti (cfr. Cass. n. 22276 del 2023).

2.6.6. Cass. n. 25417 del 2023, inoltre, ha chiarito, affatto opportunamente, che “il criterio del cd. saldo zero, che consente, nel caso in cui la mancata produzione di parte degli estratti conto impedisca di ricostruire l’intero andamento del rapporto, di determinare il saldo finale considerando pari a zero il saldo iniziale del primo degli estratti conto prodotti, è utilizzabile, in quanto più sfavorevole alla banca, soltanto nel caso in cui il giudizio sia stato promosso dalla stessa, e non possa provvedersi all’accertamento del dare e dello avere sulla base di altri mezzi di prova idonei a fornire indicazioni certe e complete in ordine al saldo maturato all’inizio del periodo documentato, ovvero sulla base di ammissioni compiute dal correntista, idonee ad escludere quanto meno che, con riferimento al periodo non documentato, egli abbia maturato un credito d’imprecisato ammontare”.

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2.6.7. Nessun rilievo, infine, la giurisprudenza di legittimità attribuisce in controversie come quelle in esame, al criterio cd. della vicinanza della prova (cfr. Cass. n. 7697 del 2023). Infatti, è senz’altro vero che la ripartizione dell’onere della prova deve tenere conto, oltre che della distinzione tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio, riconducibile all’art. 24 Cost. ed al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’agire in giudizio, della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova (cfr. Cass., SU, n. 13533 del 2001, in motivazione; più di recente, in massima, Cass. n. 6008 del 2012; Cass. n. 486 del 2016, nonché, ancora in motivazione, Cass. n. 7697 del 2023). Peraltro, come puntualizzato da Cass. n. 33009 del 2019 (richiamata, in motivazione, dalla più recente Cass. n. 29632 del 2022), tale criterio, per il limite concettuale che è ad esso immanente, non può essere invocato ove ciascuna delle parti acquisisca, o possa agevolmente procurarsi, la disponibilità della prova (documentale) di cui si dibatta (il che accade, almeno di regola, nei rapporti di conto corrente bancario, mediante il periodico invio degli estratti conto al correntista e tenuto conto della possibilità di quest’ultimo di avvalersi dello strumento di cui all’art. 119, comma 4, T.U.B., che la giurisprudenza di legittimità ritiene utilizzabile anche per la richiesta degli estratti conto. Cfr. Cass. n. 11733 del 1999; Cass. n. 12093 del 2001; Cass., n. 15669 del 2007; Cass. n. 24641 del 2021; Cass. n. 7874 del 2022. Cass. n. 24181 del 2020, inoltre, ha precisato che dello strumento di cui all’art. 119, comma 4, T.U.B. possa avvalersi anche il fideiussore, atteso che il generico riferimento di detta disposizione al “cliente” “è idoneo a comprendere, ai fini della richiesta di documentazione, anche il fideiussore, il quale a sua volta può in senso lato definirsi un “cliente” della banca non diversamente dal correntista debitore principale. Ciò, in considerazione del fatto che, in ragione dell’accessorietà del rapporto di fidejussione rispetto al contratto di conto corrente e dunque dell’assunzione del contratto di conto corrente dal fideiussore garantito nel profilo dell’oggetto della fideiussione, il diritto del cliente di richiedere in ogni tempo la documentazione degli estratti conto deve ritenersi esteso anche al fideiussore

atteso che la fideiussione determina – come è rivelato dalle norme degli artt. 1944 e ss. c.c. -“rapporti fra il creditore ed il fideiussore”, i quali certamente e se si vuole sulla base di una lettura lata dell’art. 1945 c.c. implicano che il fideiussore debba potersi “informare”, proprio per esercitare i diritti riconosciuti da dette norme, sullo svolgimento del contratto di conto corrente e, dunque, necessariamente implicando il diritto all’esercizio del potere di cui all’art. 119 T.U.B. Detti rapporti, al di là di quanto implica lo stesso profilo causale della fideiussione, giustificano ampiamente che il fideiussore sia “cliente” agli effetti di quella norma”).

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2.7. Così ricostruito lo stato attuale della giurisprudenza di legittimità in controversie come quella oggi in esame, (…), come si è visto, contesta il criterio dell’azzeramento del conto, condiviso dalla corte distrettuale, in una vicenda in cui, in presenza di contrapposte domande della banca e della correntista, nessuna delle due aveva ritualmente e tempestivamente depositato gli estratti conto integrali.

2.7.1. Orbene, è noto, come si è riferito in precedenza, che la banca che si dica creditrice deve produrre gli estratti a partire dall’inizio del rapporto, dando così integrale dimostrazione del credito vantato con riguardo alle afferenti risultanze, esattamente come accade a parti invertite per il correntista ove si tratti di azione di ripetizione da questi avanzata per effetto della dedotta nullità di alcune clausole del contratto di conto (cfr., explurimis, Cass. n. 28945/2017; Cass. n. 20693/2016).

2.7.2. La questione di diritto sottesa alla censura in esame riguarda il criterio decisionale utilizzato dalla corte partenopea per determinare il credito invocato dalla banca, sostanzialmente assumendosi che il giudice, operando il cd. azzeramento del conto alla data dell’estratto più risalente nel tempo depositato dalla banca in giudizio, abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, finendo in sostanza per violare l’art. 2697 cod. civ.

2.8. Questa Corte, con la recente pronuncia resa da Cass. n. 22585 del 2023, ha considerato insoddisfacenti, in fattispecie analoga a quella odierna (caratterizzata, appunto, da contrapposte domande della banca, Datapubbllcazlone ottenere il pagamento del saldo del conto corrente, e della correntista, di rideterminazione di quel saldo depurato dagli importi non dovuti per capitalizzazione indebita, interessi ultralegali etc.), sia l’orientamento secondo cui la banca che non depositi gli estratti conto integrali a partire dall’apertura del rapporto di conto, ma solo da una data successiva, non possa giovarsi del saldo (a debito del cliente) risultante dall’estratto più antico prodotto, né dell’operazione con la quale il giudice disponga l’azzeramento del saldo risultante dall’estratto più antico, assunto come data di partenza per la ricostruzione del rapporto che tenga conto dei successivi versamenti e prelievi, eliminando le voci non dovute dal correntista, in quanto ciò comporterebbe l’alterazione sostanziale del rapporto di conto corrente bancario, non giustificabile sol perché la banca non sia in grado di produrre l’estratto iniziale (cfr. Cass. n. 9365 del 2018); sia l’altro orientamento per cui sarebbe possibile assumere il saldo zero come dato di partenza per le rielaborazioni delle successive operazioni documentate quando sia possibile escludere che il correntista, nel periodo in cui gli estratti sono mancanti, abbia maturato un credito, nel qual caso la domanda della banca che ha intrapreso il giudizio andrebbe respinta per il mancato assolvimento dell’onere della prova incombente su di essa (cfr. Cass. n. 11543/2019).

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2.8.1. Secondo la pronuncia suddetta, “Entrambe queste soluzioni non convincono. Non la prima (più rigorosa) perché pone sullo stesso piano situazioni non omogenee: quella della banca che ha assolto parzialmente o in modo incompleto all’onere probatorio su di essa gravante – depositando estratti conto incompleti ma comunque idonei a consentire, mediante la tecnica dell’azzeramento del saldo debitore (per il cliente) risultante dall’estratto iniziale (prodotto in causa), la effettiva e integrale ricostruzione del dare e avere, una volta depurate le voci non dovute nel periodo successivo – e quella della banca che non ha offerto alcun elemento di prova neppure parziale del credito azionato. Rigettare la domanda della banca per avere offerto una prova parziale (e non piena) del proprio credito, anche quando sia contabilmente possibile accertare il suo credito in misura inferiore al petitum, depurandolo dagli importi non dovuti dal cliente, sarebbe una operazione processualmente non condivisibile. Neppure può condividersi la seconda soluzione, secondo cui “in mancanza di elementi idonei ad escludere che il saldo iniziale, a debito del cliente, riportato nel primo degli estratti conto prodotti, possa convertirsi… in un saldo positivo di importo imprecisato (per il cliente), essa (banca) non potrà certamente aspirare a un azzeramento del saldo stesso”, per l’effetto che produce, in sostanza, di addossare impropriamente alla banca l’onere di provare l’insussistenza del credito del cliente alla data del primo estratto depositato. È vero che “non può teoricamente escludersi che il saldo intermedio (attestato dal primo degli estratti conto acquisiti al giudizio) sia di segno negativo proprio in ragione di pregressi addebiti di importi non dovuti e che esso potrebbe risultare, invece, di segno opposto (positivo dunque) ove lo si possa depurare dalle illegittime appostazioni” (cfr. Cass. 11543/2019). E tuttavia, la tecnica dell’azzeramento del saldo attestato dal primo degli estratti conto prodotti in giudizio è stata elaborata nella prassi proprio per evitare gli inconvenienti determinati dalle incertezze nella ricostruzione delle movimentazioni poste in atto nel periodo successivo, in quanto viziate dalle illegittime appostazioni precedenti. Tale tecnica è comunque coniugata con l’onere del correntista di offrire la prova del suo credito all’epoca del primo estratto acquisito in giudizio, la quale – se offerta – metterebbe in crisi la praticabilità dell’azzeramento del saldo negativo risultante dall’estratto stesso”.

2.9. Tanto premesso, il Collegio ritiene di dover ribadire, in sostanziale continuità con il più recente indirizzo al quale si è fatto cenno nel precedente § 2.6.5. di questa motivazione, – cui la sentenza non definitiva oggi impugnata ha mostrato di essersi sostanzialmente attenuta – che, nelle controversie aventi ad oggetto un rapporto di conto corrente bancario, l’istituto di credito ed il correntista sono onerati della dimostrazione dei fatti rispettivamente posti a fondamento delle loro domande e/o eccezioni, tanto costituendo evidente applicazione del principio sancito dall’art. 2697 cod. civ.

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2.9.1. È innegabile, peraltro, che, ove alla domanda della banca diretta al pagamento del saldo del conto si contrappongano le pretese del correntista di rideterminazione di quel saldo, depurato dagli importi asseritamente non dovuti (ad esempio, per capitalizzazione indebita, interessi ultralegali e/o usurari, commissione di massimo scoperto etc.), e di ripetizione di indebito, il reciproco onere probatorio deve trovare concreta attuazione in modo tale da scongiurare, ove possibile, il risultato di ritenere che, nell’ambito della medesima causa, il saldo da prendere in considerazione (la cui determinazione costituisce, come appare intuitivo, il sostrato comune delle contrapposte istanze) possa essere diverso a seconda che si valuti la domanda di una o dell’altra parte; parimenti, occorre evitare di gravare una delle parti dell’onere di dimostrare l’eventuale insussistenza di un credito o di un minor debito dell’altra. A tali fini, dunque, appaiono opportune le seguenti puntualizzazioni.

2.9.2. Innanzitutto, è doveroso muovere dal rilievo che, nei rapporti bancari di conto corrente, una volta esclusa la validità della pattuizione di interessi ultralegali o anatocistici a carico del correntista (oppure la non debenza di commissioni di massimo scoperto o, ancora, il non corretto calcolo dei giorni valuta) e riscontrata la mancanza di una parte degli estratti conto, l’accertamento del dare ed avere può attuarsi con l’impiego anche di ulteriori mezzi di prova idonei a fornire indicazioni certe e complete che diano giustificazione del saldo maturato all’inizio del periodo per cui sono stati prodotti gli estratti conto stessi (cfr. Cass. n. 22290 del 2023; Cass. n. 10293 del 2023). Questi ultimi, infatti, non costituiscono l’unico mezzo di prova attraverso cui ricostruire le movimentazioni del rapporto. Essi – come rimarcato dalla già menzionata Cass. n. 37800 del 2022 (e sostanzialmente ribadito dalle più recenti Cass. n. 10293 del 2023 e Cass. n. 22290 del 2023) – consentono di avere un appropriato riscontro dell’identità e della consistenza delle singole operazioni poste in atto; tuttavia, in assenza di un indice normativo che autorizzi una diversa conclusione, non può escludersi che l’andamento del conto possa accertarsi avvalendosi di altri strumenti rappresentativi delle intercorse movimentazioni. In tal senso, allora, a fronte della mancata acquisizione di una parte dei citati estratti, il giudice del merito: I) ben può valorizzare altra e diversa documentazione, quale, esemplificativamente, e senza alcuna pretesa di esaustività, le contabili bancarie riferite alle singole operazioni, oppure, giusta gli artt. 2709 e 2710 cod. civ., le risultanze delle scritture contabili (ma non l’estratto notarile delle stesse, da cui risulti il mero saldo del conto: Cass. 10 maggio 2007, n. 10692 e Cass. 25 novembre 2010, n. 23974), o, ancora, gli estratti conto scalari (cfr. Cass. n. 35921 del 2023; Cass. n. 10293 del 2023; Cass. n. 23476 del 2020; Cass. n. 13186 del 2020), ove il c.t.u. eventualmente nominato per la rideterminazione del saldo del conto ne disponga nel corso delle operazioni peritali, spettando, poi, al giudice predetto la concreta valutazione di idoneità degli estratti da ultimo a dar conto del dettaglio delle movimentazioni debitorie e creditorie (come già opinato proprio dalla citata Cass. n. 13186 del 2020, non massimata, in presenza di una valutazione di incompletezza degli estratti da parte del giudice del merito), oppure, come sancito da una recentissima pronuncia di questa Corte tuttora in corso di pubblicazione (resa nel giudizio n.r.g. 14776 del 2019), anche la stampa dei movimenti contabili risultanti a video dal data base della banca, ottenuta dal correntista avvalendosi del servizio di home banking, se non contestata in modo chiaro, circostanziato ed esplicito dalla banca quanto alla sua non conformità a quanto evincibile dal proprio archivio (cartaceo o digitale); II) parimenti, può attribuire rilevanza alla condotta processuale delle parti e ad ogni altro elemento idoneo a costituire argomento di prova, ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ.

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2.9.3. Successivamente, per far fronte alla necessità di elaborazione di tali dati così acquisiti, quello stesso giudice può certamente avvalersi di un consulente d’ufficio, essendo sicuramente consentito svolgere un accertamento tecnico contabile al fine di rideterminare il saldo del conto in base a quanto comunque emergente dai documenti prodotti in giudizio (cfr. Cass. n. 14074 del 2018; Cass. n. 5091 del 2016. Nel medesimo senso, si vedano pure Cass. n. 31187 del 2018; Cass. n. 11543 del 2019).

2.9.4. È innegabile, peraltro, che malgrado la richiamata, vasta tipologia di documentazione utilizzabile per la integrale ricostruzione delle operazioni che si sono susseguite sul conto (spesso in un arco temporale anche molto ampio), non sia possibile addivenire a quel risultato, sicché, solo in tale ipotesi al giudice di merito sarà consentito utilizzare, dandone adeguata giustificazione, i metodi di calcolo che ritenga più idonei al raggiungimento comunque di un risultato che rispecchi quanto più possibile l’avvenuto effettivo sviluppo del rapporto tra le parti.

2.9.5. In quest’ottica, dunque, potrà certamente trovare applicazione anche il criterio dell’azzeramento del saldo o del cd. saldo zero, il quale, pertanto, altro non rappresenta che uno dei possibili strumenti attraverso il quale può esplicitarsi il meccanismo della ripartizione dell’onere probatorio tra le parti sancito dall’art. 2697 cod. civ.

2.9.6. Ne consegue che se la banca agisca in giudizio per il pagamento dell’importo risultante a saldo passivo ed il correntista chieda, a sua volta, la rideterminazione del saldo, concludendo o per la condanna dell’istituto di credito a pagare in proprio favore o per l’accoglimento della domanda di quest’ultimo in misura inferiore rispetto a quella originariamente formulata, l’eventuale carenza di alcuni estratti conto o, comunque di altra documentazione che consenta l’integrale ricostruzione dell’andamento del rapporto, comporta che: I) per quanto riguarda la banca, il calcolo del dovuto potrà farsi: I-a) nell’ipotesi in cui non ci sia in atti documentazione che risalga all’inizio del rapporto (ricordandosi, in proposito, che la banca non può sottrarsi all’assolvimento di un tale onere invocando l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni, perché non si può confondere l’onere di conservazione della documentazione contabile con quello di prova del proprio credito. Cfr. Cass. n. 13258 del 2017; Cass. n. 7972 del 2016; Cass. n. 19696 del 2014; Cass. n. 1842 del 2011; Cass. n. 23974 del 2010; Cass. n. 10692 del 2007), azzerando il saldo di partenza del primo estratto conto disponibile (ove quest’ultimo non coincida, appunto, con il primo estratto del rapporto) e procedendo, poi, alla rideterminazione del saldo finale utilizzando la completa documentazione relativa al periodo successivo fino alla chiusura del conto (o alla data della domanda); i-b) laddove manchi documentazione riguardante uno o più periodi intermedi, azzerando i soli saldi intermedi: intendendosi, con tale espressione, che non si dovrà tenere conto di quanto eventualmente accumulatosi nel periodo non coperto da documentazione, sicché si dovrà ripartire, nella prosecuzione del ricalcolo, dalla somma che risultava a chiusura dell’ultimo estratto conto disponibile (la banca, cioè, perde solo quello che si sarebbe accumulato nel periodo non coperto dagli estratti conto mancanti, sicché il dato finale risulterà abbattuto di quella somma); II) per quanto riguarda, invece, il correntista che lamenti l’illegittimo addebito di importi non dovuti (per anatocismo, usura, pagamento di interessi ultralegali non pattuiti per iscritto, commissioni di massimo scoperto etc.) e ne chieda la restituzione, egli si trova, in realtà, in posizione praticamente analoga a quella della banca, atteso che il calcolo del dovuto potrà farsi tenendo conto che: II-a) nell’ipotesi in cui non ci sia in atti documentazione che risalga all’inizio del rapporto, egli o dimostra l’eventuale vantata esistenza di un saldo positivo in suo favore, o di un minore saldo negativo a suo carico (ma, in tal caso, la corrispondente documentazione vale per entrambe le parti, per il congegno di acquisizione processuale), o beneficia comunque dell’azzeramento del saldo di partenza del primo estratto conto disponibile (ove quest’ultimo non coincida, appunto, con il primo estratto del rapporto) e della successiva rideterminazione del saldo finale avvenuta utilizzando la completa documentazione relativa al periodo successivo fino alla chiusura (o alla data della domanda); II-b) laddove manchi documentazione riguardante uno o più periodi intermedi, anche in tal caso, egli, se sostiene che in quei periodi si è accumulata una somma a suo credito o un minore importo a suo debito per effetto, ad esempio di anatocismo e/o usura e/o pagamento di interessi ultralegali non pattuiti e/o commissioni di massimo scoperto non concordate, lo deve provare, producendo la corrispondente documentazione che, in tal caso, però, nuovamente sarà utilizzabile anche per la controparte, sempre per il congegno di acquisizione processuale. Altrimenti, beneficerà del meccanismo di azzeramento del/i saldo/i intermedio/i nel significato in precedenza chiarito, con l’evidente risultato che la banca, per quel/quei periodo/i, non ottiene niente ed il correntista, per lo stesso o gli stessi periodi, nulla recupera. Questi, cioè, è come se non ci fossero, posto che nessuno ha provato che cosa sia successo. Con la conseguenza che l’estratto conto immediatamente successivo, e tutti i successivi ancora, devono essere corretti ricollegando l’ultimo saldo disponibile al primo saldo in cui ricominciano ad essere presenti gli estratti conto.

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2.9.7. In questo modo, dunque, il problema del rischio di due saldi difformi viene meno e, in buona sostanza, il meccanismo dell’azzeramento (anche di quello, prima definito intermedio, per eventuali intervalli temporali in cui mancano gli estratti conto) funziona allo stesso modo sia per la banca che per il correntista.

2.10. Fermo quanto precede, l’impugnata sentenza non definitiva n. 4571 del 2016 della Corte di appello di Napoli, si rivela coerente con il modus procedendi fin qui descritto quanto alla individuazione del criterio di determinazione del credito invocato da , sicché l’odierna doglianza della banca principale deve essere respinta.

2.10.1. La corte distrettuale, infatti, ha disposto (in vista del successivo ricalcolo affidato al c.t.u., previa contestuale avvenuta rimessione della causa sul ruolo, con separata ordinanza, per il relativo adempimento) l’azzeramento del saldo (negativo per la correntista) del primo estratto conto disponibile relativo all’unico conto corrente ordinario (n. 220.08) di cui ha ritenuto dovuta la rideterminazione, avendo considerato inutilizzabile la documentazione riguardante il precedente conto n. 4373, acceso presso l’agenzia 1, alla cui chiusura aveva fatto seguito quello n. 5634, presso l’agenzia 5, nel quale il saldo finale del primo aveva costituito il valore iniziale del secondo. Parimenti, alla chiusura del conto n. 5634, aveva fatto seguito, a sua volta, quello n. 222.08, presso l’agenzia 1, il cui valore iniziale costituiva il saldo finale di quello, precedente, appena menzionato (cfr., amplius, pag. 30 della menzionata sentenza).

2.10.2. Analogamente, poi, si è regolata anche con riferimento alla rideterminazione dei soli conti anticipi (221/01 e 2406698.31) presi in considerazione (perché sorti e regolati in relazione al menzionato conto ordinario n. 220.08).

2.10.3. Nei corrispondenti sensi, pertanto, la medesima corte ha deciso la lite nella sua sentenza definitiva n. 5190 del 2017, avvalendosi dei relativi conteggi effettuati dal c.t.u.

3. Tornando, a questo punto, al ricorso incidentale di (…) s.r.l.(…) in liquidazione, Ra.D. e Co.Ma., il suo secondo motivo, rubricato “Violazione ed errata applicazione degli artt. 91, comma 1 e 92, comma 2, c.p.c.. Vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)”, contesta alla corte di merito di avere errato nel compensare parzialmente le spese di lite, pur essendo la banca risultata completamente soccombente.

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3.1. Orbene, premesso che la corte territoriale, nella qui impugnata sentenza definitiva n. 5190 del 2017, ha ritenuto di dover applicare una riduzione di 2/3 “tenuto conto di quanto riconosciuto dovuto alla società appellante ((…) s.r.l. Ndr), rispetto a quanto preteso in misura di gran lunga maggiore…”, la doglianza in questione non merita accoglimento posto che, come può leggersi in Cass. n. 9104 del 2023: I) in materia di compensazione delle spese, “il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa” (cfr. tra le più recenti, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 3308 del 2023; Cass. n. 37825 del 2022; Cass. n. 10685 del 2019); II) il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse ed il suddetto criterio non può essere frazionato secondo l’esito delle varie fasi del giudizio ma va riferito unitariamente all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi soccombente abbia conseguito un esito a lei favorevole (cfr. Cass. n. 37825 del 2022, nonché, in senso sostanzialmente conforme, la già citata n. Cass. n. 3308 del 2023; III) le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che “l’accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza, configurabile esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un’unica domanda articolata in più capi, e non consente quindi la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione totale o parziale, in presenza degli altri presupposti previsti dall’art. 92, comma 2, cod. proc. civ.” (cfr. Cass., SU, n. 32061 del 2022).

4. In definitiva, quindi, vanno respinti sia il ricorso principale di (…) s.p.a., sia quello incidentale proposto da (…) s.r.l.(…) in liquidazione, Ra.D. e Co.Ma., con compensazione integrale delle spese di questo giudizio di legittimità tra le suddette parti (uniche costituite), in ragione della loro reciproca soccombenza.

4.1. Deve darsi atto infine, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 -che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte di (…) s.p.a., nonché dei menzionati ricorrenti incidentali in solido tra loro, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per i rispettivi ricorsi a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

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PER QUESTI MOTIVI

La Corte rigetta il ricorso principale di (…) s.p.a..

Rigetta il ricorso incidentale proposto da (…) s.r.l.(…) in liquidazione, Ra.D. e Co.Ma.

Compensa interamente tra le parti le spese di questo giudizio di legittimità.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte di (…) s.p.a., nonché dei menzionati ricorrenti incidentali in solido tra oro, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per i rispettivi ricorsi, giusta il comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima sezione civile della Corte Suprema di cassazione, l’11 gennaio 2024.

Depositata in Cancelleria il 17 gennaio 2024.

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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