Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 5 maggio 2016, n. 9035
Svolgimento del processo
1 Con citazione del 13.3.1993, i coniugi M.M. e Ca.Gi. , T.L. e F.D.L.M. nonché C.F. e G.S. convennero innanzi al Tribunale di Palermo la s.r.l. Immobiliare Fratelli Lo Cicero, esponendo:
– che con atti del 17.10.1988, 21.10.1988 e 10.10.1988 avevano acquistato dalla società convenuta alcuni appartamenti al terzo, quarto e quinto piano dell’edificio sito in (OMISSIS) ;
– che l’edificio era composto da sei elevazioni fuori terra e sul lastrico solare, al quale i condomini accedevano liberamente attraverso la scala, erano stati originariamente realizzati solo dei corpi tecnici, costituiti dal torrino scala, dal torrino ascensore e da uno stenditoio aperto;
– che la società convenuta, pur non essendosi riservata la proprietà esclusiva del lastrico solare e dello stenditoio, aveva chiuso ed ampliato tale ultimo manufatto, aggregandovi un piccolo vano da adibire a WC, ed aveva sopraelevato il torrino dell’ascensore, precludendo ogni via d’accesso dei condomini a tali beni.
Chiesero, pertanto, al Tribunale di accertare che il lastrico solare e lo stenditoio appartenevano ex art. 1117 c.c. agli istanti in proporzione alle loro quote di proprietà condominiale e che la convenuta fosse condannata alla riduzione in pristino e al risarcimento del danno.
In subordine, chiesero dichiararsi che le opere realizzate dalla società sul lastrico solare e sullo stenditoio appartenevano per accessione ai condomini, con diritto degli stessi di ritenerle previo pagamento della minor somma tra il valore delle opere e il costo di materiali e mano d’opera.
La società convenuta si costituì nel giudizio chiedendo l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i condomini, il rigetto delle domande degli attori e, in via riconvenzionale, l’accertamento del suo diritto di proprietà esclusiva sull’appartamento sito al settimo piano, avendolo realizzato e posseduto fin dall’anno 1988.
Nel giudizio intervenne volontariamente il Condominio dell’edificio aderendo alle domande degli attori.
Dopo l’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio, il Tribunale adito, con sentenza n. 5406/01 del 22.3.2001, dichiarò che il lastrico solare ed i corpi ivi insistenti appartenevano in comune agli attori in proporzione alla loro quota di proprietà condominiale e ordinò alla convenuta di consentire agli attori il libero accesso a tali immobili, lasciandoli liberi da persone e cose; rigettò la domanda di risarcimento del danno nonché la domanda riconvenzionale spiegata dalla convenuta.
La società soccombente impugnò la sentenza davanti alla Corte d’Appello di Palermo che, all’esito di nuova consulenza tecnica, con sentenza n. 818/2010 del 17.6.2010, rigettò l’impugnazione rilevando, per quanto ancora interessa:
– che la domanda riconvenzionale non era stata riproposta con l’atto di appello e pertanto doveva intendersi rinunciata;
– che sulla questione riguardante il contraddittorio si era formato il giudicalo interno;
che la documentazione prodotta dall’appellante dopo la rimessione della causa al collegio era inammissibile per tardività stante l’opposizione degli. appellati;
– che dalla domanda di concessione in sanatoria presentata dall’appellante l’1.4.1986 risultava l’edificazione di sei piani fuori terra e di cinque abitazioni realizzate dal primo al quinto piano;
– che, come accertato dal CTU, la settima elevazione era stata dichiarata al N.C.E.U. solo con denuncia di variazione del 17.4.1990 e solo in data 6.12.1991, a corredo dell’istanza di condono, era stato depositato un progetto da cui risultava alla settima elevazione un ambiente avente una superficie utile di mq. 30,15, oltre al WC di mq. 2,70;
– che pertanto, al momento delle vendite degli appartamenti da parte della società, al di sopra della sesta elevazione vi erano soltanto il lastrico solare, i corpi tecnici e lo stenditoio aperto;
– che, come pure accertato dal CTU l’accesso alla settima elevazione avveniva in precedenza dalla sesta, a mezzo scala, di cui, al momento del sopralluogo, era rimasto solo il controtelaio in ferro;
– che l’appellante società non aveva provato di avere eseguito le predette modifiche prima delle vendite degli appartamenti sottostanti, per cui non poteva ritenersi superata la presunzione di comproprietà dei beni di cui all’art. 1117 c.c..
Per la cassazione della sentenza ricorre la Immobiliare F.lli Lo Cicero s.r.l., in persona dell’amministratore giudiziario, sulla base di tre motivi.
Hanno depositato controricorso i coniugi T. – D.L. e G. – C. nonché M.M. in proprio e, unitamente ai figli Giuseppa e Rosa, in qualità di erede di Ca.Gi. , frattanto deceduto.
Il Condominio dell’edificio non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la società ricorrente denuncia violazione, falsa ed errata applicazione degli artt. 2 ter e 2 quater l. n. 575/1965, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo (in relazione all’art. 360 n. 3 e 5,), per avere la Corte d’Appello omesso di valutare, considerandolo tardivamente depositato, i3 decreto di confisca emesso nei suoi confronti dalla sezione misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo e riguardante anche l’appartamento al sesto ed ultimo piano del fabbricato per cui è causa; richiama la descrizione fatta nel precedente provvedimento di sequestro e ritiene che, essendo il bene vincolato al perseguimento delle finalità indicate dalla normativa in materia, occorre che gli interessati facciano valere i propri diritti nelle forme dell’incidente di esecuzione davanti al giudice penale (provando in quella sede, tra l’altro, la loro buona fede).
Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
È senz’altro inammissibile per difetto di specificità (art. 366 n. 6 cpc) perché la ricorrente non riporta il contenuto del decreto di confisca (e neppure lo allega al ricorso); né soccorre il contenuto del decreto di sequestro, emesso il 2.4.2001 sempre nel procedimento di prevenzione e che – stando a quanto riporta lo stesso ricorso a pag. 11 – si riferirebbe ad un locale ad uso ufficio o studio di due vani ubicato al piano sesto mentre invece oggetto di giudizio è un lastrico solare e uno stenditoio.
Inoltre, non è dato neppure sapere se la confisca sia divenuta definitiva.
Si rivela pertanto superfluo stabilire oggi se il deposito del decreto di confisca dopo la rimessione della causa al Collegio nel giudizio di appello fosse ammissibile o meno nel presente giudizio (disciplinato dal vecchio rito).
In ogni caso – ed il rilievo è dirimente – le conseguenze derivanti dalla produzione del documento in giudizio non sarebbero quelle invocate dalla parte ricorrente perché la questione della natura condominiale dei beni di cui oggi si discute non avrebbe potuto essere affrontata che in questa sede. Ed infatti, come già affermato in giurisprudenza in ipotesi di diritti reali di garanzia costituiti sui beni oggetto del provvedimento ablativo nei confronti di un indiziato di appartenenza a consorteria mafiosa, camorristica o similare, in epoca anteriore all’instaurazione del procedimento di prevenzione, in favore di terzi estranei ai fatti che abbiano dato luogo al procedimento medesimo)tra i soggetti terzi che possono intervenire in sede di incidente di esecuzione davanti al giudice penale non possono essere annoverati i titolari di diritti che sono sorti sulla cosa senza alcun collegamento con l’attività dell’indiziato o collusione con esso (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 16227 del 29/10/2003 Rv. 567758, in motivazione).
Sulla base di tale principio – applicabile logicamente anche nel caso di specie, in cui si tratta di stabilire la natura condominiale di un bene – è chiaro che i preesistenti diritti vantati dai condomini non avevano alcun collegamento con l’attività dell’indiziato o collusione con esso e per rendersi conto di ciò è sufficiente considerare non solo la data di proposizione della domanda giudiziale (ben otto anni prima che intervenisse il sequestro) ma, soprattutto, l’assoluto silenzio del ricorso su tale dirimente circostanza Sotto quest’ultimo profilo la censura si rivela pertanto infondata (v. anche Sez. 2, Sentenza n. 8834 del 30/04/2015 Rv. 635186; Sez. 2, Sentenza n. 6661 del 30/03/2005 Rv. 580252).
2. Con il secondo motivo ci si duole della violazione dell’art. 1117 c.c., nonché del vizio di motivazione (in relazione all’art. 360, co. 1, nn. 3 e 5, c.p.c.): la Corte d’Appello non avrebbe considerato che dagli accertamenti e dalle indagini propedeutiche al sequestro penale, dalla richiesta di condono edilizio presentata in data 1.4.1986 e dal rilievo aerofotogrammetrico del 27.3.1987 era emerso che l’immobile al settimo piano del fabbricato, destinato ad ufficio, esisteva già prima del 1988 (e, quindi, delle vendite agli attori) ed era destinato a ufficio.
La ricorrente procede quindi ad una ricostruzione della vicenda edificatoria sulla scorta della documentazione tecnica che richiama e ritiene che la presunzione di condominialità nel caso di specie doveva ritenersi superata.
Anche tale motivo è infondato.
La natura condominiale del lastrico solare, affermata dall’art. 1117 cod. civ., può essere esclusa soltanto da uno specifico titolo in forma scritta, essendo irrilevante che il singolo condomino non abbia accesso diretto al lastrico, se questo riveste, anche a beneficio dell’unità immobiliare di quel condomino, la naturale funzione di copertura del fabbricato comune (tra le varie, Sez. 2, Sentenza n. 4501 del 05/03/2015).
È vero che l’art. 1117 cod. civ. contiene un’elencazione solo esemplificativa e non tassativa dei beni che si presumono comuni poiché sono tali anche quelli aventi un’oggettiva e concreta destinazione al servizio comune, salvo che risulti diversamente dal titolo, mentre, al contrario, tale presunzione non opera con riguardo a beni che, per le proprie caratteristiche strutturali, devono ritenersi destinati oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari (Sez. 2, Sentenza n. 1680 del 29/01/2015). Ed è altrettanto vero che il diritto di condominio sulle parti comuni dell’edificio ha il suo fondamento nel fatto che tali parti siano necessarie per l’esistenza dell’edificio stesso, ovvero che siano permanentemente destinate all’uso o al godimento comune, sicché la presunzione di comproprietà posta dall’art. 1117 cod. civ., che contiene un’elencazione non tassativa ma meramente esemplificativa dei beni da considerare oggetto di comunione, può essere superata se la cosa, per obbiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all’uso o al godimento di una parte dell’immobile, venendo meno, in questi casi, presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria, giacché la destinazione particolare del bene prevale sull’attribuzione legale, alla stessa stregua del titolo contrario (Sez. 2, Sentenza n. 17993 del 02/08/2010).
La giurisprudenza di questa Corte ha altresì affermato che in tema di condominio negli edifici, per tutelare la proprietà di un bene appartenente a quelli indicati dall’art. 1117 cod. civ. non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumerne la natura condominiale, che esso abbia l’attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo, e cioè sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da accessorio a principale, mentre spetta al condomino che ne afferma la proprietà esclusiva darne la prova (Sez. 2, Sentenza n. 11195 del 07/05/2010). Inoltre, al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui all’art. 1117 cod. civ., occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto. Pertanto, se in occasione della prima vendita la proprietà di un bene potenzialmente rientrante nell’ambito dei beni comuni (nella specie, portico e cortile) risulti riservata ad uno solo dei contraenti, deve escludersi che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni (Sez. 2, Sentenza n, 11812 del 27/05/2011).
Nel caso di specie, la Corte d’Appello ha osservato che negli atti di compravendita è del tutto assente una riserva di proprietà esclusiva da parte della venditrice; di contro, l’espressa indicazione contrattuale del trasferimento della comproprietà di quanto per legge è comune tra i condomini di uno stesso stabile ai sensi dell’art. 1117 dimostra che la ricorrente riteneva il lastrico e lo stenditoio parti condominiali, tanto da non distinguere la loro condizione giuridica da quella delle restanti parti comuni.
Sempre secondo l’apprezzamento della Corte territoriale, la ricorrente non ha idoneamente dimostrato, come invece sarebbe stato suo preciso onere, che i cespiti per cui è disputa siano di sua proprietà esclusiva per espressa previsione in un titolo, così come non ha dimostrato di aver apportato sul lastrico solare le modifiche imputatele prima degli atti di compravendita del 1988.
Il ragionamento della Corte d’Appello si basa su tipici accertamenti in fatto ed è immune di vizi logici mentre invece la ricorrente in violazione del principio di autosufficienza, non ha neppure trascritto il decreto di sequestro per la parte (pag. 38) da cui a suo dire emergerebbe (ma non è dato sapere a partire da quale periodo) l’esistenza dell’immobile in questione e la sua destinazione ad uso ufficio; inoltre le valutazioni riportate a pag. 23 del ricorso ed ascrivibili al tecnico nominato dall’amministrazione giudiziaria (ing. D. ), oltre a non essere state riprodotte, sono meramente ipotetiche e soggettive.
Infine, sempre in violazione del principio di autosufficienza, la ricorrente non riproduce neppure le pagg. 5-6 della perizia di parte a firma del geom. R. dalla quale si desumerebbe che nel 1988 essa aveva già realizzato sul lastrico solare un edificio di circa 25 mq ed un piccolo locale di mq. 5 circa adibito presumibilmente a WC.
Contrariamente a quanto pure si legge in ricorso la Corte d’Appello non ha affatto omesso di valutare le risultanze del rilievo aerofotogrammetrico del 27.3 1987, ma ha rilevato (pagg. 10-11 della sentenza) che dallo stesso non emergeva se il torrino dell’ascensore si trovasse già all’epoca alla quota attuale e se il piccolo vano WC fosse già finito o in fase di costruzione, né se già allora lo stenditoio fosse stato chiuso; d’altra parte, la stessa ricorrente nuovamente ammette (cfr. pag. 22 del ricorso) che nel marzo del 2007 comunque mancava ancora la veranda.
La critica della ricorrente si risolve in definitiva una alternativa ricostruzione delle risultanze processuali che il giudizio di legittimità non consente.
3. Con il terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. (in relazione agli artt. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.), per averla la Corte erroneamente condannata al pagamento delle spese relative al doppio grado di giudizio.
Il motivo è infondato: nessuna critica riscontrabile, atteso che i giudici di merito hanno fatto corretta applicazione del principio di soccombenza.
In conclusione, il ricorso va rigettato e la ricorrente, soccombente anche in questo grado, va condannata al rimborso delle spese di giudizio.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 4.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
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