Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|10 giugno 2024| n. 16107.
Il diritto del mandatario al compenso e alle spese non deriva dalla mera allegazione del contratto
Il diritto del mandatario al compenso e alle spese non deriva dalla mera allegazione del contratto, essendo invece necessaria la prova del suo adempimento, poiché nella struttura esecutiva del mandato, regolato da una piena corrispettività, il mandatario è tenuto ad adempiere per primo la sua obbligazione per dare effettività a quella, contrapposta, del mandante.
Ordinanza|10 giugno 2024| n. 16107. Il diritto del mandatario al compenso e alle spese non deriva dalla mera allegazione del contratto
Data udienza 27 maggio 2024
Integrale
Tag/parola chiave: Mandato – Obbligazioni del mandante – Spese e compenso del mandatario contratto di mandato – Sinallagamaticità – Diritto del mandatario al corrispettivo ed alle spese – Onere della prova – Mera allegazione del titolo – Sufficienza – Esclusione – Esecuzione del mandato – Necessità – Fondamento.
REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCODITTI Enrico – Presidente
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere Rel.
Dott. SIMONE Roberto – Consigliere
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere
Dott. GORGONI Marilena – Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 29229/2022 R.G. proposto da:
Ce.Gi., elettivamente domiciliato in Roma via (…), presso lo studio dell’avvocato An.Fe. (omissis) rappresentato e difeso dagli avvocati Ia.Fr. (omissis), Sc.An. (omissis)
– ricorrente –
contro
As.Ca., domiciliata ex lege in Roma, Piazza Cavour presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Ca.Fi. (omissis)
– controricorrente –
nonché contro
Te.Cl., elettivamente domiciliato in Roma Via (…), presso lo studio dell’avvocato Co.Ma. (omissis) rappresentato e difeso dall’avvocato Nu.Au. (omissis)
– controricorrente –
avverso Sentenza di Corte d’Appello Napoli n. 1779/2022 depositata il 28/4/2022;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27/5/2024 dal Consigliere Chiara Graziosi:
Il diritto del mandatario al compenso e alle spese non deriva dalla mera allegazione del contratto
RILEVATO CHE:
Ce.Gi. conveniva davanti al Tribunale di Napoli Te.Cl. e De.Ma. per ottenerne la condanna a corrispondergli la somma di Euro 60.000 quale compenso a seguito della sua esecuzione di un contratto di mandato tra loro stipulato per lo svolgimento di attività dirette alla dismissione, per almeno Euro 700.000, di un immobile sito in A, di cui i convenuti erano comproprietari: attività che sarebbero culminate nell’esproprio dell’immobile da parte del Comune di A per una indennità di Euro 832.281,38, accettata dai convenuti stessi, i quali però avrebbero rifiutato di pagare il compenso concordato al Ce.Gi. I convenuti si costituivano, resistendo.
Nell’istruttoria venivano espletati l’interrogatorio formale del Te.Cl. e l’escussione di due testimoni. Il giudizio veniva dichiarato interrotto all’udienza del 15 dicembre 2016 – destinata alla precisazione delle conclusioni – per il sopravvenuto decesso della De.Ma.; l’attore si attivava per la riassunzione, per cui all’udienza del 5 aprile 2018 si costituiva As.Ca., figlia della de cuius, dichiarando di avere rinunciato all’eredità, come i coeredi As.Em. e As.Fr., anteriormente alla notifica del ricorso in riassunzione.
All’udienza del 9 maggio 2019 il Ce.Gi. rinunciava alla domanada nei confronti della De.Ma. e dei suoi eredi, e quindi la causa era trattenuta in decisione.
Con sentenza del 30 settembre 2019 il Tribunale rigettava la domanda attorea nei confronti del Te.Cl. e dei chiamati all’eredità della De.Ma., condannando l’attore a rifondere le spese al Te.Cl. e a As.Ca.
Il Ce.Gi. proponeva appello, cui resistevano il Te.Cl. e As.Ca., gli altri As. rimanendo contumaci.
Con sentenza del 28 aprile 2022 la Corte d’appello di Napoli rigettava il gravame, condannando l’appellante a rifondere le spese al Te.Cl. e a As.Ca.
Il Ce.Gi. ha presentato ricorso, articolato in quattro motivi, da cui si sono difesi con rispettivo controricorso il Te.Cl. e As.Ca. Il Te.Cl. ha depositato anche memoria.
Il diritto del mandatario al compenso e alle spese non deriva dalla mera allegazione del contratto
CONSIDERATO CHE:
1. Il primo motivo denuncia, ex articolo 360, primo comma, n.4 c.p.c., nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 303 e 91 ss. c.p.c.
1.1.1 Il motivo attiene alla vicenda processuale successiva alla morte della De.Ma., esposta nella premessa del ricorso come segue.
Il decesso veniva dichiarato interrotto all’udienza del 15 dicembre 2016; il 17 gennaio 2017 il ricorrente, allora attore, depositava ricorso in riassunzione. Con provvedimento del 2 febbraio 2017, il giudice istruttore fissava l’udienza di prosecuzione al 15 maggio 2017, concedendo termine per la notifica agli eredi di ricorso e decreto fino al 7 aprile 2017; l’attore si attivava, ma la notifica non andava a buon fine, per cui all’udienza del 18 maggio 2017 (sic) chiedeva l’autorizzazione a rinnovare la notifica. Autorizzato, depositava infine l’atto notificato agli eredi collettivamente e personalmente.
All’udienza del 5 aprile 2018 si costituiva quindi As.Ca., eccependo difetto di legittimazione passiva per avere rinunciato – come gli altri coeredi As.Em. e As.Fr. – all’eredità; successivamente, all’udienza del 9 maggio 2019 il Ce.Gi. rinunciava alla domanda nei confronti della De.Ma. e dei suoi “eredi” (ricorso, pagina 3).
Sempre nella premessa del ricorso, il Ce.Gi. aveva esposto di essersi appellato per quattro motivi, dei quali i primi due rispettivamente riguardavano la pretesa erroneità della sentenza laddove il primo giudice non aveva ritenuto regolare la notifica dell’atto di riassunzione compiuta il 14 ottobre 2017 “perché effettuata a soggetti privi della legitimatio ad causam” e laddove aveva riconosciuto la qualità di parte ai tre As., che invece, avendo rinunciato all’eredità, “non sarebbero titolari del rapporto dedotto in giudizio”, con conseguente erroneità della pronunciata condanna a rifondere le spese di lite a As.Ca.
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1.1.2 Deduce quindi il ricorrente nel motivo in esame che la corte territoriale, pur ritenendo valida la notifica effettuata collettivamente e personalmente agli eredi (rectius, chiamati all’eredità) ex articolo 303, secondo comma, c.p.c., avrebbe tuttavia errato rigettando il motivo d’appello attinente alla rifusione delle spese processuali a As.Ca., confondendo, se non sovrapponendo, il profilo della legitimatio ad causam con “quello della soccombenza, unica condizione che giustifica la condanna alle spese”. Avendo appreso della rinuncia all’eredità dei chiamati ad essa, infatti, il Ce.Gi. aveva rinunciato alla domanda nei loro confronti e, prima ancora, nei confronti della De.Ma., per cui non vi sarebbe stata alcuna sua domanda verso As.Ca. giustificante la sua condanna alle spese. E nella riassunzione con notifica ai soggetti non nominativamente individuati non sarebbe rinvenibile “alcuna specifica domanda, non potendo al momento della notifica (impersonale e collettiva) sapere se vi sia stata o meno accettazione dell’eredità”.
Da tutto ciò conseguirebbe che “non essendoci domanda di condanna della As.Ca. non vi poteva essere soccombenza nei suoi confronti ed in mancanza della soccombenza non è giustificabile la condanna alle spese”.
1.2 Lo stesso ricorrente, ricostruendo la vicenda processuale, dichiara di avere notificato collettivamente e impersonalmente agli “eredi” (come recita l’articolo 303, secondo comma, c.p.c.), e che dopo la valida notifica si era costituita, all’udienza del 5 aprile 2018, As.Ca. eccependo il difetto di legittimazione passiva sia per lei sia per gli altri coeredi, per avere tutti rinunciato all’eredità prima della valida notifica del ricorso in riassunzione; in seguito, cioè all’udienza del 9 maggio 2018, sempre secondo l’esposizione dei fatti processuali fornita dal ricorrente stesso, quest’ultimo aveva rinunciato “alla domanda resa nei confronti di De.Ma. e, per essa, ai suoi eredi”.
È evidente pertanto che, quando si è costituita, As.Ca. aveva in effetti un concreto interesse a farlo, e ciò si è riflesso in sostanza sulla sua contestazione avverso l’esercizio, da parte del Ce.Gi., della facoltà della notifica collettiva e impersonale, contestazione diretta a informare della già intervenuta rinuncia all’eredità; e non si può non riconoscere che, laddove vi è un effettivo processuale interesse, la parte che ne è titolare ha diritto alla rifusione delle spese sostenute per la sua attività processuale diretta a tutelarlo. Del resto, la notifica collettiva e impersonale è una facoltà e non un obbligo; se la parte se ne avvale va incontro al rischio dell’evocazione in giudizio di un soggetto che ha rinunciato all’eredità e che ha interesse a costituirsi in giudizio per contestare la attribuita qualità di erede.
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Il motivo, pertanto, è infondato.
2. Il secondo motivo denuncia, ex articolo 360, primo comma, n.4 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli articoli 2697 e 1218 c.c. quanto all’onere della prova dell’adempimento della prestazione contrattuale.
2.1 Mentre il primo giudice aveva qualificato il contratto stipulato dalle parti come una mediazione immobiliare atipica, il giudice d’appello lo ha ricondotto allo schema del mandato, deducendone la non necessità dell’iscrizione dell’attuale ricorrente all’albo dei mediatori di cui alla L. 39/1989, necessità che era stata invece ritenuta dal Tribunale. Tuttavia, la corte territoriale ha rigettato la domanda del Ce.Gi. ritenendo non provata la sua prestazione (si riporta, a pagina 6 del ricorso, lo specifico passo della pronuncia sulla insufficienza delle fornite “tre sole prove documentali attestanti una partecipazione attiva del professionista alla procedura di esproprio”).
La motivazione del giudice d’appello sarebbe inficiata, però, “da un’intima contraddittorietà” tra premesse e conclusioni.
Se, infatti, il contratto è qualificabile mandato, “onere del creditore è solo quello di dedurre l’esistenza del rapporto”, mentre il suo inadempimento o inesatto adempimento dovrà essere provato da controparte. E nel caso in esame l’onere probatorio del ricorrente/creditore sarebbe stato “ampiamente assolto, non risultando dubbia l’esistenza del contratto e l’esecuzione della prestazione”, per cui non vi sarebbe neppure bisogno di invocare l’insegnamento di S.U. 13533/2001 (ricorso, pagina 7). Attribuendo espressamente al professionista “l’onere di provare l’effettivo svolgimento dell’attività resa nell’interesse dei convenuti” (sentenza, pagina 11), la corte territoriale violerebbe “il canone interpretativo richiamato” dalle suddette Sezioni Unite nonché gli articoli 1218 e 2697 c.c.
2.2 La prospettazione del ricorrente è infondata.
2.2.1 Anzitutto, non si può non rilevare che è affetta da una certa ambiguità, per non dire contraddittorietà, laddove da un lato si afferma che il ricorrente avrebbe “ampiamente assolto” il proprio onere di prova, identificandone un duplice oggetto, “l’esistenza del contratto e l’esecuzione della prestazione”, e dall’altro si sostiene che erroneo sarebbe attribuire al professionista “l’onere di provare l’effettivo svolgimento dell’attività resa nell’interesse dei convenuti”.
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Dal richiamo, tuttavia, alla ben nota S.U. 30 ottobre 2001 n. 13533 (“In tema di prova dell’adempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto e del relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo della pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l’altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione)…”, subito dopo precisandosi che tale principio di diritto “trova un limite nell’ipotesi di inadempimento delle obbligazioni negative, nel qual caso la prova dell’inadempimento stesso è sempre a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l’adempimento e non per la risoluzione o il risarcimento”) si evince che quel che realmente viene affermato con questo motivo è la sufficienza del titolo contrattuale quale fonte del diritto di compenso, non dovendo la parte che chiede il compenso provare alla controparte – qui, al mandante – il previo adempimento della obbligazione corrispettiva – qui, l’attività conferita al mandatario/attore -.
2.2.2 Non è questo il luogo per approfondire la regola generale tracciata da S.U. 30 ottobre 2001 n. 13533. È sufficiente invece rilevare che la sussistenza di una regola generale – che è, ontologicamente, anche una norma “di chiusura” – non impedisce al sistema di includere species strutturali che se ne distolgano, qualora siano inequivocamente evincibili a livello normativo. E ciò tanto più se la regola generale è nettamente giurisprudenziale, benché sia il frutto dell’approfondito scandaglio nomofilattico di norme sottese.
Nel contratto di mandato, è ben comprensibile che la struttura sinallagmatica non consente di far discendere il diritto di corrispettivo del mandatario dal mero titolo, occorrendo previamente il suo adempimento, di cui il corrispettivo è proprio la “risposta” del mandante.
Il contratto di mandato costituisce invero – per quanto questa risalente species dottrinale sia ancora invocabile – una esemplare fonte di obbligazione di mezzi per il mandatario, obbligazione il cui adempimento costituisce il presupposto del corrispettivo da parte del mandante. Il che emerge, precipuamente, dagli articoli 1712 e 1713 c.c., l’uno con il primo comma obbligante il mandatario a “senza ritardo comunicare al mandante l’esecuzione del mandato”, e l’altro prevedente l’obbligo del rendiconto. Tali dati normativi, unitamente al complessivo confronto/contrasto con la figura della mediazione, dalla quale sovente (e anche qui, non a caso, ciò è avvenuto in sede di merito) occorre distinguere il mandato – ne è suscitata un’ampia giurisprudenza -, hanno sempre connotato questa forma contrattuale, svincolandola da quella regola generale “di chiusura” che si basa sul titolo in sé.
Il mandato impone al mandatario, appunto, di comunicare di avere eseguito il suo incarico, e di farlo “senza ritardo”. Tale comunicazione logicamente non è da intendersi come una mera informazione a favore del mandante, bensì pure attesta che l’adempimento del mandatario, ovvero riesecuzione del mandato”, ha fatto insorgere il suo diritto al relativo corrispettivo – la comunicazione dovendo ovviamente includere, seguendo la logica prima ancora che i sempre attivi canoni di buona fede e correttezza, fatti veritieri e idonei a costituire appunto l’adempimento -.
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2.2.3 La giurisprudenza di questa Suprema Corte il più delle volte si è incentrata sulla distinzione del mandato dalla mediazione, ma al contempo ha dato sempre per certo, in modo più o meno espresso, che il diritto del mandatario insorge all’esito dell’adempimento della sua obbligazione.
Così, da ultimo, tra gli arresti massimati, Cass. sez. 3, ord. 8 febbraio 2024 n. 3568 afferma, esaminando un caso peculiare di estinzione del mandato, che il diritto di credito del mandatario è esigibile in forza di un’attività anteriormente svolta (recita in motivazione: “Il diritto di credito è divenuto esigibile solo in un momento successivo all’estinzione del mandato, ma pur sempre in forza di una attività posta in essere prima”); Cass. sez. 3, 17 novembre 1997 n. 11387 riconosce espressamente che, in forza del conferimento di mandato, “il mandatario si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto di un mandante che, a sua volta, si obbliga a corrispondere di un compenso per l’opera svolta”; Cass. sez. 3, 14 giugno 1988 n. 4032 insegna che chi accetta l’incarico del mandato ha l’obbligo di curarne l’esecuzione ed acquista il diritto al compenso indipendentemente dal risultato raggiunto (precisamente sull’autonomia, nella fattispecie del mandato, dall’esito dell’operazione svolta per ottenere il corrispettivo – all’opposto della fattispecie della mediazione – v. pure Cass. sez. 2, 10 gennaio 2019 n. 482, Cass. sez. 3, 24 giugno 1993 n. 7008 e Cass. sez. 1, 29 maggio 1980 n. 3531). Più specifica di tutte, peraltro, l’ormai risalente Cass. sez. 3, 3 settembre 1985 n. 4585 enuncia che il mandatario, proprio ai sensi degli articoli 1712 e 1713 c.c., “deve senza ritardo comunicare al mandante l’esecuzione del mandato, rendergli il conto del suo operato e rimettergli tutto ciò che ha ricevuto a causa del mandato. L’adempimento di tali obbligazioni è condizione dell’azione per il pagamento del corrispettivo spettante al mandatario il quale, pertanto, ha l’onere di fornirne la prova”.
2.2.4 A questa linea ermeneutica il Collegio intende dare seguito e conferma, giacché, con un’evidenza rinvenibile soprattutto nell’articolo 1712, primo comma, c.c., il dettato normativo configura il mandato non come fonte di un “immediato” diritto del mandatario, bensì come un contratto regolato da una piena corrispettività, nella cui struttura esecutiva il mandatario è tenuto per primo ad adempiere la propria obbligazione per dare effettività a quella, contrapposta, del mandante. In definitiva, l’esecuzione del mandato è parte del fatto costitutivo del diritto al compenso ed alle spese e deve essere allegata e provata al pari del titolo.
Il motivo, in conclusione, non è fondato, in quanto non rispetta il principio – che si vuole chiaramente ribadire – per cui fatto costitutivo del diritto al corrispettivo ed alle spese del mandatario non è solo il titolo rappresentato dal contratto di mandato, ma anche l’esecuzione del mandato medesimo.
3. Il terzo motivo denuncia, ex articolo 360, primo comma, n.4 c.p.c., nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 2697 c.c. e 115 c.p.c. quanto alla non contestazione e all’ammissione di fatti controversi.
3.1 Il motivo viene proposto in subordine al precedente.
Si sostiene che la corte territoriale “non abbia correttamente valutato se in applicazione dell’art. 115 c.p.c. e del cd. principio di non contestazione si possa ritenere (senza sottoporre alla Corte valutazioni… rientranti nel merito…) che l’esecuzione della prestazione da parte del Ce.Gi. non sia stata mai espressamente contestata dai convenuti e, dunque, non fosse bisognevole di prova”. Seguono alcune brevi argomentazioni che ciò confermerebbero.
3.2 La censura è inammissibile ai sensi dell’articolo 366, primo comma, nn.3 e 6 c.p.c. per quanto ora si verrà a evidenziare.
Invero, nella premessa del ricorso non sono indicate le specifiche attività che effettivamente l’attuale ricorrente abbia svolte per adempiere al mandato, elencando soltanto che cosa “l’incarico lui (sic) affidato prevedeva”, cioè “una serie estesa di facoltà”; e rimane ad un livello radicalmente generico la successiva affermazione: “Le attività afferenti all’incarico assegnato culminarono infine nell’esproprio…”.
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Nel motivo in esame, poi, si giunge a una conferma di tale carenza, dichiarando che la controparte “nella propria comparsa di costituzione e risposta espressamente imputava al Ce.Gi. di non aver compiuto tutte le attività elencate implicitamente, ma inequivocabilmente, non contestando che le opere esposte dall’attuale ricorrente erano state quantomeno parzialmente eseguite”. Dunque, secondo lo stesso Ce.Gi., quel che aveva fatto lo aveva elencato “implicitamente”; e che un elenco implicito sia poi anche inequivocabile è ictu oculi una valutazione di parte, non un dato oggettivo. Il riferimento seguente alle “opere esposte dall’attuale ricorrente” è d’altronde, per così dire, “vuoto”, non consentendo di conoscere alcuna di esse.
4. Il quarto motivo denuncia, ex articolo 360, primo comma, n.5 c.p.c., omesso esame di un fatto decisivo, che sarebbe la “prova in atti dell’esecuzione della prestazione professionale”.
Si afferma anzitutto l’inapplicabilità, nel caso concreto, dell’articolo 348 ter c.p.c., perché, mentre il primo giudice ha qualificato negozio mediazione, il secondo giudice lo ha ricondotto al mandato.
Si dipana, a questo punto, l’illustrazione di “una serie di fatti rilevanti e decisivi” che sarebbero stati oggetto di “una completa obliterazione”: e ciò tramite la trascrizione di un’ampia parte della conclusionale d’appello, tutta vertente sui fatti (ricorso, pagine 9-12), per dedurne infine che, anche se fosse attoreo l’onere probatorio e non si considerassero “gli effetti della non contestazione”, il giudice d’appello sarebbe incorso nel “mancato esame di fatti rilevanti e decisivi per l’esito della controversia”, così erroneamente pervenendo “a ritenere provata l’esecuzione della prestazione… omettendo di spiegare ed esaminare la rilevanza dei fatti emergenti dall’attività istruttoria”.
4.2.1 Deve subito rilevarsi, per la sua immediata evidenza, che quanto viene dedotto nel motivo non è riconducibile al paradigma dell’articolo 360, primo comma, n.5 c.p.c., poiché, lungi dall’identificare uno specifico fatto decisivo e discusso oggetto di omesso esame, si impernia su un ampio compendio degli elementi probatori che, in sede d’appello, il ricorrente già aveva invocato per l’accertamento di merito, con l’estesa trascrizione della comparsa conclusionale del gravame e la significativa parte finale del motivo in cui si imputa alla corte territoriale di avere omesso “di spiegare ed esaminare la rilevanza dei fatti emergenti dall’attività istruttoria”.
Si tratta, dunque, di un inammissibile perseguimento di un terzo grado di merito.
4.2.2 Peraltro, a monte sussiste un’altra ragione di inammissibilità: pur avendo i due giudici di merito diversamente qualificato il contratto stipulato dalle parti, l’oggetto del loro vaglio fattuale è rimasto naturalmente il medesimo, per cui non è sostenibile l’inapplicabilità dell’articolo 348 ter c.p.c., ratione temporis qui applicabile.
5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente a rifondere alle controparti, liquidate come da dispositivo.
Seguendo l’insegnamento di S.U. 20 febbraio 2020 n. 4315 si dà atto, ai sensi dell’articolo 13, comma 1 quater, D.P.R. 115/2012, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento al competente ufficio di merito, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello del ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere ai controricorrenti le spese processuali, liquidate per Te.Cl. in un totale di Euro 3000, oltre a Euro 200 per gli esborsi e agli accessori di legge, e per As.Ca. in un totale di Euro 1100, oltre a Euro 200 per gli esborsi e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’articolo 13, comma 1 quater, D.P.R. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento al competente ufficio di merito, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello del ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 27 maggio 2024.
Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2024.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Le sentenze sono di pubblico dominio.
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