Domande ed eccezioni non accolte in primo grado ed onere di riproporle in modo specifico

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|| n. 74.

Domande ed eccezioni non accolte in primo grado ed onere di riproporle in modo specifico

In materia di procedimento civile, in mancanza di una norma specifica sulla forma nella quale l’appellante che voglia evitare la presunzione di rinuncia ex articolo 346 cod. proc. civ. deve reiterare le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, queste possono essere riproposte in qualsiasi forma idonea ad evidenziare la volontà di riaprire la discussione e sollecitare la decisione su di esse. Tuttavia, pur se libera da forme, la riproposizione deve essere fatta in modo specifico, non essendo al riguardo sufficiente un generico richiamo alle difese svolte ed alle conclusioni prese davanti al primo giudice (Nel caso di specie, la Suprema Corte, richiamato l’enunciato principio, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata in quanto la corte d’appello, nel revocare la sentenza di fallimento di una supersocietà di fatto, aveva erroneamente ritenuto che la curatela fallimentare non aveva espressamente ed efficacemente riproposto, in sede di reclamo, la domanda svolta in via subordinata in primo grado ad altro titolo di declaratoria di fallimento di una c.d. “holding di fatto”). (Riferimenti giurisprudenziali: Cassazione, sezione civile III, ordinanza 13 novembre 2020, n. 25840).

Ordinanza|| n. 74. Domande ed eccezioni non accolte in primo grado ed onere di riproporle in modo specifico

Data udienza 5 dicembre 2023

Integrale

Tag/parola chiave: Procedimento civile – Impugnazioni – Giudizio di appello – Domande ed eccezioni dell’appellante non accolte in primo grado – Onere di riproporle in appello – Forma – Mero richiamo alle difese ed alle conclusioni del primo giudizio – Inidoneità – Principio riaffermato in sede di giudizio di reclamo avverso sentenza dichiarativa di fallimento. (Rd, n. 267, articoli 15, 18 e 147; Cpc, articolo 346)Procedimento civile – Impugnazioni – Giudizio di appello – Domande ed eccezioni dell’appellante non accolte in primo grado – Onere di riproporle in appello – Forma – Mero richiamo alle difese ed alle conclusioni del primo giudizio – Inidoneità – Principio riaffermato in sede di giudizio di reclamo avverso sentenza dichiarativa di fallimento. (Rd, n. 267, articoli 15, 18 e 147; Cpc, articolo 346)

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

PRIMA SEZIONE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRO Massimo – Presidente

Dott. VELLA Paola – Consigliere

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere-Rel.

Dott. DONGIACOMO GIUSEPPE – Consigliere

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 20568/2022 R.G. proposto da:

FALLIMENTO RE.MO. SRL IN LIQUIDAZIONE, elettivamente domiciliato in ROMA (omissis), presso lo studio dell’avvocato rappresentato (omissis) RA.RO. e difeso dall’avvocato (omissis) BO.GI.

– ricorrente ­

contro

St.In., Ma.In., Ca.In., R. SRL UNIPERSONALE, elettivamente domiciliati in NAPOLI (omissis), presso lo studio dell’avvocato RA.NI. (omissis) che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato RE.TE. (omissis)

– contro ricorrenti –

avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di NAPOLI n.67/2022 depositata il 04/08/2022 . Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 05/12/2023 dal Consigliere ANDREA FIDANZIA.

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FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 4145/2022, depositata in data 19.7.2022, la Corte d’Appello di Napoli ha accolto il reclamo proposto dalla R. s.r.l. Unipersonale, St.In., Ma.In. e Ca.In. avverso la sentenza n. 117/2021, depositata il 20.8.2021, con cui il Tribunale di Napoli li aveva dichiarati falliti, per estensione ex art. 147 comma 5° legge fall., quali soci della supersocietà di fatto composta dagli stessi soggetti sopra indicati con la fallita RE.MO. s.r.l. in liquidazione. Il giudice d’appello, dopo aver preliminarmente osservato che, affinché possa ritenersi di fatto costituita tra una società, anche di capitali, già dichiarata fallita, ed altri soggetti una cd. supersocietà di fatto, è necessario che sia data rigorosa dimostrazione che tutti i soci siano animati dall’intento di esercitare in comune l’impresa apparentemente riferibile solo ad uno di essi con lo scopo di dividere gli utili, la siffatta società deve ritenersi esclusa tutte le volte in cui la società cui è apparentemente riferibile l’attività di impresa tenga condotte volte a favorire a suo discapito – e dunque a discapito dei suoi creditori – gli interessi di coloro che si ipotizza siano suoi soci, mancando in tal caso l’elemento essenziale della affectio societatis. Il giudice d’appello ha quindi ritenuto insussistente, nel caso di specie, la supersocietà di fatto alla luce dei medesimi dati fattuali indicati dalla curatela ed accertati dal giudice di primo grado -la RE.MO. s.r.l. era di fatto amministrata dai fratelli In.St., Ma.St. e Ca.In., benché sua amministratrice risultasse formalmente la madre di costoro, Ma.Il.; i fratelli In. prelevavano o ricevevano dai conti correnti bancari della RE.MO. di s.r.l. somme di denaro superiori a quelle loro rispettivamente spettanti come lavoratori dipendenti di tale società; la R. s.r.l. aveva il medesimo oggetto sociale e la medesima sede operativa, utilizzava la medesima insegna, i medesimi numeri telefonici, il medesimo sito internet, il medesimo indirizzo di posta elettronica della RE.MO. s.r.l. in un periodo in cui quest’ultima non era stata ancora cancellata dal registro delle imprese e risultava aver acquisito merci dalla società poi fallita verso un corrispettivo di Euro 183.349,04, pagato solo in minima parte -atteso che denotavano l’intento di coloro che amministravano o comunque controllavano la società già dichiarata fallita di svuotarla dolosamente contro il suo interesse, per cui la fallita era stata vittima piuttosto che socia dei reclamanti. Il giudice d’appello ha, inoltre, ritenuto non plausibile che quegli stessi dati di fatto potessero aver indotto i creditori a credere che l’impresa formalmente esercitata dalla fallita fosse, in realtà, sostanzialmente riferibile ad altra società di cui la stessa era socia, piuttosto che ritenere che la predetta società, oltre ad essere indirettamente riconducibile alla famiglia In., non era stata posta in liquidazione, né cancellata dal registro delle imprese, né dichiarata fallita, ma proseguiva normalmente la propria attività imprenditoriale con i propri segni distintivi, i propri recapiti telefonici. Il che escludeva che l’ipotizzata supersocietà di fatto tra la Real Mobil idi Casa s.r.l. e i reclamanti potesse essere dichiarata fallita in ragione della sua mera apparenza. Il giudice d’appello ha, inoltre, ritenuto che i fallimenti dei reclamanti non potessero essere dichiarati “ad altro titolo”, rinvenendo nella situazione fattuale descritta gli elementi costitutivi di una cd. holding, avente ad oggetto la direzione e il coordinamento di più società esercitanti direttamente l’attività commerciale, tesi prospettata dalla curatela in primo grado, sia pure in linea subordinata. Sul punto, la Corte d’Appello ha ritenuto che la curatela non aveva “espressamente” ed efficacemente riproposto, in sede di reclamo, la domanda subordinata, secondo quanto stabilito dall’art. 346 cod. proc. civ. Infine, il giudice d’appello, nel revocare la sentenza di fallimento della supersocietà di fatto, ha condannato la curatela del fallimento RE.MO. s.r.l. alla rifusione delle spese sostenute dai reclamanti, sul rilievo del carattere colposo dell’iniziativa assunta dal curatore, stante la sua palese dissonanza con i principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la curatela del fallimento fallita RE.MO. s.r.l. in liquidazione, affidandolo a quattro motivi. R. s.r.l. Unipersonale, In.St., Ma.In. e Ca.In. hanno resistito in giudizio con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato le memorie ex art. 380 bis.1 cod. proc. civ..

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RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione o falsa applicazione dell’art. 147 legge fall. in relazione all’art. 2247 cod. civ. Espone la curatela di aver fornito, nel caso di specie, indizi gravi, precisi e concordanti di sussistenza di una supersocietà di fatto, rappresentati da un fondo comune, un progetto economico comune, la partecipazione agli utili e alle perdite, elementi fatti propri dalla sentenza del Tribunale di Napoli. Si trattava, in particolare, di un sodalizio in cui i componenti della famiglia In., per il tramite delle proprie società, anch’esse socie della s.d.f., avevano alimentato la complessiva attività d’impresa con il rilascio di garanzie, l’offerta della loro opera professionale, la messa disposizione gratuita dei beni immobili personali. Inoltre, la sovrapposizione degli oggetti sociali della società di capitali, il concreto svolgimento di analoga ed effettiva attività di impresa, la commistione delle passività attraverso operazioni di accollo, gli intrecci personali e di parentela nei ruoli gestori delle società, erano tutti elementi che, congiuntamente, risultavano idonei in concreto ad ingenerare nei terzi l’affidamento di relazionarsi con un unitario centro imprenditoriale di interessi e quindi di configurare anche una s.d.f. apparente.

2. Con il secondo motivo è stato dedotto l’omesso esame di fatti decisivi e/o comunque la omessa, erronea ed illogica motivazione in merito all’esistenza della dedotta società di fatto. Lamenta la curatela che la Corte d’Appello ha escluso la sussistenza di una società di fatto sulla base di una semplice presunzione fondata sulla generica affermazione del principio giurisprudenziale, secondo cui l’esistenza di una s.d.f. va esclusa laddove le singole società perseguano l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo, anche di fatto. Così facendo, il giudice di secondo grado ha omesso l’esame dei requisiti richiesti dalla giurisprudenza per poter accertare l’esistenza di una supersocietà di fatto, di cui può essere fornita la prova anche mediante presunzioni semplici, quali, nel caso di specie: a) l’oggetto sociale analogo a quello della fallita; b) la sostanziale identità della compagine sociale e dell’organo amministrativo nelle società socie di fatto; c) la cessione delle attrezzature della Re.Mo. s.r.l. in liquidazione in favore di R. s.r.l.; d) la stipula di contratti di comodato gratuito con i signori In. per l’esercizio delle attività nei locali “storici” di Napoli; e) l’aver beneficato dell’avviamento della società fallita; f) la sostanziale identità delle denominazioni scelte per la fallita e la R. s.r.l.; g) l’identità della sede legale e delle unità locali; h) l’identità dei dipendenti; i) l’identità dei fornitori. I suddetti elementi non erano stati in alcun modo presi in esame dalla Corte d’Appello nella sentenza impugnata.

3. Il primo e il secondo motivo, da esaminarsi unitariamente in relazione alla stretta connessione delle questioni trattate, sono fondati. Va preliminarmente osservato che, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte (vedi Cass. n. 10507/2016, n. 7903/2020, n. 4784/2023), l’art. 147, comma 5, l.fall. – che trova applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l’impresa è, in realtà, riferibile ad una società di fatto tra il fallito e uno o più soci occulti, ma, in virtù di sua interpretazione estensiva, anche laddove il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, ad una società di persone (cd. supersocietà di fatto), non assoggettata ad altrui direzione e coordinamento -postula la rigorosa dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che dev’essere tendenzialmente conforme, e non contrario, all’interesse dei soci. E’ stato quindi sovente ritenuto che la circostanza che le singole società perseguano, invece, l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo, anche solo di fatto, costituisca, piuttosto, una prova contraria all’esistenza della supersocietà di fatto, essendo, semmai, indice dell’esistenza di una holding di fatto (che può anche essere una società di fatto: Cass. n. 23344 del 2010; Cass. n. 3724 del 2003).

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Va, tuttavia, osservato che il fatto che vi possa essere l’abuso di una società da parte di una o più persone (fisiche e giuridiche) che ne hanno il controllo (anche solo di fatto) nell’interesse proprio delle stesse, non esclude, comunque, la possibile sussistenza tra le stesse persone e la società così abusata (cioè piegata ai fini d’interesse dei suoi soci o soggetti che di fatto la governano) di un rapporto societario di fatto, almeno tutte le volte in cui alla iniziale affectio tra tali persone e la società, sia subentrato, in forza di una modifica ed evoluzione in concreto degli originari accordi o per effetto di essi (art. 2497-septies c.c.), l’esercizio di un abuso su quest’ultima, e cioè la violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale della stessa, da parte di chi, tra gli originari partecipi di un rapporto societario di fatto con la società abusata, era, per una ragione o per l’altra, in condizione di farlo (cfr. gli artt. 2497-sexies e 2359 c.c.). Non è, peraltro, incompatibile con la sussistenza del rapporto societario non formalizzato tra persone fisiche e una o più società di capitali (e la sua prosecuzione tra le stesse fino al recesso di fatto di una delle stesse o alla sua esclusione in conseguenza del suo fallimento ovvero alla cessazione in fatto dell’attività d’impresa comune), il fatto che queste ultime, sin dall’inizio oppure in seguito, siano state, in concreto, programmaticamente volte a farsi carico dei debiti conseguenti all’attività comune in misura superiore rispetto agli utili ad esse riservati o comunque ricevuti (e le persone fisiche, simmetricamente, ad assumere debiti in misura inferiore rispetto ai vantaggi patrimoniali ricevuti).

Se è pur vero che la partecipazione agli utili ed alle perdite, in relazione al conferimento eseguito, costituisce duplice elemento essenziale ed inscindibile della partecipazione sociale, differenziando il socio dal semplice associato, resta, nondimeno, fermo il principio per cui “l’esclusione dalle perdite o dagli utili, in quanto qualificante lo status del socio nei suoi obblighi e nei suoi diritti verso la società e la sua posizione nella compagine sociale, secondo la previsione dell’art. 2265 c.c., viene integrata quando il singolo socio venga per patto statutario escluso in toto dall’una o dall’altra situazione o da entrambe”; “quando, per contro, sussista una regolamentazione” (che può essere assunta anche in via tacita e nella stessa forma modificata nel corso della società) “della partecipazione al rischio ed agli utili in misura non coerente al capitale conferito, ci si troverebbe in presenza di espressione di autonomia statutaria nella regolamentazione della partecipazione al rischio, non rientrante nella previsione della nullità in esame” (in questi precisi termini, Cass. n. 8927 del 1994; Cass. n. 642 del 2000). Esulano, pertanto, dal divieto tanto le pattuizioni intercorse tra i soci (anche di fatto) di una società di persone che regolano la partecipazione degli stessi al rischio e agli utili in misura difforme dall’entità della partecipazione del singolo socio, quanto gli accordi che si esprimano in una misura di partecipazione difforme da quella inerente ai poteri amministrativi o che condizionino in alternativa la partecipazione o la non partecipazione agli utili o alle perdite al verificarsi di determinati eventi giuridicamente rilevanti.

Domande ed eccezioni non accolte in primo grado ed onere di riproporle in modo specifico

La Corte d’Appello non si è attenuta agli esposti principi, atteso che, astenendosi dall’esame della situazione concreta sottoposta alla sua attenzione – non essendo certo sufficiente, ai fini di ricostruzione del rapporto e della organizzazione economica fra i soggetti, il generico riferimento, in alcun modo circostanziato, ai “dati fattuali indicati dalla curatela” -ha escluso la sussistenza di una società di fatto sulla base della superficiale lettura della massima di questa Corte, che richiede, in linea di principio e però sulla base di un criterio di osservazione empirica, la conformità del comune intento sociale perseguito dalla supersocietà di fatto all’interesse dei soci; la Corte d’Appello non ha minimamente indagato se l’eventuale abuso fosse stato programmato sin dall’origine, da quando i soggetti della invocata (dalla curatela) supersocietà di fatto avevano iniziato ad interagire o fosse stato solo il frutto della violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale da parte di chi, tra gli originari partecipi di un rapporto societario di fatto con la società abusata, era, per una ragione o per l’altra, in condizione di farlo. Così operando, il giudice di secondo grado ha omesso un approfondito esame dei requisiti richiesti dall’art. 2247 cod. civ. e per come intesi in giurisprudenza per poter accertare l’esistenza di una supersocietà di fatto.

4. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 18 l. fall. e 346 c.p.c.. Espone la curatela che nella comparsa di costituzione e risposta del giudizio di reclamo aveva rassegnato le seguenti conclusioni: “1) rigettare l’avverso reclamo, per essere lo stesso infondato in fatto e in diritto, confermando la sentenza di fallimento n. 117 del 20.08.2021 e, comunque, accogliere le domande rassegnate; 2) in subordine, accogliere comunque le domande formulate dalla Curatela del Fall. RE.MO. S.r.l. in liq.ne con il proprio ricorso ex art. 15 l. fall. e 147 l. fall., iscritto in data 22.12.2020”. La curatela ha, preliminarmente, richiamato quanto già dedotto nel proprio ricorso introduttivo, in subordine rispetto alle prime domande, ovvero che la società di fatto composta dai germani Ma.In., Ca.In. e St.In., Lu.Tr. e Ma.Il. e dalla R. S.r.l. aveva senz’altro abusato della fallita RE.MO. S.r.l. in liquidazione (come, del resto, aveva fatto in precedenza con la Ne. S.r.l. in liquidazione, con la RE.MO. S.a.s. di Ma.In. e con la RE.MO. S.r.l. in liquidazione, tutte da tempo cancellate dal Registro delle Imprese e/o fallite), esercitando l’attività di direzione e coordinamento della stessa in violazione delle regole di corretta gestione imprenditoriale (cd. holding di fatto).

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Nel caso di specie, vi era stata una abusiva e costante attività di eterodirezione posta da tale società in danno della fallita che ne aveva seriamente compromesso le sorti sacrificandola, sull’altare dell’interesse superiore del gruppo. La curatela aveva concluso la propria domanda subordinata evidenziando che anche la holding di fatto può essere dichiarata autonomamente fallita, ove ne sia accertata l’insolvenza a richiesta di uno dei soggetti legittimati, chiedendo quindi il fallimento della predetta “holding”. Ciò premesso, ad avviso della curatela, a fronte del tenore letterale delle richieste contenute nella comparsa di costituzione in sede di reclamo, appare inequivoca la volontà del Fallimento di proporre, in subordine rispetto alla domanda di rigetto, anche la domanda proposta in via gradata nel primo giudizio. In ogni caso, il cd. effetto devolutivo pieno che caratterizza il giudizio di reclamo ex art. 18 l. fall. impone l’inapplicabilità dei limiti previsti dagli artt. 342 c.p.c. e 345 c.p.c., sicché le parti sono abilitate a proporre altresì questioni non affrontate nel giudizio innanzi al tribunale, anche in considerazione del carattere indisponibile della materia controversa e degli effetti della sentenza di fallimento, che incide su tutto il patrimonio e sullo status del fallito. Ad avviso della curatela, se la tutela offerta dalle (attenuate) regole di forma previste per il procedimento camerale vale per la posizione del reclamante, non si vede perché vi debba fare eccezione la posizione della Curatela resistente, portatrice di altrettanti interessi da preservare.

5. Il motivo è fondato. Va osservato che è orientamento consolidato di questa Corte (cfr. Cass. n. 25840/2020) in materia di procedimento civile – ma applicabile anche al procedimento camerale fallimentare – quello secondo cui, in mancanza di una norma specifica sulla forma, l’appellante che voglia evitare la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c. delle domande ed eccezioni non accolte in primo grado, deve riproporle in qualsiasi forma idonea ad evidenziare la volontà di riaprire la discussione e sollecitare la decisione su di esse. Tuttavia, pur se libera da forme, la riproposizione deve essere fatta in modo specifico, non essendo al riguardo sufficiente un generico richiamo alle difese svolte ed alle conclusioni prese davanti al primo giudice. Ad avviso di questa Corte -che è giudice anche del fatto per le questioni processuali -le conclusioni, in via subordinata, svolte dalla curatela nella comparsa di costituzione del giudizio di reclamo con richiamo specifico alle conclusioni svolte dalla stessa curatela nel proprio “ricorso ex art. 15 l. fall. e 147 l. fall., iscritto in data 22.12.2020” (in cui era pacificamente contenuta la predetta domanda subordinata) sono idonee ad evidenziare la volontà della parte di riproposizione di tale domanda, svolta in primo grado, di declaratoria di fallimento della “holding di fatto” (non esaminata solo in quanto assorbita per effetto della declaratoria di fallimento della supersocietà di fatto), in caso di accoglimento del reclamo sul fallimento della supersocietà di fatto. D’altra parte, la circostanza che in primo grado la curatela avesse chiesto, in via principale, la declaratoria di fallimento della supersocietà di fatto – domanda accolta e già oggetto del giudizio di reclamo -non può far sorgere alcun dubbio che la curatela, che in via principale aveva chiesto il rigetto del reclamo, nelle conclusioni subordinate svolte in sede di reclamo, non potesse che riferirsi alla domanda subordinata svolta in primo grado di fallimento della cd. holding di fatto.

Domande ed eccezioni non accolte in primo grado ed onere di riproporle in modo specifico

6. Il quarto motivo – con cui è stata dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 147 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 come modificato dall’art. 366, co. 2, del d.lgs. 12 gennaio 2019, n.14, in relazione all’art. 96 (quanto al ritenuto carattere colposo dell’iniziativa del curatore per la declaratoria della supersocietà di fatto e dei suoi soci) – è assorbito. La sentenza impugnata deve essere quindi cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, per nuovo esame e per statuire sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie i primi tre motivi del ricorso, dichiara assorbito il quarto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, per nuovo esame e per statuire sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma in data 5 dicembre.2023.

Depositato in Cancelleria il 2 gennaio 2024.

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